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#Medina. Algeri, “una strana mistura di anarchia, follia e fascino”

Le parole del romanziere Waciny Larej e del suo “Don Chisciotte ad Algeri” ci guidano alla scoperta di una città imbevuta di storia, cultura e incroci mediterranei. Una città, tuttavia, che sembra aver smarrito memoria e amor proprio sotto i colpi di una classe politica corrotta e golosa, di una modernizzazione miope e dell’inurbamento selvaggio.

 

Algeri, magnifica città senza senso, uccello libero. Meretrice amata. Peccato che uno scrittore, innamorato della mia città, abbia detto queste parole prima di me. Avrei voluto che fossero mie. […] – così Hsissen, voce narrante del romanzo, comincia il suo lungo racconto.

Tutto ebbe inizio un bel mattino d’estate. Una dolce brezza marina carica dei profumi dei boschi vicini percorreva le alture e le valli del Palazzo della Cultura. Ancora non si era formata quella pesante massa di umidità che, a mezzogiorno, rende difficile la respirazione e insopportabile la plumbea pesantezza della città, infiacchisce i corpi e li fa apparire come spugne di Bab al-Wad, simili a facce rugose e avvizzite di donne molto anziane.

In realtà Algeri non è la città natale di Waciny Larej, cresciuto nella regione di Tlemcen, di marcato retaggio andaluso, che ha lasciato tracce profonde nell’immaginario dello scrittore. Ad Algeri ci è arrivato per lavoro, professore di letteratura all’università, dopo svariate peripezie che lo hanno portato prima a Damasco e poi in Francia.

“In principio non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti della città. Non la conoscevo bene ma a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; ho iniziato a frequentare la Casba, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano dalla quotidianità vissuta in questo angolo povero e remoto”, spiega Larej nel corso di una lunga intervista.

“Ho iniziato ad approfondirne la storia, la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Mi sono perso dietro alle storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, musicisti, artisti, come per esempio Delacroix, o grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant”.

Mi diressi verso la Villa Medici. Volevo che il mio compagno la scoprisse e dimenticasse la precedente delusione. Gli raccontai la storia della casa nascosta nella pineta. Il primo proprietario di cui si ha memoria fu Muhammad Aga […]. Dopo l’occupazione dell’Algeria divenne un ospedale per i soldati francesi. Nel 1846 fu data in affitto al giardino botanico, fino al 1905, quando entrò in possesso del governatore generale francese. Venne restaurata e trasformata in Casa degli artisti. Ci soggiornarono grandi pittori, Delacroix, Fromentin, Roche, Grosse, Dinet e molti altri. Nei loro quadri si trova il riflesso del fascino delle montagne e dell’azzurro del mare e del cielo di questa città. […] Oggi appare in rovina, ma è ancora lì, sullo sfondo del mare azzurro con le sue pietre bianche e tegole verdi.

“La storia di Algeri – continua Larej – è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai turchi, e poteva capitare che lo stesso rais non fosse né arabo né berbero. Spesso proveniva da contesti lontani, o era addirittura un ‘rinnegato’, come nel caso del grande Khair Eddine o del suo successore Hassan Agha”.

Questi sono i sotterranei dell’enorme piazza del Governo, dove si trova uno degli ingressi a queste gallerie, accanto ai ruderi della fortezza marina munita di 36 cannoni, costruita dopo la spedizione di Lord Exmouth nel 1816. Una parte importante dell’arsenale ottomano era qui. Nel 1837 sono state aggiunte altre gallerie al piano terra e al primo piano. Pilastri di nove tonnellate lunghi venti metri sono stati piazzati per sorreggere la statua del duca d’Orléans. Per costruire la piazza del Governo sono stati distrutti molti monumenti, compresa la storica moschea al-Makaisiyya.

“Studiare Algeri, leggerla, scoprirla, viverla ogni giorno, è servito a riconciliarmi con la città, ad amarla e a scrivere di lei, quasi a volerle restituire un passato e una ricchezza che stava finendo in macerie, come gran parte della nazione”, rivela lo scrittore che ha concepito Don Chisiotte ad Algeri – opera intrisa di elementi autobiografici – nei primi anni novanta, poco prima di dover abbandonare il paese sotto la minaccia terrorista.

“Algeri è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia e con questo libro ho tenuto a ribadire che l’Algeria tutta è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante”.

Sono rimasto a lungo appoggiato al muretto della terrazza che circonda tutto il porto vecchio. Ho avuto l’impressione che la città non fosse tanto pericolosa quanto la si descrive normalmente. Non ho notato nulla di insolito o che potesse destare timore. Algeri, al pari di tutte le città mediterranee dà un’impressione di familiarità, era come se ci fossi già stato. Ti invita a scoprire luoghi e odori.

Il Don Chisciotte protagonista del romanzo non è il celebre cavaliere errante, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. È deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida – in quello che Larej definisce un “viaggio iniziatico” – fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto).

[…] sognavo di andare alla scoperta di una città, ma è stata la città stessa a venire da me, con i suoi gerani, fiori di cassia e profumi, con i suoi costumi, le sue leggende e un miscuglio di cattivi odori simili al fetore delle carogne.

Ad Algeri il Don Chisciotte ‘moderno’ incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che li avvicina, mentre sullo sfondo rimane una città inghiottita dal soffocante binomio sviluppo/modernità: il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e un sistema politico corrotto e geloso dei propri interessi dimostra la sua inefficienza.

Far scoprire Algeri al mio ospite sarebbe stata una riscoperta anche per me. Avevo dimenticato i tratti essenziali della mia città. Il pensiero di Hsissen tradisce ancora una volta le intenzioni dell’autore il quale, prima rintanato per mesi in un anonimo rifugio e poi partito in esilio “volontario” a Parigi, ha bisogno di ripercorrere i luoghi cari e denunciare il degrado urbanistico e morale che sembra risucchiare l’umanità e le bellezze di Algeri.

Don Chisciotte de Almeria non sapeva molto di Algeri né della grotta di Cervantes trasformata in un immondezzaio che come un cancro rosicchiava l’intera collina che porta il nome del grande scrittore. Bisognava spiegargli le difficoltà che avrebbe incontrato il suo progetto, ma facendo in modo da non indurlo a rinunciare. […]

Raccontai a Don Chisciotte del porto e gli mostrai il punto dove Cervantes sbarcò al suo arrivo ad Algeri. Adesso, il porto vecchio, da quando i terroristi hanno ucciso alcuni marinai sgozzandoli sulle loro brande con la complicità di un sottufficiale, fa parte di una zona militare, chiusa al pubblico e sottoposta a stretta vigilanza. E’ rimasto accessibile solo un minuscolo tratto di mare e, più in là, il porticciolo dei pescherecci.

Ce n’erano alcuni attraccati al piccolo molo che scaricavano il pesce appena pescato, prima di tornare di nuovo in mare. « So di certo che questo è il luogo dove Cervantes sbarcò perché è qui che attraccavano le navi del comandante Hasan. Questo è il porto antico, l’unico posto ancora esistente della zona storica. Tutto il resto è stato distrutto per far spazio ad un grande parcheggio […] quando il comune e la provincia hanno dato inizio al programma di ammodernamento […] ». « Questo modo di procedere non fa onore ad Algeri. La città acquisisce la propria fisionomia durante un lungo cammino storico. Demolirla costituisce una perdita irreparabile ».

Pagina dopo pagina, Waciny Larej si batte per difendere la memoria di una città che sente profondamente sua nonostante la lunga lontananza forzata.

Attraversammo il terrazzo che si affaccia sul mare e passammo per l’enorme edificio della sede sindacale. Per raggiungere il popoloso quartiere di Belcourt bisognava percorrere il giardino botanico. Fino a poco tempo addietro il giardino ospitava migliaia di piante e fiori provenienti da ogni parte del mondo. Oggi è spoglio e triste, le piante sono appassite, è invecchiato precocemente.

Lo attraversammo, l’ambiente sembrava desolato, privo di vita, malato, umido, insensato, ma stranamente, nonostante fosse in rovina e venisse continuamente devastato, aveva un suo fascino. […] Don Chisciotte non fece commenti. Lasciammo il giardino in silenzio e cominciammo a risalire le alture che portano alla caverna di Cervantes. Superati i laboratori del centro Pasteur ci trovammo davanti ai ruderi della fontana e del Caffè dei Platani.

Era un’antica abitudine dei musulmani benestanti costruire fontane per i viandanti. Algeri ne era piena. Le fontane, dall’architettura snella, spesso ornate con ceramiche andaluse, avevano delle nicchie ricoperte di marmo, come piccoli bagni, offrivano acqua e ristoro ai viandanti nelle ore più calde.

Lo stato di abbandono in cui si trovavano ci rese più cupi. Sembravano due tombe in un deserto! La piccola targa commemorativa veniva oscurata dal passaggio della teleferica che porta al monumento ai caduti e che proiettava la sua ombra grigia sopra la collina di al-Hama.

Larej si confessa amante appassionato della città, che conosce nei più profondi recessi, nei segreti presenti e in quelli celati tra le rughe. La esplora con lo stesso stupore della prima volta e con lo stesso spasimo soffre per ogni nuova ferita, ogni nuovo oltraggio che le viene inflitto.

In questo, come in altri suoi romanzi, lo scrittore racconta di Algeri l’altra faccia della luna, quella taciuta e quella che intreccia la Storia, e in questo suo narrare si fa cacciatore di silenzi, dà luce e voce all’inespresso, all’invisibile, componendo un racconto plurale e polifonico.

[il Peñon] è un isolotto di fronte ad Algeri chiamato la roccia alta, peñon appunto, che Pedro Navarro aveva occupato. Vi aveva costruito una fortezza; i cannoni minacciavano Algeri e paralizzavano il porto costringendo le navi a restare in mare davanti a Bab al-Wadi oppure ad attraccare in un punto insicuro.

Una spina nel cuore dei musulmani, dicevano i giannizzeri. Khayruddin Barbarossa, deciso a strappare quella spina, intimò al comandante della fortezza Martin Vargas di lasciare l’isolotto e al rifiuto di questi sferrò l’attacco. I cannoni di Vargas colpirono Algeri distruggendo le case sulla collina e la moschea al-Bahriyya. I cannoni del Barbarossa riuscirono invece a demolire gran parte delle mura e due torri del Peñon. Il comandante spagnolo chiese aiuto a Carlo V che in quel momento era più preoccupato della sua incoronazione in Italia che di Vargas. Una flottiglia spagnola mandata in soccorso fu intercettata e distrutta dalla marina ottomana. Dopo venti giorni di assedio Khayruddin sferrò l’attacco finale. La fortezza spagnola fu rasa al suolo e Vargas impalato.

“Quando penso ad Algeri, oltre all’amore e alla nostalgia, non posso far a meno di confrontarmi con altri sentimenti. La rabbia, l’amarezza – ammette tuttavia Waciny Larej -. Quando si ama qualcosa ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. Proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso gli aspetti negativi, che vorremmo cambiare e in cui non ci riconosciamo”.

Ripercorrendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero, lo scrittore coglie l’occasione per criticare duramente il processo di sviluppo urbano post-indipendenza.

“E’ sempre più difficile distinguere l’Algeri di un tempo. La bella città che era, con la sua parte coloniale e la città vecchia, una Casba vitale, piena di energia. Una volta partiti i francesi tutto questo doveva essere conservato, dal momento che tale dualismo era comunque un sistema rodato e permetteva di preservare un habitat consolidato. Ma le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state altre… Oggi la cittadella turca – pur essendo riconosciuta patrimonio Unesco dell’umanità – è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato”.

Guardai l’edificio principale dell’università, era sempre bello. Un giorno aveva rischiato di ospitare la sede della Direzione Generale della Sicurezza Nazionale, ma la mobilitazione di studenti e docenti e degli “amici della vecchia Algeri” sventò il pericolo. Gli eventi dell’ottobre 1988 misero comunque fine a quel tentativo. Altrimenti sarebbe stato cancellato un altro tassello della memoria storica della città. La mafia che spadroneggia nel paese è insaziabile, ingurgita tutto. Sono trent’anni ormai che gli immobili di proprietà dell’università subiscono un costante assedio, senza tregua.

La vecchia residenza del rettore è stata fagocitata dall’ingordigia di un uomo di potere che l’ha trasformata nella sua abitazione privata. La stessa sorte è toccata agli edifici dell’università che si affacciano su via Didush Murad. La mensa, la caffetteria, il circolo studentesco Abdurrahman Taleb, la biblioteca…sono stati trasformati in pizzerie e agenzie di viaggio che organizzano pellegrinaggi. L’ultima preda è stato il Lotus, il caffè principale dell’università, diventato oggi un negozio che vende stoffe importate da Taiwan, dalla Siria, dalla Cina e dai magazzini Tati. Un vero accozzame di stracci. […] Gli edifici della città universitaria sono stati rosicchiati in questo modo, in silenzio, con molte complicità, grazie all’incuria e alla dilagante mediocrità culturale.

“Non sono un urbanista, ma un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Quello che si è prodotto negli ultimi quarant’anni, invece, è un autentico disastro – prosegue lo scrittore -. C’è una nuova città che cinge il nucleo urbano originario con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, cinema, caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio”.

Un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che rendono l’insieme di case e palazzi un vero centro urbano, secondo Larej.

“La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una enorme bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a baraccopoli sterminate mascherate di cemento”.

Giungla di cemento è proprio l’espressione usata dallo scrittore nelle pagine del suo Don Chisciotte: selve di palazzi in cui si ha l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli.

“Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva. Tutto quello che rimane ad Algeri, in questo senso, è la città coloniale, con i suoi luoghi di incontro dove si possono condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece in queste cité-bidonvilles il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni”.

Nel romanzo Larej si sofferma sulle ferite inflitte alla città, sul suo volto oscuro messo in contrapposizione all’anima solare e colorata di cui Algeri non è ancora riuscita a privarsi, nonostante l’inettitudine e la voracità della classe politica, la corruzione e la diffusione dell’integralismo religioso.

“Questa città è emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della sua storia che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio”.

[Algeri] Non sarebbe così degradata se lo Stato fosse presente. Qui tutto è meraviglioso, i colori, la gente, la vivacità, i bambini, le rose di sabbia, la storia che c’è dietro, il suo sedimentarsi, un granello alla volta attraverso i secoli, nelle burrasche. Persino il mare è straordinario, rende tutto più vivace, le persone, la verdissima vegetazione e dona agli alberi secolari il profumo delle sue onde, dei suoi colori riflessi.

Ma quanti degli antichi alberi d’Algeri sono ancora in piedi? Dov’è il grande platano che copriva la residenza del day della Casba e che la leggenda popolare vuole che già esistesse al tempo del Barbarossa? E i melograni e il giardino di Lallahum? Non ci sono più né il fico né nel vicolo del Salice, né la palma vicino al sepolcro di sidi Abdulqadir che ombreggiava il pendio frequentato dai mercanti che dal meridione venivano a vendere cammelli. E dove sono finiti gli ulivi di Hama e quelli del quartiere delle Fonti e i salici e i pioppi che adornavano le fonti del capitano Murad (Birmandreis)? E l’enorme palma di sidi Abdurrahman e i cipressi che nella tradizione avevano l’età del santo? Non esiste più il noce dell’antica moschea di sidi Ramadan che faceva ombra alla fontana delle abluzioni dove migliaia di fedeli si purificavano prima di entrare a onorare il santo.

Oggi tutto questo è stato sostituito da alti edifici che hanno cancellato la memoria della città. Una mentalità ottusa ha distrutto un crogiolo in cui sono confluiti tanti colori e tante genti: moriscos, ebrei, rinnegati cristiani ed europei di ogni tendenza, avventurieri, romantici innamorati, scienziati.

E’ una società più complessa di quanto sembra, in cui è possibile ciò che altrove sarebbe impossibile e in cui non si può fare ciò che ovunque sarebbe ovvio e banale. Algeri è fatta di luce sfuggente che crediamo di afferrare ma invece ci sfugge dalle dita burlandosi di noi. All’improvviso un giorno ci siamo ritrovati di fronte ad una città chiusa su se stessa, irriconoscibile, che a sua volta non ci riconosceva, anzi odiava noi, la sua essenza e la sua storia.

« Le città non hanno colpa. Sono sempre un crocevia di colori e di bellezze. Sono le persone che distruggono tutto con i loro rancori e la loro grettezza. Sono capaci di trasformare i giardini in cimiteri ». […]

Per l’ultima volta guardai dalla finestra un mare che cambiava colore dal blu al nero. Guardai la città adagiata in riva al mare. Sembrava una donna nuda, piacevolmente arrendevole. Subito dopo si era annerita, sembrava cenere, era diventata un ammasso di carne flaccida, di sporcizia, di inganno e silenzio.

 

 

* In corsivo nel testo gli estratti dal libro di Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri, Ed. Mesogea, Messina, 1999, traduzione dall’arabo di Wasim Dahmash.

 

April 13, 2014di: Jacopo Granci (testo e foto)*Algeria,Articoli Correlati: 

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