A gennaio i riflettori si sono riaccesi sulle proteste scoppiate in Tunisia. Lontani dalla Capitale e dai centri del potere politico, i giovani prosegono in un’azione dirompente di ridefinizione degli spazi pubblici e delle frontiere interne.
A gennaio di quest’anno i riflettori si sono riaccesi sulle manifestazioni e le proteste scoppiate in varie regioni della Tunisia a partire dalle vicende di Kasserine, città del centro ovest della Tunisia.
In quel caso, la miccia che ha fatto esplodere la tensione è stata la protesta disperata di Ridha Yahyaoui, giovane laureato disoccupato che, appresa la propria esclusione da una lista d’attesa per un posto nel settore pubblico, aveva deciso di arrampicarsi su di un traliccio di fronte alla sede del Governatorato, rimanendo folgorato.
La tragica morte del ragazzo e le proteste che ne sono seguite hanno rotto il disincanto su una democrazia ancora troppo giovane per dirsi stabile e hanno fatto irruzione sulla scena mediatica internazionale in maniera imponente, visibilizzando quanto già da tempo si stava denunciando internamente in termini di frustrazione delle aspettative rivoluzionarie e di restaurazione autoritaria.
A scosse intermittenti infatti, il terremoto sociale che scuote la Tunisia è ormai attivo da anni, dimostrando che i processi sociali profondi restano vivi e procedono in parallelo e slegati da una transizione politica ed istituzionale che avanza con difficoltà ma seguendo la sua road map.
Lontanissime dal teatro politico della capitale, dal tappeto rosso del premio Nobel, nell’assenza e nell’indifferenza dei media mainstream, giovani e meno giovani continuano le azioni di protesta in svariate zone del paese, in un’azione dirompente di ridefinizione degli spazi pubblici e delle frontiere interne.
Da sud est al nord ovest, una linea rossa di continuità nella marginalizzazione che rivendica uno spazio di visibilità. La rioccupazione degli spazi da parte dei corpi in rivolta si estende verso latitudini e prospettive diverse accumunate dalla stessa voglia di contare, di dare una svolta all’insostenibilità dell’esistenza, di vedere ascoltate le rivendicazioni contro i muri delle elite che si affannano per silenziarle in una smania di controllo e sicurezza. Alcuni flash ci descrivono meglio questa realtà in sommovimento.
Una lunga occupazione della sede del governatorato rivendica il diritto al lavoro e alla trasparenza, l’avvio di processi seri per i casi di corruzione nell’amministrazione locale, l’applicazione di misure di discriminazione positiva per le regioni interne.
Dalle periferie marginalizzate, svariati gruppi di persone decidono di raggiungere Tunisi, in molti casi dopo faticose marce a piedi, per puntare direttamente al fulcro del potere decisionale, dopo l’assenza di risposte dall’amministrazione locale ancora non eletta e rappresentativa.
Una delegazione di Kasserine, eterogenea e composta da giovani e meno giovani, da donne uomini e bambini, di diversa estrazione sociale, raggiunge Tunisi.
Da tre mesi un sit-in autogestito sta occupando lo spazio di fronte al ministero dell’Impiego e della Formazione Professionale. Inascoltato e in una situazione di intollerabile attesa, Il presidio saprà anche costruire nuove forme di protesta e di rivendicazione: esempio ne è l’organizzazione di un’inedita “festa del disoccupato” il 30 aprile scorso, che unirà manifestanti a gruppi di artisti di strada per richiedere visibilità delle rivendicazioni sociali e il diritto di usare gli spazi pubblici.
Allo stesso modo un gruppo di persone provenienti da Gafsa, regione altrettanto insorgente e ugualmente dimenticata, decidono di sovvertire simbolicamente gli spazi fisici, prendendo direzioni opposte.
I primi, verso nord, il centro del potere. Dal sit-in di Gafsa e con rivendicazioni simili al gruppo di Kasserine, un continuum di protesta che li porta in otto giorni di marcia a spingersi nella capitale, direzione piazza della Kasbah, il luogo dove si materializza il decision making process del paese.
Una marcia di 450 chilometri che ricorda quelle dei manifestanti nei giorni della rivoluzione, che verrà poi bloccata dalla polizia alle porte della periferia di Tunisi di Tunisi. I manifestanti cercano comunque di mantenere attivo il sit-in nonostante la violenza armata dei ripetuti tentativi di sgombero della polizia che li accerchia e li blocca in un parco alle porte della capitale.
Altri decidono invece di prendere la direzione contraria. Da Gafsa partono due gruppi di persone che avviano una marcia simbolica verso il territorio limitrofo algerino dopo il fallimento delle negoziazioni con le autorità locali tunisine, con l’obiettivo di superare la frontiera e abbandonare la cittadinanza tunisina. Faticano a definirsi cittadini perché l’unico legame che rivendicano con il proprio Stato è la carta d’identità.
Siamo nel minuscolo arcipelago situato a pochi chilometri dalla capitale economica Sfax, a suo tempo culla del sindacalismo tunisino. Sulla falsariga di un movimento di contestazione che prende avvio nel 2011, nuovamente da qualche mese 267 persone manifestano contro il governo.
Al centro delle proteste, la disoccupazione e il mancato rispetto degli impegni presi dal governo nel 2015 per la promozione di meccanismi di impiego sostenibili e stabili rispetto all’unica opportunità lavorativa nella zona: l’industria di estrazione di gas Petrofac.
Una smisurata presenza poliziesca e militare occupa l’isola reprimendo violentemente il movimento, trasformando nuovamente la crisi sociale in crisi securitaria e sminuendo le richieste della popolazione.
Il clima turbolento non è inusuale in Tunisia, se si pensa che nel 2015 il Paese ha vissuto 4.288 movimenti sociali che trovano per la maggior parte in queste regioni interne il proprio epicentro.
Le immagini che arrivano da Kasserine, Sidi Bouzid, Gafsa, Kerkennah ce lo confermano e ridisegnano il processo rivoluzionario come un continuum storico che si riproduce e si rinnova a partire dalla rivolta del bacino minerario di Gafsa nel 2008, mescolando rivendicazioni politiche, sociali ed economiche.
Se è vero che la regione di Kasserine è l’unica ad aver presentato il proprio caso di fronte all’organo incaricato del processo di giustizia transitoria, l’Istanza Dignità e Verità, come regione “vittima di marginalizzazione ed esclusione organizzata e sistematica”, la situazione in cui versa tutta la fascia delle regioni interne è tuttora quantomai preoccupante, nonostante l’illusione del cambiamento formale.
Per questo i sommovimenti scoppiano nei punti nevralgici del paese dove la questione sociale si identifica con quella regionale.
Se l’ingiustizia elitista è presente anche nelle regioni costiere, in primis concentrata sull’asse modello dell’industria del turismo e in dinamiche di corruzione endemica, è la maggior parte del paese assente dalle cartoline turistiche a versare in un’alienazione che vede la questione delle distribuzione delle risorse come chiave e che affonda le sue radici già nel periodo coloniale.
Le ricchezze naturali di cui il paese è ricco (cerealicole, minerarie, petrolifere, idriche) sono state da sempre gestite in maniera diseguale piegando le regioni interne in una desertificazione territoriale e sociale.
Sin dall’epoca coloniale e durante i sei decenni d’indipendenza, l’80% del territorio è stato utilizzato come bacino di materie prime e di forza lavoro a basso costo per sviluppare il “centro” economico e politico del Paese concentrato nelle regioni costiere del nord e dell’est.
Come sottolinea Habib Hayeb, geografo tunisino, una svolta verso un modello di sviluppo sostenibile e una giustizia sociale, ambientale e regionale, che riconosca dignità e sovranità a queste regioni è la chiave per colmare una ferita aperta nel paese costruita su un rapporto di subordinazione e oppressione centro-periferia.
Una riflessione ancora oggi importante, se si pensa che gran parte della conseguenze sono frutto delle politiche neo-liberali adottate negli anni ’80 a favore di un agricoltura industrializzata fatta di monocolture orientate all’esportazione, a discapito dell’agricoltura tradizionale dei piccoli e medi contadini e proprietari terrieri, traducendosi in particolare nell’accaparramento delle risorse agricole da parte dei grandi investitori e nella dispossessione della terra per i prodottori locali.
Un processo che vede come questione cruciale, ribadita in queste ultime proteste, proprio quella dell’accesso alla terra.
Se parlando della Rivoluzione del dicembre 2010-gennaio 2011 è raro leggere riferimenti diretti alla questione fondiaria e dell’accesso alla terra, una lettura geografica incita invece ad interrogarsi sull’importanza dei luoghi e delle specificità nelle dinamiche sociali sorte a partire da Sidi Bouzid nel dicembre 2010.
La questione fondiaria in ambito rurale figura tra le ragioni di giustizia e ingiustizia spaziali e potrebbe essere considerata come sottostante ai movimenti di contestazione al regime in Tunisia, come sottolinea Mathilde Fautras.
Un’ingiustizia che fatica a colmarsi e che la rivoluzione non ha rimesso in discussione. Questo scenario rischia di aggravarsi con l’approvazione frettolosa di un nuovo accordo di libero scambio tra la Tunisia e l’Unione Europea, il cosiddetto ALECA, suscettibile di riprodurre una serie di grottesche ripercussioni economiche e sociali in una situazione di forte precarietà e di faticosa ricerca di un modello di sviluppo economico che rispetti le specificità del contesto.
Nonostante i termini dell’accordo siano ancora segretati a Bruxelles, l’accordo parte con una negoziazione poco equilibrata che potrebbe portare alla distruzione dell’economia nazionale e in particolare delle piccole produzioni agricole su cui si regge il paese.
I movimenti che si sono riattivati nel mese di gennaio rispondono perfettamente alla situazione socio-economica estremamente dura in cui versa il paese, in cui anche la dinamica della società civile organizzata risente di un forte dualismo regionale.
Da un lato le grandi organizzazioni strutturate e concentrate nella capitale Tunisi, spesso promosse da militanti di lunga data, sovente scollate dai processi che nascono dal basso. Dall’altro, un universo di piccole organizzazioni della società civile emerse con la rivoluzione del 2011 nelle regioni interne e ben radicate sul territorio e alle rivendicazioni della base, ma spesso marginalizzate nei processi di concertazione politica.
In questo quadro complesso si delinea una grave crisi di delegittimazione dei movimenti organizzati, siano essi sindacati o organizzazioni della società civile, considerati non rappresentativi e incapaci di prendere posizione e portare avanti le rivendicazioni costruendo un discorso che possa proporre alternative a un modello dominante fallimentare a livello economico e politico.
Tutti i nuclei di rivolta si contraddistinguono oggi per una chiara volontà di rivendicare l’indipendenza e una dinamica di autogestione, che cerca di riportare sul scala locale le sfide democratiche della rappresentanza e eleggibilità.
L’assenza di una forza organizzata in grado di recuperare e dare sostegno politico e organizzativo alle proteste sociali rappresenta oggi, però, uno dei punti principali di debolezza.
Le tensioni sociali esplosive e disorganizzate e il riemergere dei movimenti sociali non costituiscono di per loro una vittoria politica, ma testimoniano che le ragioni della rivolta persistono immutate e che non riescono a canalizzarsi in movimenti politici più organici capaci di definire proposte sociali ed economiche alternative.
Le proteste persistono, ma con un metabolismo basale che ha le sembianze di una sottile e caparbia sopravvivenza, ma non le energie per costruire un’alternativa.
L’unico attore politico con una base sociale e regionale abbastanza forte da poter essere in grado di recuperare la proteste sarebbe potuto essere l’Unione Generale Tunisina dei Lavoratori (UGTT), parte del Quartetto riconosciuto dal Nobel, storico sindacato dei lavoratori.
La stessa da sempre è caratterizzata da una capacità di riunire rivendicazioni sociali e politiche, un elemento inedito in altri paesi arabi che hanno vissuto le rivoluzioni, compreso l’Egitto.
Come sottolinea la ricercatrice Hela Yousfi, l’UGTT è stata considerata soprattutto dagli analisti occidentali come emanazione della sinistra progressista e come organizzazione partigiana, quando invece il sindacato da sempre riunisce istanze diverse che è riuscito a tenere insieme in un fragile equilibrio interessi diversi, dalla sinistra democratica agli islamisti, per arrivare ad emanazioni del vecchio regime.
Se questa è sicuramente stata una forza del movimento sindacale tunisino che ha permesso allo stesso anche di assumere un ruolo fondamentale nella fase del dialogo nazionale, la stessa specificità ha impedito invece all’UGTT di diventare una vera forza politica di rappresentanza, essendo appunto emanazione di visioni politiche molto diversificate.
La sua stessa implicazione nella dinamica del dialogo nazionale ha fatto perdere la legittimità rivoluzionaria al movimento sindacale, considerando che il risultato di questo processo ha portato certo ad evitare derive violente di guerra civile, ma dall’altro ad annientare il processo rivoluzionario, costruendo un’alleanza tra il vecchio regime – rappresentato dall’UTICA, altro attore del dialogo nazionale e dal partito al governo Nidaa Tounes poi – e gli islamisti conservatori.
Se il compromesso significa un’alleanza funzionale tra due anime controrivoluzionarie – rappresentanti del vecchio regime e islamisti conservatori che oggi governano insieme – in un’armonia di visioni neo-liberali a livello economico e repressive in termini di diritti, allora il compromesso è esattamente l’antidoto alle rivendicazioni rivoluzionarie sociali ed economiche.
Questo quadro di compromesso rappresenta l’output del dialogo nazionale premiato col Nobel e nasconde una serie di iniziative che colpiscono al cuore il processo di giustizia transitoria, come per esempio la proposta di legge di riconciliazione nazionale, che prevede l’amnistia di vari reati economici e di corruzione commessi prima della rivoluzione e che viene promossa oggi come una priorità bipartisan, nonostante la mobilitazione che è riuscita in prima istanza a bloccarne la discussione in Parlamento.
La voglia di costruire alternative in Tunisia è però ancora forte e si sviluppa in modi diversi, in un’esplosione di realtà e progettualità minori in dimensioni ma non per importanza.
Più lontane dai riflettori sono le storie cha raccontano delle diverse forme di resistenza che gli spazi di libertà della rivoluzione hanno premesso di far emergere.
Da quella delle 65 operaie della fabbrica tessile Mamotex, a Echebba (Governatorato di Mahdia), che dopo una lunga esperienza di sfruttamento lavorativo in subappalto stanno con le unghie cercando di costruire un’alternativa di autogestione sostenibile e di recupero della produzione.
A quella dell’oasi Jemna (Governatorato di Kebili), dove l’Associazione di Protezione dell’Oasi ha ripreso il controllo dei palmeti per avviare un’esperienza di recupero e autogestione delle terre da parte della comunità locale, dove l’interesse collettivo prevale su quello individuale.
Un’esperienza di gestione partecipata del territorio che mette fine a una lunga storia di ingiustizie e che sta ridando lavoro a numerosi contadini e contadine della zona e reinvestendo i profitti della vendita dei datteri in opere pubbliche nella cittadina di Jemna, dalla ristrutturazione di scuole, all’acquisti di ambulanze, dalla costruzione di un centro sportivo, a quella di un mercato coperto per i produttori locali.
Ma il paese è anche testimone di un’esplosione di mobilitazione giovanile che si declina in forme nuove, artistiche e creative, in nuovi spazi promossi da collettivi giovanili che a tutte le latitudini rivendicano libertà e diritti, il riconoscimento del loro esistere con linguaggi nuovi.
Nuove produzioni teatrali, cinematografiche, un tripudio di festival animano gli spazi pubblici e se ne appropriano. Espressioni giovanili di arte e di azione che rimettono in discussione le dinamiche sociali tradizionali, che creano un dibattito sui diritti individuali, che svelano le questioni tabou come quello delle le libertà sessuali e di scelta personale.
Nel cuore del mese di maggio Tunisi ospita la seconda edizione del Festival Choufthounna di Arti Femministe che investe la capitale con artiste di vari paesi e dibattiti sui diritti e le espressioni creative di donne con un approccio pluridisciplinare.
Emergono con forza anche le identità, in un’esplosione di diversità tale che spesso queste identità in fermento si scontrano con un’accettazione sociale difficile in una società ancora prevalentemente tradizionale.
Impossibile non citare un fiorente movimento LGBTQI che rivendica i diritti delle minoranze sessuali e che sta imponendo proprio negli ultimi mesi un dibattito pubblico forte, contrastato da una resistenza sociale che si declina spesso in gravi espressioni omofobe, come la campagna lanciata da alcuni gestori di locali per vietare l’ingresso agli omosessuali nei bar o nei taxi.
Le nuove libertà si scontrano anche con le pratiche repressive legate ad articoli vetusti del Codice Penale tunisino che criminalizzano l’omosessualità (l’articolo 230 del Cp) e con vecchie abitudini dello stato di polizia che aumentano la crescente frustrazione della gioventù in fermento.
Sull’onda delle due dittature precedenti, anche il nuovo stato post – rivoluzionario utilizza la repressione come mezzo per annullare le differenze ma che oggi ormai sono emerse e sono state favorite dall’apertura democratica.
Simbolico il caso del gruppo di giovani musicisti “El fan slah” (“l’arte è un’arma”) che milita per suonare la musica liberamente nelle strade di Tunisi a cui la polizia intima, dopo un arresto di qualche ora, di firmare un impegno a non utilizzare più lo spazio pubblico per esprimersi.
Le risposte delle autorità sin dalle prime manifestazioni di gennaio si rivelano surreali e demagogiche e ricordano brutalmente pratiche paternaliste del passato, configurando una crisi dello stato di salute della fragile democrazia tunisina.
Invece di rispondere alle esplosioni di collera prendendo in considerazione il malessere sociale il potere gioca invece sul trattamento palliativo esclusivamente legato alla sicurezza, che non fa altro che aumentare il disagio rassicurando le richieste di stabilità senza affrontare la ridefinizione delle politiche di sviluppo. Le autorità giocano la carta del terrorismo, presagendone l’infiltrazione tra i manifestanti per neutralizzare il movimento.
In ultimo, ma non meno grave, il segnale del governo è quello di non poter contenere i movimenti sociali attraverso il coprifuoco e lo stato di emergenza, l’ennesimo di questi ultimi cinque anni che che pesa sul già fragile tessuto economico e produttivo del paese.
E’ importante ricordare che tra il 2011 e il 2015 in Tunisia lo stato di emergenza è stato decretato ben 24 volte e per un totale di 1274 giorni (ovvero il 72% degli ultimi cinque anni, come ricorda il sito indipendente di Nawaat). Ne consegue la strumentalizzazione della minaccia terroristica per giustificare leggi anti-democratiche e un’escalation di arresti e operazioni di polizia che sembrano più che altro finalizzate a mettere a tacere voci scomode, a minacciare le libertà individuali riconquistate con forza dopo la rivoluzione ma oggi considerate pericolose per la sicurezza e l’ordine pubblico.
Non solo il rivendicare il lavoro e i diritti diventa un crimine, ma il tentativo di delegittimazione dei movimenti sociali da parte delle autorità è capace di attivare lo spauracchio del terrorismo per accusare gli stessi manifestanti provenienti dalle regioni interne come affiliati a gruppi terroristi.
Il paradosso sussiste nel fatto che proprio in quelle regioni la popolazione stia denunciando da tempo l’abbandono dello Stato in determinati territori in cui si è radicato il terrorismo, pensiamo alla richiesta di protezione inascoltata degli abitanti di Seliana, caso documentato dal sito indipendente Inkyfada.
In questo quadro è un sistema basato sul tentativi di restaurazione del vecchio regime a farla da padrone.
Se la road map della transizione ha compiuto il suo corso in Tunisia, portando all’approvazione della nuova Costituzione, richiesta a gran voce dalla piazza della Casbah nel 2011, ad una consultazione elettorale democratica nell’autunno del 2014, le riforme strutturali e di applicazione del nuovo quadro legislativo tardano invece ad arrivare.
Il rapporto di Al Bawsala, organizzazione dinamica e impegnata nella promozione della buona governance e della trasparenza, offre un quadro preoccupante dell’applicazione della nuova Costituzione, simbolico di quanto ancora sia embrionale il processo di costruzione di uno Stato di diritto in cui cittadine e cittadini possano realmente definirsi tali.
E nel cui vacuum trovano ancora spazio arresti arbitrari, torture e violazioni dei diritti in nome della lotta al terrorismo.
Proprio nell’ottica di preservare l’”eccezione tunisina” e le sue specificità, che portano anche su una vivacità culturale trasversale alle varie classi sociali e regionali, è importante sostenere le iniziative economiche, politiche e sociali di sperimentazioni democratica dal basso che rappresentano la più potente arma contro lo sviluppo del terrorismo e della marginalizzazione.
* Nella foto di copertina, la festa dei disoccupati, 30 aprile 2016. La foto è di Hamadi Zribi diTunisia in Red, che ringraziamo per la gentile concessione.
** Questo articolo è stato originariamente pubblicato su 27esimaora.corriere.it
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