Il governo di Damasco a differenza di quello di Gheddafi, nonostante le fortissime pressioni provenienti dalla comunità internazionale, continua a rimanere stabile al proprio interno determinando una parziale vittoria in sede diplomatica per gli alleati russi, iraniani e cinesi, nonché una sostanziale libertà di azione nella repressione dei ribelli antigovernativi.
di Nino Orto
In realtà, ciò è possibile anche perché la posta in gioco rispetto alla campagna libica è molto più alta e non si limita alla sola sopravvivenza del regime, ma vede l’esecutivo alawita, ultimo rappresentante istituzionalizzato dell’ideologia del panarabismo arabo, come ago della bilancia del possibile cambiamento epocale di un’intera regione.
In Medio Oriente c’è un detto sul conflitto arabo-israeliano che recita: ‘non si può iniziare una guerra contro Israele senza l’Egitto e non si può avere la pace con gli arabi senza l’adesione della Siria‘.
Attualmente, entrambi i paesi sono in fibrillazione, ma mentre in Egitto è in corso una rivoluzione interna per il controllo delle redini del potere, lo scontro che scuote la nazione siriana ha molte dimensioni e ramificazioni che si estendono per tutta la regione a diversi livelli.
Essa è infatti il punto di giuntura dell’equilibrio geostrategico globale tra Stati Uniti e alleati occidentali contrapposti alla Russia, all’Iran, e in modo indiretto alla Cina.
Vecchio Stato vassallo della dissolta URSS, la Siria è lo scacchiere centrale di molti paesi con aspirazioni geopolitiche nella regione.
Il regime di Damasco ospita una base navale di fondamentale importanza strategica per Mosca. E’ inoltre un partner importante del Cremlino nell’industria bellica e nella tecnologia militare nonché fedele alleato da parecchi decenni.
Per l’Iran e gli Hezbollah la Siria è il corridoio di collegamento indispensabile per la difesa ed il mantenimento della “cintura sciita” nella regione, in contrapposizione agli Stati Uniti e ad Israele.
Infine per la Cina, terzo maggiore partner commerciale del paese, che difende in sede diplomatica Damasco per evitare che la fine del regime alawita possa determinare un indebolimento di Teheran e danneggiare gli immensi interessi di Pechino nella nazione persiana, la Siria è anche il banco di prova della sua rinnovata presenza all’interno della regione come paese leader dello SCO (Shangai Cooperation Organisation) e come attore di primo piano nelle questioni di interesse globale.
Ma non è solo con gli amici ‘storici’ che la famiglia degli Assad, negli anni vissuti al potere, ha tessuto alleanze straordinariamente efficienti e capaci di preservarla dalle grandi potenze occidentali.
Ci sono infatti anche vecchi ed attuali nemici a ‘servire’ la causa di Damasco. Israele resta contrario a qualsiasi regime change, anche nel caso in cui il potere dovesse essere affidato ad un nuovo governo islamista sostenuto dall’Occidente.
Quest’ultima opzione preoccupa seriamente Tel Aviv, poiché potrebbe significare una parziale rinegoziazione delle Alture occupate del Golan ed una ripresa delle ostilità su tutta la frontiera nord.
C’è poi l’Iraq, storico nemico di Damasco, che grazie al premier sciita Maliki ha operato nell’ultimo anno un formidabile riavvicinamento diplomatico ed economico con il governo di Bashar, tanto da arrivare a sostenerlo pubblicamente durante l’ultimo Vertice della Lega araba ospitato proprio a Baghdad.
Tuttavia, la posizione più ambigua resta quella della Turchia che dopo quasi un decennio all’insegna del motto “zero problemi con i vicini” propugnata dallo storico ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu, è passata in successione da una crisi diplomatica all’altra.
Dapprima con Israele per l’attacco alla Navi Marmara e l’uccisione di cittadini turchi da parte delle forze speciali israeliane, successivamente con l’Iraq per la questione di Kirkuk e lo sfruttamento dei giacimenti curdi, e infine con la Siria, di cui il recente abbattimento del cacciabombardiere turco in acque siriane da parte della contraerea di Damasco rappresenta solo la punta dell’iceberg.
Ed è proprio Ankara, insieme agli altri grandi paesi sunniti della regione, Arabia Saudita in testa, a propugnare un attacco militare diretto contro il regime ed un maggiore sostegno ai ribelli (come già ampiamente avvenuto).
L’Occidente, al contrario, si trova impelagato in una difficile scelta poiché diviso tra l’interventismo americano e l’atteggiamento molto più cauto degli europei, che preferiscono ancora le sanzioni alle bombe.
Una situazione esattamente speculare alla decisione internazionale in Libia, dove era Washington che mostrava dubbi sull’efficacia dell’azione militare.
Nelle ultime settimane, a differenza della compattezza mostrata contro il satrapo libico, si è assistito ad un continuo cambiamento delle carte in tavola da parte dei principali attori esterni rispetto alla crisi siriana, alternando vere e proprie offensive frontali contro il governo di Bashar al-Assad ad una più moderata ricerca diplomatica di possibili “exit strategy” per Damasco.
L’Unione europea ha più volte affermato l’opposizione a qualsiasi intervento militare in Siria, seguita rapidamente dal forte monito di Kofi Annan sul pericolo di armare l’opposizione siriana.
La Siria minaccia di far esplodere una nuova ondata di inaudita violenza nella regione e, mentre la rabbia settaria può diventare la miccia, l’incendio potrebbe divampare seguendo le principali linee di frattura geopolitica in Medio Oriente, in uno dei confini maggiormente rilevanti per Israele, ed in una fase di transizione storica nella regione.
Gli americani continuano a tastare il terreno per studiare la fattibilità di un supporto esterno stile libico che possa far implodere il regime senza una palese violazione della sovranità della nazione ma, la stabilità ed il consenso del regime tra la maggioranza dei siriani, sta permettendo la sopravvivenza dell’esecutivo alawita facendo naufragare qualsiasi intervento della Nato.
Questo è quello che i russi, cinesi, iraniani e altri paesi BRIC hanno cercato fin dall’inizio: la creazione di uno scudo protettivo intorno la Siria, in modo che abbia tempo e spazio necessario per attuare le riforme interne, non danneggiando le sue priorità geopolitiche e quelle dei suoi alleati.
Come ribadisce il New York Time, non sapremo mai se in Siria nel 2011 sia avvenuta una vera rivoluzione poiché il paese è diventato un campo di battaglia regionale meno di un mese dopo le prime timide proteste da parte della popolazione, che d’altronde non chiedevano inizialmente la destituzione del regime.
Alla luce di tali dinamiche quindi è molto difficile proporre un analisi sul futuro degli Assad e della nazione siriana, ma è tuttavia possibile evidenziare due cose: la prima, positiva, e che la Siria molto probabilmente a differenza della campagna libica, non sarà il teatro di un nuovo intervento ‘militare-umanitario’.
La seconda, più pessimista, è che possa diventare il campo di battaglia di due blocchi regionali contrapposti, proprio come lo fu il Libano per tutti gli anni Ottanta, e scatenare un guerra civile a tutto campo.
July 2, 2012
Arabia SauditaIsraele,Libia,Qatar,Siria,Turchia,Articoli Correlati:
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