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Sahara Occidentale. Dove inizia e finisce la Primavera Araba?

Secondo Noam Chomsky, nel novembre del 2010 la protesta di un gruppo di saharawi dava inizio alle Primavere Arabe. Il bilancio fu di 13 morti tra militari e civili. Oggi restano solo 22 prigionieri nel carcere di Salé, ancora in attesa di conoscere i loro capi di imputazione.

 

 

 

 

di Stefano Nanni

 

Per la BBC fu “la protesta più violenta degli ultimi 35 anni di conflitto”. Il 9 novembre, le forze di sicurezza marocchine facevano irruzione nel campo “della dignità” di Gdeym Izik, vicino Laayoune – nel Sahara Occidentale -, sorto soltanto un mese prima senza autorizzazione governativa. 

Armati di idranti e assistiti da elicotteri intimarono alle persone di sgombrare l’area.

Ma non tutti ‘ubbidirono’. Dopo la resistenza all’interno dell’accampamento, gli scontri si protrassero, violentissimi, per diversi giorni. 

Ghalia Djimi, vicedirettore dell’Associazione per le vittime di violazione dei diritti civili da parte dello Stato marocchino, affermò che “la resistenza era pacifica, nonostante l’aggressione della polizia e della gendarmeria”.

“Per trentacinque anni il popolo saharawi ha pagato un prezzo troppo alto per questo conflitto, e forse ora siamo entrati in una nuova fase”.

Non una manifestazione come le altre, dunque. 

Il comandante della polizia regionale Mohamed Jelmous, che supervisionò l’operazione, disse che lo sgombero era giustificato dalle informazioni in possesso del governo marocchino, secondo cui Gdeym Izik era diventato il rifugio di militanti ed attivisti indipendentisti e non di intere famiglie pacifiche che protestavano per le miserie e le ristrettezze quotidiane.

Pacifiche almeno fino all’intervento delle forze di sicurezza, la miccia che ha scatenato la guerriglia.

“Prima avevamo a che fare con persone che ci lanciavano, al massimo, delle pietre. Ma quel lunedì sembrava di stare in guerra”.

Queste parole trovano riscontro nel numero delle persone arrestate alla fine delle violenze: 168, di cui 22 ancora rinchiusi nel carcere marocchino di Salé. Senza conoscere i loro capi di accusa e senza alcuna possibilità di contatto con il mondo esterno – avvocati a parte – in attesa di un processo.

Passato il clamore dei primi giorni, sui media mainstream non si seppe più nulla del Sahara Occidentale, se non degli sporadici aggiornamenti sui fallimenti della diplomazia nell’annoso e fallimentare tentativo di risoluzione del conflitto.

L’attenzione occidentale si concentrò su ciò che stava succedendo in Tunisia e in Egitto, poi in Libia, Bahrein, Yemen e Siria.

Ma quel 9 novembre non passò del tutto inosservato.

Se ne accorse per esempio il linguista e filosofo americano Noam Chomsky, intervistato in un programma di al Jazeera, il 21 febbraio 2011, esattamente il giorno successivo alla costituzione del movimento “20 febbraio”. 

Il focus della trasmissione era proprio il cambiamento in atto nel mondo arabo e le sue possibili conseguenze su tutta l’area. In particolare a Chomsky venne chiesto se gli Stati Uniti erano davvero consapevoli di ciò che stava accadendo.

“E’ difficile credere che non lo siano. Voglio dire, su internet si può leggere tutto…E non si tratta soltanto di manifestazioni nate in questi giorni. L’attuale ondata di proteste, in verità, ha avuto inizio lo scorso novembre nel Sahara Occidentale, quando le forze marocchine repressero una manifestazione pacifica, distruggendo tende, uccidendo dei civili ed arrestando centinaia di persone”.

Secondo Chomsky, le proteste nate nel campo di Gdeym Izik avevano le stesse radici di quelle tunisine.

“La variabile del conflitto è certamente presente, ma quello che gli attivisti chiedevano era un miglioramento delle condizioni di vita”.

Sarebbe quindi questa la connessione tra quel 9 novembre del 2010 e le cosiddette ‘Primavere Arabe’.

Così come avvenne in Tunisia, dove l’immolazione di Mohammed Bouazizi giungeva in un contesto di malessere sociale caratterizzato da precarietà, crescita del costo della vita e scarse aspettative, così gli abitanti del campo di Gdeym Izik chiedevano al governo marocchino delle misure concrete contro l’alto tasso di disoccupazione e l’innalzamento dei prezzi, nonché la fine dello stato di polizia imposto ai quartieri saharawi di Laayoune e le sopraffazioni commesse dalle forze di sicurezza all’indirizzo della popolazione civile.

Ciononostante, mentre altrove le piazze infiammavano ed i regimi di Ben Ali e Mubarak cadevano dopo decenni di permanenza al potere, nel Sahara Occidentale non ci fu vero seguito agli eventi di Laayoune.

Dei piccoli focolai ci furono a Wakkala, un piccolo villaggio al confine con la Mauritania e a Dakhla, città costiera che ospita numerose industrie di trattamento del pesce e miniere di fosfato. Ma le forze di sicurezza marocchine furono in grado di ristabilire subito l’ordine.

Partendo proprio da Wakkala, il giornalista francese, Olivier Quarante (per Le Monde Diplomatique) s’incamminò verso nord per trovare ‘traccia’ dell’episodio di Gdeym Izik. Di quel 9 novembre restava un crescente odio tra le due comunità. 

Sul piano diplomatico, dal maggio scorso i negoziati tra il Polisario ed i rappresentanti del regno alawita sono di nuovo in stallo, dopo che il Marocco ha ritirato la sua fiducia all’inviato del Segretario generale dell’Onu, Cristopher Ross.

Un evento che conferma il divario persistente tra le posizioni delle due parti in conflitto: referendum per l’autodeterminazione da un lato e inclusione nella propria giurisdizione con concessioni di autonomia dall’altro.

Un’impasse in cui le Nazioni Unite continuano ad oscillare tra la volontà della maggioranza dei membri in assemblea che propende per l’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli  – il Sahara Occidentale è “l’ultima colonia” del continente, come l’aveva definito nel 2011 il rappresentante del Sud Africa alle Nazioni Unite  – e i veti imposti in sede di Consiglio di sicurezza dalla Francia, fedele alleato del Marocco.

Le difficoltà sul piano diplomatico, come pure le ristrettezze e gli abusi inflitti ai saharawi di Smara, Laayoune e Dakhla è stata ribadita ancora una volta nel settembre scorso, quando un rapporto del Kennedy Center (in allegato le osservazioni preliminari) ha denunciato apertamente violazioni sistematiche dei diritti umani nel territorio controllato dal Marocco, sottolineando la fragilità del ruolo della MINURSO – la missione Onu che vigila sul cessate il fuoco dal 1991 -, costantemente subordinata all’autorità delle forze di Rabat e sprovvista di competenze e effettivi per quel che concerne il monitoraggio e la prevenzione delle violazioni.

Per il resto tutto tace.

Il processo dei ventidue detenuti per i fatti di Gdeym Izik era previsto inizialmente per il 13 gennaio scorso, a poco più di un anno dal loro arresto, dato che in Marocco la detenzione amministrativa diventa illegale dopo i 12 mesi.

Ma da allora i rinvii sono stati sistematici, mentre una petizione online continua a chiederne la liberazione immediata.

Questo è quanto rimane della scintilla che avrebbe ‘innescato le Primavere Arabe’.

 

 

3 ottobre 2012 

Allegati: Rapport Centre Kennedy Sahara O. sept 2012 (PDF)Marocco,

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