a cura di Jacopo Granci
La prima Occupy. L’inizio della ‘primavera’.
Così è stata definita la manifestazione pacifica che nell’ottobre del 2010 aveva visto migliaia di saharawi, attivisti e intere famiglie, dar vita a un singolare ‘aventino’ nel deserto.
In quei giorni, a pochi chilometri da Laayoune – principale città del Sahara Occidentale, territorio conteso tra Fronte Polisario e Marocco, occupato e amministrato da quest’ultimo da quasi quarant’anni – era stato eretto l’accampamento di Gdeim Izik.
Il ‘campo della dignità’, per protestare contro le restrizioni e le continue violazioni subite dai saharawi, il peggioramento delle condizioni di vita, l’aumento della disoccupazione e lo stallo dei negoziati patrocinati dall’Onu dopo il cessate-il-fuoco siglato dai due contendenti nel 1991.
Una protesta sociale su sfondo politico, un esempio che ha poi fatto scuola non soltanto nell’area mediorientale.
Un esempio, però, che si è concluso tragicamente. Gli ultimi echi solo qualche settimana fa, quando il tribunale militare di Rabat ha condannato una ventina di saharawi, da oltre due anni in attesa di giudizio, per “omicidio plurimo, resistenza a pubblico ufficiale, distruzione di beni pubblici e associazione a delinquere”.
Ad un mese dalla costruzione del campo, infatti, dopo aver allontanato giornalisti e altri sguardi indiscreti, le forze di sicurezza marocchine erano intervenute violentemente, procedendo allo smantellamento delle tende di Gdeim Izik.
Gli scontri si erano poi protratti per alcuni giorni nella vicina Laayoune: rastrellamenti, arresti arbitrari, ‘caccia’ ai saharawi e la città trasformata in campo di battaglia, secondo le testimonianze raccolte da Human Rights Watch e altre organizzazioni per i diritti umani.
Il bilancio presentato dal governo di Rabat è stato di tredici morti, tra cui undici agenti e due civili (a cui va aggiunto il giovane Nayam, quattordici anni, ucciso prima dell’intervento).
La repressione, gli abusi sui detenuti, le testimonianze giunte dalla carcel negra di Laayoune hanno messo sotto pressione il regno alawita, che ha rilasciato nel corso del 2011 diverse decine di prigionieri fermati durante gli scontri.
Ma non i 24 attivisti finiti di fronte alla corte militare, su cui si è concentrata la ‘vendetta’ marocchina, consumata con la sentenza pronunciata il 16 febbraio scorso. Nove ergastoli (di cui uno in contumacia), lunghe pene detentive (da 20 a 30 anni) e due condanne minori (a due anni di carcere) già scontate in stato di detenzione preventiva.
Nonostante la ‘facciata di regolarità’ offerta durante il dibattimento – accesso agli osservatori internazionali, diritto di parola agli accusati – il processo è stato “viziato sin dal principio”, ricorda un comunicato di Amnesty International, che punta il dito contro il ricorso alla giurisdizione militare, la mancanza di un’inchiesta indipendente sui fatti seguiti alla distruzione del campo e i maltrattamenti denunciati dai prigionieri.
Si è trattato di un ‘processo farsa’ anche per molti degli osservatori internazionali presenti a Rabat, secondo cui le condanne sarebbero state emesse in assenza di prove e sulla base delle confessioni estorte agli imputati sotto tortura (uno dei quali, Enaama Asfari, era stato arrestato alla vigilia dello smantellamento e quindi si trovava già in carcere al momento delle violenze).
Tra l’altro, il ricorso a queste pratiche era già stato denunciato pubblicamente dall’inviato Onu Juan Mendez nel settembre scorso.
La difesa, invece, ha approfittato delle udienze per convocare alcuni testimoni a discarico – rifiutati dal tribunale – e per sottolineare il carattere politico del verdetto: l’interesse degli inquirenti si sarebbe rivolto esclusivamente ad accertare i legami tra gli accusati – organizzatori della protesta ma estranei alla sua degenerazione – e il Fronte Polisario, i loro contatti a Tindouf e la loro esperienza militante in favore dell’autodeterminazione saharawi, piuttosto che dimostrare il loro effettivo coinvolgimento nell’uccisione degli agenti marocchini.
La sentenza è stata accolta “con preoccupazione” dall’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, che proprio in questi giorni sta esaminando il rapporto Mendez e la documentazione fornita da numerose associazioni del regno sulle violazioni commesse dal governo di Rabat.
Anche il Parlamento europeo ha votato una risoluzione destinata all’agenzia di Ginevra, in cui sostiene apertamente la “liberazione dei detenuti politici saharawi” e la necessità di “proteggere i diritti fondamentali in Sahara occidentale, comprese le libertà di associazione, di espressione e di manifestazione”.
Di seguito l’intervista ad Abdrahman Zayou, uno dei due attivisti condannati a due anni di carcere e liberati dopo il processo per aver già scontato la pena. (Articolo di Alba Villén e Pepe Oropesa Rodríguez per Periodismo Humano, traduzione a cura di Rino Finamore)
Abdrahman Zayou è nella sua casa di Laayoune, in cerca di riposo. La sua abitazione è circondata da un grande dispiegamento di forze dell’ordine, che cerca di impedire il contatto tra i giornalisti (essenzialmente stranieri, ndt) e l’ex prigioniero. Le visite degli amici e dei vicini, che vogliono sapere come sta l’attivista, formano un via vai continuo.
Sereno ed emozionato per essere tornato a casa dopo mesi di torture e di privazione della libertà, Abdrahman Zayou racconta il percorso che lo portò in prigione il 21 novembre del 2010, quando stava per lasciare Laayoune, due settimane dopo i fatti di Gdeim Izik (…).
Come è avvenuto il suo arresto?
Mi trovavo in aeroporto per andare a Las Palmas de Gran Canaria, 14 giorni dopo lo smantellamento di Gdeim Izik, quando sono stato arrestato dalla polizia marocchina e sono rimasto due giorni chiuso in caserma.
Dopo gli interrogatori, incentrati sulla mia relazione con il Fronte Polisario e il mio attivismo in difesa dei diritti umani e civili, mi hanno portato a Rabat con un aereo militare, dove il giudice istruttore incaricato del caso ha convalidato il fermo per incitamento alla violenza e responsabilità morale dei fatti accaduti a Laayoune.
Non ho mai fatto mistero del mio attivismo, specialmente dalla fine degli anni ’90 quando ho fatto parte del movimento studentesco saharawi nelle università marocchine. Inoltre coordino un’associazione di intellettuali che non è mai piaciuta alle autorità di Rabat.
La mia partecipazione alla protesta di Gdeim Izik, tuttavia, è stata marginale e si è limitata all’assistenza umanitaria delle famiglie bloccate nel campo dopo l’embargo decretato dalle forze marocchine.
La vera motivazione dell’arresto è stata una mia intervista rilasciata ad al-Jazeera l’8 novembre, il giorno stesso dello smantellamento dell’accampamento, in cui ho denunciato apertamente la politica autoritaria del Marocco e la gravità dell’intervento contro civili inermi.
Come ha vissuto l’attesa in prigione?
La lotta odierna è il risultato della fiamma accesa dal 2005, con l’inizio dell’intifada pacifica saharawi per forzare il muro di silenzio e violazioni al quale il Marocco ci ha sottoposto, come popolo e come esseri umani.
In carcere abbiamo sofferto violenze, torture, tutti i tipi di vessazioni, nella speranza che tradissimo la causa per il diritto all’autodeterminazione.
Le nostre sono condanne esclusivamente politiche, volte a mettere pressione sui dirigenti del Polisario affinché cessino il loro sostegno alla lotta per la libertà in Sahara Occidentale.
Ci sono riusciti?
Quello che è successo a Gdeim Izik e il modo in cui ha agito il Marocco hanno ottenuto il solo risultato di mettere tutti i saharawi, anche quelli favorevoli alla proposta di autonomia regionale (avanzata dal Marocco contro l’ipotesi del referendum sull’indipendenza, ndt), contro il governo di Rabat. In quei giorni, durante il dilagare della violenza, il regno alawita ha attaccato tutti, senza distinzioni.
Tra le vittime della repressione c’erano famiglie pro-monarchiche, ma le loro opinioni non li hanno risparmiati. Come nel 1975 (anno della Marcia verde voluta da Hassan II, ndt) quello che volevano era imporsi su tutto e ad ogni costo, anche sacrificando vite umane.
Cosa prova ora che è tornato in libertà?
Mi sento combattuto e caricato di responsabilità. Devo continuare a lottare per i compagni ancora in carcere. Non conosciamo le ragioni per cui due di noi sono stati rilasciati mentre gli altri sono ancora lì.
Di sicuro la nostra lotta, la mia soprattutto, non finisce qui.
Uscire dal carcere non era un mio obiettivo, ma sfrutterò questa possibilità per continuare la resistenza pacifica, sperando di veder crescere le generazioni future in una terra liberata dall’odio e dalla repressione.
La mia libertà arriverà solo quando vedrò la bandiera saharawi sventolare in Sahara Occidentale e il mio popolo recuperare ciò che gli è stato sottratto decine di anni fa nella forma più crudele e autoritaria possibile.
Se invece di essere scarcerato fosse stato condannato all’ergastolo, come è accaduto ad altri compagni, e l’avessero lasciata uscire solo per un giorno…che cosa avrebbe fatto?
Avrei preso la bandiera del Fronte Polisario e avrei marciato a Rabat (…).
Non aspetteremo tanto tempo per ideare altre forme di protesta simili a quella di Gdeim Izik, sempre pacifiche, e in grado di dimostrare al mondo intero la nostra repulsione per le pratiche degradanti a cui il Marocco ci costringe. Non possiamo dimenticare la generazioni che hanno lottato prima di noi e che hanno dato la loro vita per l’autodeterminazione.
Ci hanno lasciato una grande eredità che dobbiamo mantenere viva nella coscienza del nostro popolo.
20 marzo 2013
Marocco,Articoli Correlati:
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