“Sembra una beffa – dice Bechir, appena fuori dalla baracca di fango – quel pesce è nostro, noi dovremmo esserne i legittimi proprietari. E invece voi europei pagate il Marocco per sfruttarlo, alle nostre spalle”.
Rabuni, campi di rifugiati saharawi, estremo sud-ovest dell’Algeria. Una tienda di alimentari: ortaggi algerini, granaglie e scatolame provenienti dagli aiuti della cooperazione. Tra i barattoli di fagioli e i pacchi di farina, brilla una pila di scatolette rosse.
Sardine Nagjir, c’è scritto sulla confezione, inscatolate a Laayoune, Marocco. Sardine pescate nel mare del Sahara Occidentale, commercializzate dalle aziende marocchine e tornate ai saharawi sottoforma di aiuti umanitari, seguendo gli ineffabili percorsi della cooperazione internazionale.
“Sembra una beffa – dice Bechir, appena fuori dalla baracca di fango – quel pesce è nostro, noi dovremmo esserne i legittimi proprietari. E invece voi europei pagate il Marocco per sfruttarlo, alle nostre spalle”.
Il patto
L’eco degli accordi di pesca, sottoscritti dal regno di Mohammed VI e l’Unione europea il 10 dicembre scorso, è giunta sin quaggiù, in questo lembo arido di deserto algerino, dove da trentott’anni un intero popolo, quello dei saharawi, vive in attesa di una patria.
310 voti a favore, 204 contrari e 49 astensioni. Un verdetto controverso, quello dell’assemblea di Strasburgo, che ha ratificato un protocollo d’intesa per quattro anni con la corona di Rabat. E dire che nel 2011 gli eurodeputati avevano rigettato l’accordo, domandando che fosse più sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico, specialmente in considerazione degli interessi dei saharawi.
“L’intesa è eccellente per entrambe le parti e soddisfa le condizioni richieste nel 2011” rassicura la relatrice spagnola Carmen Fraga Estévez, del Ppe (l’eurogruppo conservatore a Strasburgo). Il pacchetto finanziario concordato con il Marocco ammonta a circa 40 milioni di euro: 30 milioni usciranno dalle casse dell’Ue, metà per compensare l’accesso alle risorse ittiche e l’altra metà a sostegno del settore della pesca nel paese. I 10 milioni di euro rimanenti saranno versati dai proprietari delle navi da pesca degli Stati membri che impiegano le risorse ittiche marocchine. La Spagna in primis, poi Portogallo, Italia, Francia, Germania, Lituania, Lettonia, Irlanda, Olanda, Polonia e Gran Bretagna.
“Undici Paesi membri – spiega la Estévez – consentiranno a 1.500 pescatori, fra cui 500 marocchini, di andare avanti e pescare. Dall’altro lato, il Marocco dovrà provare che questi soldi verranno investiti a beneficio della popolazione saharawi”. Vale a dire dei saharawi che dimorano nei cosiddetti “territori occupati”, il Sahara Occidentale.
Già, perché il grosso di quel popolo (circa 150 mila persone) vive invece in esilio in un Paese terzo, l’Algeria. E non trarrà alcun beneficio dal protocollo d’intesa. Dalle parti di Rabuni, il quartier generale della Repubblica araba saharawi democratica (Rasd), l’accordo suona come l’ennesimo schiaffo.
“L’Europa dovrebbe essere una parte della soluzione a questo annoso problema di diplomazia internazionale – dice amareggiato Mohamed Abdellaziz, presidente di uno Stato riconosciuto dall’Unione africana ma non ancora dall’Onu – in realtà in questo modo è parte del problema”. “Una sconfitta – la definisce anche Omar Mih, rappresentante del Fronte Polisario a Roma – ancora una volta l’Europa permette al regno del Marocco di sfruttare illegalmente le acque territoriali del Sahara Occidentale. Nel 2011 la mobilitazione europea era stata senza dubbio più incisiva e avevamo raggiunto un migliore risultato. Ma la nostra lotta non si ferma”.
Gli interessi spagnoli e francesi
“La lobby spagnola l’ha avuta vinta – commenta ironico Alì, uno degli autisti del protocollo, commentando la notizia, nel bazar all’aperto di Rabuni – gli interessi commerciali contano più delle responsabilità coloniali. E la questione del Sahara può restare in soffitta”.
La Spagna, ex colonizzatrice, si era ritirata nel 1975 dall’allora Sahara spagnolo, con la promessa di rendere possibile il referendum sull’autodeterminazione del popolo saharawi, chiesto dall’Onu già nel 1966 e mai tenuto. Il Marocco di re Hassan II, il 6 novembre del 1975, raccolse il testimone dagli spagnoli, occupando per metà il Paese con una “marcia verde” di 350 mila coloni. L’altra metà venne invasa dalla Mauritania, che si ritirò pochi anni dopo. Negli anni successivi gran parte dei saharawi sono stati costretti all’esilio nei campi rifugiati, accanto alla città algerina di Tindouf.
Nel frattempo il Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro (Polisario) iniziava una guerra di liberazione contro l’esercito marocchino, conclusasi con il cessate il fuoco del 6 settembre 1991. Da allora le Nazioni unite sono presenti con i caschi blu della Minurso (Missione delle Nazioni unite per il referendum nel Sahara Occidentale), che devono vigilare sul rispetto della tregua e creare le condizioni per la tenuta dell’appuntamento elettorale.
Ma a distanza di ventidue anni tutto resta ancora congelato. Ad opporsi è la Francia, alleata del Marocco, il cui parere sull’autodeterminazione, in seno all’Onu, è sempre stato contrario. Un mosaico di interessi geopolitici trasversali, che si intrecciano e si scontrano, tra il Maghreb e l’Europa meridionale. E che, almeno fino a oggi, ha reso impotente la comunità internazionale.
“Da sempre – ancora Alì – denunciamo la spoliazione delle risorse naturali del nostro territorio da parte del regno marocchino. Ma i risultati sono questi”.
L’industria ittica ha un ruolo preminente, dato che il Sahara Occidentale è bagnato da uno dei tratti più pescosi dell’Oceano Atlantico. Ma ancor di più valgono i giacimenti di fosfati, i più estesi del mondo, che si trovano nei pressi di Al Aaiún, quella che dovrebbe essere la capitale del Paese. Secondo dati riportati recentemente dal periodico Jeune Afrique, l’Office Chérifien des phosphates (Ocp) risulta essere la seconda industria del Nord Africa, come giro d’affari annuo, dopo la Socotec, il magnate del gas algerino.
Fosfati e pesce, l’oro del Sahara. L’ultima colonia del continente africano.
Ammalarsi di esilio
Bechir sorseggia il suo primo te all’ombra di una jaima, la tradizionale tenda dei nomadi, nel silenzio della wilaya di Auserd. “Amaro come la vita” sorride, citando il detto dei saharawi. Gli spetterebbero anche quelli “dolce come l’amore” e “soave come la morte”, per tradizione. Ma deve fermarsi a uno. Il suo male si chiama diabete, la patologia dei rifugiati dei campi di Tindouf, costretti dall’esilio forzato a nutrirsi di glutine e conserve, sviluppando tassi di glicemia e celiachia doppi rispetto alla media mondiale.
Le classiche patologie da campo profughi, ma con due complicazioni: la pluridecennale durata dell’esilio e le condizioni estreme di un deserto inospitale.
“E’ ipocrita – osserva Bechir, primo allevatore di capre in una dinastia di pescatori, originario di Dakhla, sull’Oceano – l’Europa trae vantaggio economico dalla pesca su un litorale che è di fatto occupato dal Marocco. Nel frattempo i saharawi, che di quelle coste sarebbero legittimi proprietari, marciscono di diabete, in mezzo al deserto”.
Nella popolazione dei campi rifugiati, che ammonta attorno ai 170 mila abitanti, si stima che i malati di diabete, nella fascia d’età compresa tra 0 e 14 anni, siano un centinaio. “Un dato estremamente rilevante, se paragonato con le medie internazionali per l’età pediatrica”, spiega Sabrina Spina della Lilly Italia, il braccio italiano dell’azienda farmaceutica statunitense. Dalla sua base di Sesto Fiorentino, in collaborazione con l’amministrazione locale, l’azienda ha deciso di dotare i campi di 9 mila penne di insulina, il fabbisogno per curare i ragazzi diabetici, per tre anni.
“Il fenomeno è in rapido aumento – spiegano i medici del Centro di prima assistenza sanitaria di Auserd, dedicato al martire Nayem Hamiya – e uno dei maggiori problemi è proprio l’approvvigionamento di insulina. Una commissione di endocrinologi spagnoli sta monitorando la situazione. I casi si moltiplicano, soprattutto tra i più giovani, per via dell’alimentazione povera e della sedentarietà”.
E poi c’è la celiachia. Un recente rapporto dell’Aic ha stimato che negli accampamenti saharawi, una persona su 15 è affetta dal disturbo, per un’incidenza che si aggira attorno al 5,6 %. A livello mondiale il picco raggiunge raramente l’1 %. Quantificando, quasi diecimila saharawi ne sono interessati. Per fattori ambientali, in particolare la relativa segregazione della popolazione e la scarsa disponibilità di alimenti senza glutine. Ma anche per la frequente consanguineità dei genitori.
E ancora, ci sono la malnutrizione infantile, l’anemia da carenza di ferro, le infezioni e le parassitosi intestinali. Patologie provocate da decenni di assistenzialismo e di aiuti umanitari. Ed è solo mediante questi che possono essere curate. Il problema è che, con la crisi che attanaglia l’Europa, anche gli aiuti oramai scarseggiano.
“Dipendiamo totalmente da essi, non abbiamo altre forme di produzione – spiega il ministro della cooperazione della Rasd, Brahim Mojtar – la crisi in atto in Europa si ripercuote immediatamente nei campi saharawi”.
“E’ una dannazione – gli fa eco Mohammed, per mano il figlio Omar, affetto da una forma rara di diabete – l’Europa in crisi paga il Marocco per usufruire del pesce del Sahara. E per via della crisi i saharawi devono patire una diminuzione negli aiuti umanitari. Così ci stanno condannando a morte”.
Questioni che non fanno che acuire l’insofferenza dei saharawi rifugiati nei campi. Specie i più giovani. “Sono delusi e ormai determinati a seguire altre vie, anche il ritorno alle armi” osserva il ministro Mojtar.
Una situazione emersa in tutta la sua evidenza due anni fa, durante l’ultimo Congresso del Polisario. E che stride, paradossalmente, con quella dei territori occupati, dove l’intifada dei saharawi si sta caratterizzando per la sua forma non violenta, incarnata dall’attivismo di Aminatu Haidar, la “Gandhi del deserto”, e dalla grande protesta di Gdeim Izik, considerata da alcuni analisti, come Noam Chomsky, il vero incipit della “primavera araba”. “Va trovata una soluzione diplomatica – conclude Mojtar – non sappiamo per quanto tempo ancora potremo tenere a freno questa spinta”.
January 08, 2014di: testo e foto Gilberto MastromatteoAlgeria,Marocco,Articoli Correlati:
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