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Siria, “Ho tre ragioni per difendere Assad: Afghanistan, Iraq e Libia”

Nella Beirut che conta, quella cristiana e sunnita che veste Prada e ancora studia in francese, nessuno ha voglia di parlarne. E’ inutile girare per librerie: sulla Siria, neppure un libro. Ma non si discute d’altro, invece, a Dahiya, dieci minuti più a sud.

 

 

 

di Francesca Borri

 

E’ il nome della periferia sciita di Beirut, ma anche dell’ultima strategia anti-terrorismo di Israele, che sei anni fa, qui, ha bombardato tutto: abbattersi sulla popolazione civile, dal Libano a Gaza, ridurla allo stremo – e indurla così a opporsi ai movimenti islamici.

Come Hamas. Come Hezbollah, che in questa sterminata Scampia cariata dai proiettili, tutta cemento e umiliazione, e foto di morti e martiri, è la sola autorità.

Ahmad ha ventitrè anni e un padre morto di un cancro che era troppo costoso curare. Fa il cameriere al nero, trecento dollari al mese in un ristorante in cui il suo stipendio è poco più di una cena per due, ed è rientrato ieri da Homs.

Sogna una primavera libanese, ma intanto spara contro la primavera siriana. Contro ragazzi identici a lui. A fianco delle forze di Assad.

Quando a dicembre Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, ha liquidato i contestatori di Assad come ribelli a libro paga degli Stati Uniti, sono stati in molti, nel mondo arabo, a non capire.

Perché Hezbollah, qui, non significa semplicemente guerra a Israele. Finanzia scuole, ospedali, mense. Costruisce case, asfalta strade.

L’Islam sciita è l’Islam degli oppressi, il Corano riletto attraverso Marx – l’Islam che promette non solo il paradiso, ma anche eguaglianza e giustizia in terra.

E non è forse quello che a migliaia, in questi giorni, chiedono in Siria? Ma non è difficile da capire, dice Ahmad.

Ho tre ragioni per difendere Assad: Afghanistan, Iraq, Libia.

Perché certamente sono necessarie delle riforme, in Siria, dice, riforme politiche ed economiche: ma la priorità è impedire l’ennesimo intervento occidentale.

Il pretesto, oggi, è la tutela delle minoranze, dei diritti umani, mediante stati monoetnici e monoconfessionali.

Ma è la vostra strategia dai tempi del colonialismo, dice, sempre la stessa: e molto meno nobile: divide et impera.

Buoni steccati, sostiene il proverbio, buoni vicini: la vostra idea è che si vive meglio da soli dietro un muro, come in Israele, invece che insieme agli altri. Ma per il Libano, con le sue diciotto diverse comunità, sarebbe la rovina.

Per questo, dice Mahdi, stiamo con Assad.

Ha ventinove anni e studia ingegneria, come suo fratello quando fu ucciso in un attentato mentre vendeva arance per pagarsi l’università. E’ anche lui di ritorno da Homs: perché Assad è ormai l’unica diga, dice, contro l’imperialismo occidentale. E il suo avamposto: Israele.

Uno Stato esclusivamente ebraico, omogeneo come quelli che volete fondare: e hai visto le conseguenze, dice: una guerra permanente.

Per questo, dice, siamo con Assad. Perché è tutto uguale a sempre, qui: non esiste nessuna primavera araba. Solo propaganda.

Guarda l’Egitto, dice Zyad, sono al potere i Fratelli Musulmani, adesso, e cosa è cambiato?

Mentre combatteva ogni guerra degli ultimi anni, da Baghdad a Kabul, la sua famiglia è rimasta a Qana. Uno sotto ogni lapide: avevano cercato rifugio in una base delle Nazioni Unite, era il 1996, quando furono inceneriti dall’artiglieria israeliana.

I Fratelli Musulmani ripetono che la priorità è l’economia, dice, e neppure hanno riaperto la frontiera con Gaza. Ripetono che non è il momento di pensare alla politica estera. E Gaza, intanto, è alla fame.

La verità è che sono subordinati agli Stati Uniti, dice, perché hanno bisogno del loro aiuto. Dei loro dollari. E non comprendono che così saranno sempre vostri servi, che la sola opzione è l’unità araba.

Altrimenti sarete sempre voi a decidere le regole: il vostro Fondo Monetario, la vostra Banca Mondiale. E saremo sempre noi a perdere. Ad annegare nel Mediterraneo per venire a diventare i vostri schiavi.

In realtà Hezbollah, da quando è al governo, non ha modificato la legislazione sui palestinesi. Sono l’11% della popolazione, 450mila rifugiati a cui è vietato lavorare, comprare una casa. Persino studiare.

Temono che se avessimo diritti, mi spiega Kassem Aina, uno dei loro leader più autorevoli, finiremmo per integrarci e rimanere qui. Cambiando gli equilibri religiosi e politici del Libano: perché siamo musulmani sunniti.

Ma mentre mi negano anche l’elettricità, anche l’acqua potabile, come credono di cancellare Israele dalla mappe? Con quattro razzi, dice, come Hamas?

La verità è che è dura, sai?, vivere senza un nemico. Sia per loro sia per Israele. Capire che non è sempre tutto colpa degli altri. Allora sì che scopri di essere solo.

 

 

 

April 3, 2012

/emp

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