Siria. La Ghouta, le finte tregue e la società civile vicina agli orfani

L’invasione del campo profughi palestinese di Yarmouk, nella periferia di Damasco, da parte di Daesh (ISIS) ha riacceso la luce su una delle parti più drammatiche della crisi siriana: la vita sotto assedio di tanti sobborghi nei dintorni della capitale. Una realtà che rischia di tornare nell’oscurità con l’uscita di Daesh dal campo.

Yarmouk con i suoi oltre due anni di assedio totale è solo un esempio della politica sistematica di affamamento con cui il regime di Asad cerca di logorare ed indurre alla resa centinaia di migliaia di persone, chiuse in prigioni a cielo aperto ad affrontare la mancanza di tutto e subire bombardamenti quotidiani.

E’ dal 2012 che il regime ricorre a questa tattica medievale. “La prima morte per fame risale all’agosto del 2013, era una bambina di Moaddamyeh di nome Rina Ubeid”. A parlare è Dani Al-Qappani, un giovane attivista del media center di Moaddamyeh cui abbiamo chiesto di raccontarci cosa voglia dire vivere sotto assedio.

Il suo è un sobborgo di 44mila abitanti nella fascia occidentale della periferia di Damasco, tristemente noto per essere uno dei teatri del grande attacco chimico del 21 agosto 2013. Moaddamyeh è stata sotto assedio per 2 anni, ma ora teoricamente le cose sono cambiate dato che un anno e tre mesi fa il consiglio della cittadina ha negoziato una tregua con Asad.

“L’Esercito Libero Siriano (ESL) ha offerto una fiera resistenza all’interno delle zone assediate, ma col tempo la popolazione è arrivata allo stremo e Asad ha aperto delle trattative per arrivare ad una riconciliazione: avrebbe consentito alle organizzazioni umanitarie di portar dentro cibo, acqua e medicinali. In cambio noi avremmo dovuto issare la bandiera del regime sul punto più alto della città, consegnare le armi – incluse quelle leggere – mentre i combattenti dell’ESL avrebbero dovuto chiarire la loro posizione ed unirsi alle Unità di Difesa Popolare, milizie al servizio di Damasco”.

Un accordo che ricorda quelli che il regime sta proponendo in questi giorni a Yarmouk in cambio di un intervento per contrastare Daesh, e che a dire il vero in più di una occasione era sul punto di essere raggiunto ed è stato più volte annunciato ma mai implementato.

Moaddamyeh è stata l’apripista di queste tregue che somigliano molto a delle rese, come era stata anche una delle prime aree a sperimentare la politica dell’affamamento. Nel dicembre del 2013 l’attivista siro-palestinese Qusai Zakaria era riuscito a portare all’attenzione del mondo la questione facendo uno sciopero della fame di 30 giorni e invitando attivisti di tutto il mondo a partecipare, i quali si sono astenuti dal cibo ed hanno inviato fotografie di solidarietà.

“Tanto digiunavo comunque, allora ho deciso di farne un atto politico” disse in quei giorni ad Osservatorio Iraq. L’uscita dal campo di Qusai era uno dei punti dell’accordo tra la gente di Moaddamyeh e il regime che ha garantito al giovane un passaggio sicuro fuori del paese.

La testimonianza di Qusai, sopravvissuto all’attacco chimico e all’assedio, è stata letta davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dall’ambasciatrice USA Samantha Powers il 5 giugno del 2014 e l’immagine di Qusai in piedi nella sala del Consiglio con gli occhi puntati verso gli ambasciatori ha fatto il giro del mondo.

Ma secondo Dani Al-Qappani gli accordi non hanno sostanzialmente cambiato la vita della gente nelle aree assediate della periferia di Damasco, anche se dopo Moaddamyeh altri sobborghi hanno siglato accordi simili, da Barza a Babbilla, Yalda, Beit Sahem, fino ad al Qamun, mentre a Yarmouk l’accordo avrebbe dovuto permettere l’ingresso dell’UNRWA. Ma non è mai entrato in vigore.

“Si tratta di accordi di facciata” ci ha detto Dani “le cittadine sono comunque circondate da una barriera fatta dall’esercito lealista, guerriglieri di Hizbullah o delle milizie sciite iraqene con tanto di mezzi blindati e carri armati. Lasciano un solo via di accesso con un loro check point attraverso cui tengono sotto rigido controllo tutto quel che passa. Di lì passa il cibo, in qualità sempre lontane dall’essere sufficienti per sfamare i civili, e il passaggio viene chiuso o riaperto arbitrariamente dal regime, senza tener conto, ad esempio, dei problemi sanitari”.

Secondo le più recenti stime sono quasi 700mila i siriani che vivono sotto assedio, poche migliaia assediate dai ribelli nei due paesini di Nebol ed Al Zahra (considerati vicini al regime di Asad) in provincia di Aleppo, centinaia di migliaia nell’hinterland damasceno.

Si tratta di persone che vivono arrangiandosi. “Qui la gente vive aspettando la morte come fosse una liberazione da questa punizione collettiva per l’unica colpa di aver chiesto ad Asad di andarsene” prosegue l’attivista di Moaddamyeh.

“Si cerca di fare qualcosa ma ovviamente non c’è lavoro, tranne quello di cercare di sopravvivere. Gli impiegati statali sono stati licenziati in blocco senza spiegazione. Dalla mattina uomini, donne e bambini iniziano la ricerca di cibo a partire dagli orti urbani che si è cercato di fare ovunque possibile fino alla raccolta delle erbe spontanee. Una minestra di erbacce e spezie è un lusso in questi luoghi dove il regime ha imposto la mancanza di tutto”.

Nei sobborghi di Damasco sono finiti i cani e i gatti, così come gli asini. Le alberature stradali sono state abbattute per farne legna da ardere durante l’inverno, e in questi ultimi due anni gli inverni sono stati i più freddi degli ultimi decenni. Ma i siriani non si sono persi d’animo e su Facebook ci sono pagine con le “ricette sotto assedio” attraverso cui la gente si scambia consigli su come cucinare, tra l’altro, le cavallette o qualunque altra cosa si possa trovare.

Immagini che stridono con quelle che, pochi mesi fa, mostravano il Festival della pasticceria mediorientale che si è svolto in un albergo di Damasco a meno di due chilometri dall’assedio, o dei banchetti che anche l’OLP ha tenuto nella capitale siriana per festeggiare il proprio anniversario o le faraoniche feste per i matrimoni o i fidanzamenti dei clan al potere le cui foto girano per i social network fra l’indignazione generale.

Ma non sono solo le privazioni materiali e i bombardamenti a fiaccare le comunità sotto assedio. Ci sono anche le umiliazioni quotidiane.

“Ai tre check point che il regime ha posto sull’unica via di accesso a Moaddamyeh, gli uomini vengono costretti a spogliarsi per essere perquisiti e per sequestrare qualsiasi cosa, fosse anche solo una medicina o un tozzo di pane, e l’esercito ha assegnato anche soldatesse per perquisire e umiliare le donne. Due giorni fa ho visto un soldato perquisire una donna e suo figlio, tra insulti e spintoni. Hanno sequestrato dei biscotti al bambino, dovevate vedere le sue lacrime mentre il soldato li schiacciava sotto i suoi stivali deridendolo”.

Come sempre i bambini sono le prime vittime di ogni tattica di guerra, i primi a morire per la fame o gli stenti (in questi giorni nella sola Yarmouk il conto dei morti per fame è arrivato a 176), ma per loro c’è anche la privazione dell’infanzia e della scuola che ne pregiudicherà il futuro.

A Moaddamyeh molte delle scuole sono state distrutte, si continua a provare a studiare in quelle solo parzialmente danneggiate o risparmiate dai bombardamenti, facendo i doppi turni. Tuttavia gli alunni non sanno se il loro studio verrà riconosciuto o se potranno tenere esami, nonostante in realtà negli accordi per le tregue sarebbe prevista la riapertura delle scuole.

I bombardamenti non hanno ovviamente risparmiato le infrastrutture idriche o elettriche, così come gli ospedali, che anzi sembra siano stati particolarmente presi di mira insieme alle ambulanze, tanto che a Yarmouk ormai si usano le carriole per trasportare i feriti.

Le grandi organizzazioni internazionali ed in particolar modo quelle istituzionali come l’UNHCR o, per i palestinesi l’UNRWA, non possono accedere alle aree assediate per fornire cibo, medicinali o assistenza medica.

Devono consegnare gli aiuti al regime il quale dovrebbe distribuirli, ma Dani Al Qappani ci spiega che “distribuiscono i pacchi alimentari nelle zone dei loro sostenitori, spesso a ridosso delle zone assediate, e li filmano per poi affermare di aver dato il cibo ai destinatari. In realtà si alimenta un sistema clientelare e capita spesso che i pacchi alimentari vengano rivenduti a caro prezzo. Nelle aree assediate il controllo è tale che non c’è praticamente alcun contrabbando ad esclusione di quello gestito dai soldati e dagli uomini del regime”.

In questa situazione di enorme necessità si è sviluppata l’economia di guerra, per cui un pacco di riso (l’alimento principe della cucina mediorientale) che a Damasco costa sulle 60 lire siriane, dentro le aree assediate raggiunge il considerevole prezzo di 3000 lire mentre lo stipendio medio di un impiegato statale è sulle 18mila lire.

La povertà assoluta è ormai la condizione normale nelle aree assediate e in quelle che, in via teorica, hanno firmato la riconciliazione con il regime.

Per quanto riguarda l’amministrazione ordinaria all’interno di queste aree, spesso la sicurezza è affidata all’ELS o a milizie come il Fronte Islamico, che regna quasi incontrastato sul lato orientale dell’hinterland damasceno. Persone perlopiù provenienti dai quartieri stessi e quindi conosciute e vicine alla popolazione locale. Spesso le milizie contribuiscono anche agli sforzi di resistenza dei civili, lavorando negli orti urbani o scavando pozzi alla ricerca d’acqua.

Per le questioni più politiche, come le trattative con il regime, in molte aree sono stati eletti dei Consigli locali composti dai comandanti delle milizie e da un certo numero di civili tra i notabili del campo.

A proposito degli accordi di tregua e riconciliazione, ci affidiamo di nuovo alle parole di Dani Al Qabbani del media office di Moaddamyeh: “Moaddamyeh è stata la prima area cui è stata proposta la tregua, le trattative sono avvenute tra il consiglio locale e la quarta brigata, quella di Maher Al Asad (fratello del presidente Asad, noto per essere il più sanguinario della famiglia, ndr). L’accordo prevedeva molti punti che poi sono rimasti lettera morta: ci si chiedeva di issare la bandiera del regime sul pennone più alto della cittadina, in cambio avrebbero dovuto far entrare cibo e medicinali sufficienti per tutti i civili, cosa che non è avvenuta”.

“Un altro punto era il cessate il fuoco da entrambe le parti, ma dopo l’accordo sono ben 30 le vittime cadute sotto i colpi dell’esercito lealista e ci sono stati svariati bombardamenti che ogni volta il regime giustifica come errori isolati. Anche gli arresti ai check point sono proseguiti nonostante l’impegno a fermarli da parte del regime: ci sono stati oltre 100 arresti tra cui anche donne e bambini di cui non si conosce il destino. Forse il punto più problematico dell’accordo era quello sulla liberazione dei prigionieri in cambio della consegna delle armi presenti nel quartiere. Ad essere sinceri, dopo un anno e tre mesi, questa tanto celebrata riconciliazione ha avuto come unica utilità la diminuzione del bilancio quotidiano dei morti, ma la qualità della vita dei civili assediati non è cambiata di una virgola da tre anni a questa parte, dall’inizio dell’assedio nel 2012”.

“Anzi, con il ritorno di una parte delle persone che erano scappate il numero degli assediati è cresciuto di quattro volte mentre le condizioni di vita non sono cambiate. A testimoniarlo anche la recente morte di stenti di altri 4 bambini, l’ultimo è Lu’ai Mansour, morto di meningite il 4 aprile a causa della carenza di medicinali. Insomma, i tanto celebrati accordi tra il regime e le zone sotto assedio in realtà hanno l’unico effetto di concentrare in prigioni a cielo aperto un numero maggiore di civili oppositori al regime”.

Per quanto concerne invece le attività della società civile, un tempo molto attiva in queste aree, sicuramente le zone che hanno firmato accordi non vedono più una intensità di bombardamenti tale da impedire ogni attività – uno ogni 5 minuti negli scorsi anni – ma comunque le condizioni di vita impongono di dare la priorità alle attività umanitarie piuttosto che occuparsi di iniziative più politiche.

Tuttavia ci sono ancora manifestazioni per chiedere la caduta del regime, la liberazione dei prigionieri o per ricordare eventi particolarmente tragici come l’attacco chimico dell’agosto 2013. All’interno di queste zone, però, si annidano anche i collaborazionisti che non mancano di minacciare gli attivisti e di fare rapporto ai loro padroni, mettendo in grave pericolo gli attivisti più in vista.

“Solo qualche giorno fa i soldati e le milizie del regime hanno fermato 300 tra donne e bambini al check point sulla via d’accesso principale al campo” racconta ancora Al Qabbani “li hanno bloccati senza motivo apparente per oltre dieci ore, non risparmiando loro alcuna umiliazione. Una donna era in procinto di partorire ma non l’hanno lasciata passare, dopo tre ore ha avuto le doglie e ha partorito al check point, davanti a tutti, e solo dopo le è stato consentito di tornare alla sua casa dentro Moaddamyeh”.

“Io mi chiedo come si possa immaginare che la gente accetti che questo regime di criminali che li umilia quotidianamente possa governare anche un solo giorno in più. Sto parlando di Moaddamyeh, cioè del caso che il regime presenta come il modello per la riconciliazione nel paese e per la tregua ad Aleppo di cui parla l’inviato delle Nazioni Unite. Oltretutto, prima dell’accordo i media si occupavano un minimo di noi, almeno quelli rivoluzionari. Chiamavano il nostro ufficio media ogni minuto, mentre ora siamo trascurati anche da loro. Noi siamo Moaddamyeh, la nostra gente ha sacrificato ogni cosa per questa rivoluzione, ci siamo presi anche l’attacco chimico in nome della libertà per tutta la Siria, ora ci vedono quasi come traditori.”

Tuttavia in questo contesto c’è anche chi lavora concretamente per il futuro della Siria, come la Casa per gli Orfani di Guerra della Ghouta Orientale. Questo ufficio riunisce e coordina gli sforzi di tutte le organizzazioni umanitarie, spesso informali e nate dal basso, che si occupano di assistere gli orfani.

La principale attività è l’assistenza economica che avviene su base egualitaria: i fondi vengono raccolti in una cassa comune e distribuiti uniformemente tra gli orfani, fatta eccezione per gli orfani di entrambi i genitori cui viene destinata una somma un poco più alta.

Il contributo copre circa un terzo delle spese mensili di ogni bambino, ci ha spiegato Tariq Al Dimashqi, un insegnante di inglese che si è reinventato media-attivista e lavora anche con la Casa degli Orfani: “Si tratta di un contributo concreto ed efficace, anche se insufficiente. Ora stiamo avviando un progetto di sostegno psicologico, vorremmo aprire dei centri specializzati che aiutino gli orfani e le loro madri. Nei prossimi giorni ne annunceremo l’avvio.”

A finanziare questo lavoro sono sopratutto NGO o organizzazioni umanitarie che garantiscono il sostegno ad un certo numero di orfani, una specie di adozione a distanza collettiva. La Casa ha il merito di unificare gli sforzi per evitare che una famiglia sia aiutata da più di una organizzazione e magari un’altra resti senza aiuti e garantisce l’uniformità di trattamento per tutti.

Secondo i dati della Casa sono circa 12.000 gli orfani di guerra della Ghouta orientale, di cui 3000 non hanno nessuno. Ciascuno riceve mensilmente 50 dollari americani o 200 rial sauditi. I maschi vengono sostenuti fino al quindicesimo anno di età, mentre le ragazze fino al diciottesimo anno, questo in considerazione del fatto che in una società patriarcale come quella siriana i maschi hanno maggiori opportunità di un impiego precoce.

Il numero degli orfani aumenta ogni mese di 250, 300 bambini. Il sostegno economico a questi bambini e ragazzi li sottrae alle sirene della delinquenza comune, ma anche dell’arruolarsi tra le fila di qualche milizia, pro o contro il regime, che consentirebbe loro di mantenersi e di sfogare l’immensa rabbia derivante dalla loro perdita.

“Sono sopratutto le organizzazioni estremiste a far leva sulla povertà e la rabbia per arruolare i bambini. Aiutare i ragazzi serve anche a prevenire la diffusione dell’estremismo, oltre ad essere evidentemente importante per costruire il futuro del paese. Se potessimo garantirli fino ad una età maggiore, potremmo mettere questi ragazzi in condizione di saper resistere a queste tentazioni, di poter studiare e quindi avere gli strumenti culturali per non cadere nella trappola dell’estremismo” ha concluso Tariq Al Dimashqi.

Foto: “Syria: Feeding families in times of conflict”. Credit: ©WFP/Hussam Al saleh, via Flickr (European Commission DG ECHO) in CC.

April 19, 2015di: Fouad RoueihaSiria,

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