“Esilio dalla Siria” è l’ultimo libro di Shady Hamadi, attivista per i diritti umani italo-siriano che ripercorre 5 anni di conflitto. Un viaggio tra le macerie di un paese, e delle nostre coscienze.
Cecilia Dalla Negra
Questa storia inizia da una casa a Wadi Khaled, piccolo paese al confine tra il Libano e la Siria. Inizia da una finestra, dalla quale si riesce a vedere il villaggio siriano di Talkalakh. E da una domanda.
-“Cosa guardi?”
-“Il nostro villaggio, ovviamente”
-“Dimentica. Ormai siamo in esilio”
A Wadi Khaled la famiglia di Shady Hamadi ha trovato riparo dopo essere fuggita dalla Siria.
E quello che racconta nel suo ultimo libro è un duplice esilio: quello da una patria ormai negata dalla guerra, e dal comune sentire di un Occidente che ha perso la capacità di provare compassione.
Poco meno di 150 pagine in cui riannoda i fili di una storia dolorosa, fatta di violenza e indignazione, di resistenza e dignità, di lotta contro l’indifferenza e domande che ancora attendono di trovare una risposta.
Come aveva fatto nel suo primo libro – “La felicità araba” – Hamadi racconta la storia recente della Siria e insieme della sua famiglia, paradigma di milioni di altre oggi rimaste a resistere sotto le bombe, o fuggite altrove, o disperse nel mare.
C’è questo e molto altro in un volume breve, ma capace di lanciare un messaggio pesante come pietra, interrogando prima di tutto le coscienze inaridite di un mondo che sembra aver perduto l’anima.
Ci sono accuse e non ci sono sconti, per nessuno. Perché a distanza di 5 anni dalle scritte sui muri dei bambini di Daraa che chiedevano la caduta del regime, pagate con la loro vita e con quella di migliaia di altri, la Siria sembra scivolata dentro un buco nero di dolore e indifferenza.
C’è quell’anti-americanismo caro alle sinistre europee, che ci fa sembrare i bombardamenti russi meno crudeli di quelli statunitensi. “Perché se Putin sosteneva che avrebbe colpito l’Isis doveva essere per forza così”, e poco importa che invece abbia distrutto scuole e ospedali.
C’è l’accusa a quell’approccio tipicamente geopolitico degli analisti dell’ultima ora, che “discute dei massimi sistemi mentre cancella i civili”. Ci sono le raffinate analisi degli esperti, che come scrisse abuna Paolo Dall’Oglio – dal 2013 nelle mani dei terroristi – “anestetizzano la coscienza della società civile, e siccome non si sa chi ha ragione allora hanno torto tutti, e le vittime possono essere gettate a mare”.
C’è l’ipocrisia della lettura che considera il dittatore come “il male minore”, argine necessario al contenimento del terrorismo islamico, che dipinge un bianco e un nero in cui il grigio sparisce, mentre tra l’estremismo e il regime “in mezzo c’è tutto ciò che in questi 5 anni abbiamo tradito”, come ha affermato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, nel corso della presentazione romana.
Ci sono i civili morti a migliaia, i bambini che hanno perduto il sorriso, gli esperimenti di auto-governo dal basso degli attivisti siriani, ignorati perché in loro non ci siamo riconosciuti come invece abbiamo fatto con i combattenti curdi del Rojava. Perché nelle donne che imbracciavano i fucili abbiamo rivisto le nostre partigiane, o in una carta dei diritti abbiamo letto la nostra (presunta) emancipazione di genere, che pretendiamo essere figlia unica, ed esclusiva del laicismo occidentale.
In quella affinità abbiamo nutrito il consenso. Un’affinità che per l’Altro da noi – inesorabilmente “diverso”, dunque inferiore – non siamo riusciti e non riusciamo a sentire. Così, “in nome del romanticismo che avvicina alcuni alla causa curda, i siriani sono scivolati nell’oblio”.
C’è l’Isis – “un gruppo necessario a tante agende” -, la sua nascita ed evoluzione. Ma c’è soprattutto l’uso strumentale che si fa di un “nemico perfetto” utile a tanti, mediatizzato in modo tale che qualsiasi carneficina compiuta in nome della lotta per sconfiggerlo sia in fondo accettabile.
E c’è una storia nostra, tutta italiana, fatta di strategia della tensione e misure repressive che hanno controllato per decenni le nostre vite, ma che evidentemente abbiamo dimenticato.
C’è la violenza interna e quella subita. Il dubbio – costante filo rosso che accompagna tutto il libro – che la società siriana non possa sopravvivere e restare umana di fronte all’umiliazione quotidiana. Perché alla guerra ci si abitua, de-umanizzando il nemico, ma in fondo anche se stessi. “Come faremo a costruire uno Stato dopo tutto quello che è successo?” si domanda Hamadi, consapevole che sia diventato ormai normale convivere con la morte: per i siriani in Siria ma anche per noi, che di fronte alle macerie o a chi annega in mare abbiamo smesso di provare empatia.
E’ un quadro, quello disegnato dall’autore, nel quale non ci sono vincitori ne’ buoni o cattivi, perché abbiamo perso tutti. In cui l’unico nemico reale da sconfiggere, prima ancora di un regime sanguinario, è l’indifferenza.
C’è infine un viaggio costante tra l’Italia e la Siria, in nome delle identità molteplici e delle radici plurali dell’autore – nato a Milano da padre siriano musulmano e madre italiana cristiana, che usa il “noi” quando parla da occidentale come da arabo.
Che ci ricorda senza sconti come alla macerie materiali di Homs o di Aleppo corrispondano in pari misura quelle morali delle nostre coscienze.
Ricorda Hamadi di non aver mai vissuto “un solo giorno sotto le bombe. Però provo il senso di incomprensione e abbandono che i siriani sentono a causa di un mondo che non conosce la loro storia”.
Ciò che tenta di ottenere questo libro necessario, allora, è farci sentire quel dolore come se fosse il nostro. Perché è nel riconoscimento dell’Altro e nell’identificazione con esso, nella capacità di tornare a provare compassione, che ritroviamo quell’umanità che abbiamo perduto un pezzetto alla volta.
Ogni volta che abbiamo voltato le spalle, ogni volta che abbiamo chiuso gli occhi, pensando che capire fosse troppo complicato, o che quel dramma non ci riguardasse.
E lancia infine un messaggio di speranza. Perché se è vero che “in politica c’è un prezzo per tutto, e noi ne abbiamo già pagato uno altissimo”, Hamadi non rinuncia alla sua lotta per il riconoscimento e per la dignità.
“Non voglio che altri soffrano quello che ho sofferto io. Questa frase semplice ha in realtà una forza profonda: se ciascuno la sentisse propria, renderebbe concreta la volontà di agire”.
Così si apre la lettura di questo libro. E non è un caso, allora, che la parola con cui si chiude sia libertà.
Shady Hamadi
“Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza”
Add Editore pp.141
Aprile 2016
May 15, 2016di: Cecilia Dalla NegraSiria,