Siria. Pace, non pacificazione

“E’ amaramente ironico che l’invasione dell’Iraq del 2003 teoricamente si giustificava con la mancanza di democrazia ed oggi nessuno in Occidente conosce questi esperimenti di democrazia del popolo siriano”: l’analisi di Robin Yassin-Kassab. 

 

 

I rappresentanti degli Stati riuniti a Ginevra stanno assistendo ad una commedia: mentre i colloqui sono stati congelati il 3 febbraio, in Siria è la realtà a farla da padrone. In un solo giorno un campo per gli sfollati interni nelle montagne intorno a Lattakia è stato bombardato, piovono barili bomba sul sud e nei sobborghi di Damasco, le bombe a grappolo russe precipitano sul nord, circa 100 persone sono state asfissiate dal cloro a Moaddamiyah. 

Speriamo che le loro poltrone siano comode.

La Russia, il principale artefice del processo, sta invitando i suoi delegati di “opposizione”. Si lamenta (insieme ad Asad ed all’Iran) che la delegazione delle opposizioni avrebbe al suo interno “terroristi”. Le migliaia di jihadisti sciiti di varie nazionalità sostenuti dall’Iran non sono considerati “terroristi”, e su questo palcoscenico evidentemente non se ne deve parlare. 

Gli Stati Uniti hanno accettato queste condizioni, e invece di un “governo di transizione” – che era stato l’obbiettivo concordato prima dei colloqui di Ginevra – ora parlano di un “governo di unità nazionale”.

In altre parole Asad, che è il responsabile della stragrande maggioranza delle vittime civili e degli sfollamenti, potrà rimanere per affrontare il “male assoluto” del jihadismo.

Ancora oggi l’80% delle bombe russe non colpiscono Daesh, ma coloro che si oppongono sia ad esso che ad Asad, quelle stesse comunità che precedentemente avevano spinto fuori dai loro territori le milizie del Califfato. L’assalto russo ha provocato la fuga di un altro quarto di milione di persone, colpendo tribunali, scuole, ospedali e convogli umanitari.

L’obbiettivo evidente di questa campagna è annientare l’opposizione democratica-nazionalista in modo da lasciare in gioco solo Asad ed i jihadisti. Quindi, crede Putin, il mondo non avrà altra scelta se non quella di aiutarlo a riconquistare l’intero paese per restituirlo ad Asad. Tuttavia la realtà demografica sul terreno farà sì che una gran parte della Siria rimarrà per sempre al di fuori dalla stretta di Asad.

Più a lungo proseguirà la traumatizzazione di questa terra riarsa, altrettanto proseguirà la radicalizzazione. Dato che tutti dichiarano che sia questo il conflitto definitivo, Daesh probabilmente verrà sconfitto. Ma Jabhat Al Nusra (la branca siriana di Al Qaeda), o una qualche organizzazione che ne discende, sopravviverà.

Non c’è alcun vero processo di pace. “Ginevra 3” è più facilmente comprensibile come tentativo di pacificazione. Dovremmo almeno dirlo onestamente.

La spirale che trascina la Siria verso l’abisso non potrà essere bloccata finché i bombardamenti delle aree civili non si fermeranno. Questo implica una robusta contrapposizione (sul piano diplomatico ed economico) contro la Russia, qualcosa che Obama ha evitato nel caso dell’Ucraina così come in Siria. In pratica vorrebbe dire o stabilire un’area di interdizione al volo, con l’abbattimento di qualunque aereo bombardi i civili, oppure consentire all’opposizione che è attualmente indifesa di accedere ad armi anti-aeree.

Una volta che fermati i bombardamenti fermati e tolti gli assedi, i profughi potrebbero tornare e la vita sociale ed economica potrebbe rivivere. Crescerebbe lo spazio di manovra per l’attivismo democratico con il ridursi di quello dei jihadisti. Allora un vero processo di stabilizzazione potrebbe cominciare? E che aspetto potrebbe avere?

L’Alta Commissione per i Negoziati costituita dalle opposizioni, era uscita da un vertice in Arabia Saudita che aveva riunito il Comitato di Coordinamento Nazionale (con base a Damasco e semi-tollerato dal regime), la Coalizione Nazionale delle Forze di Opposizione che ha base ad Istanbul, i leader dei democratici-nazionalisti (Esercito Libero Siriano) ed le milizie nazionaliste-islamiste.

Queste ultime includono al loro estremo Jeish Al Islam ed Ahrar Al Sham, salafiti siriani pragmatici che dovranno essere inclusi nella soluzione, come dovranno esserlo le comunità alawite leali al regime, perché non agiscano come sabotatori.

Jaish Al Islam, la milizia dominante nella Ghouta Orientale (interland damasceno, ndt), è probabilmente responsabile del rapimento di attivisti rivoluzionari conosciuti come Douma Four (i quattro di Douma, ndt) inclusa Razan Zaitouneh, avvocatessa che si occupa di diritti umani e tra i fondatori dei Consigli di Coordinamento Locali.

Il mio libro scritto con Leila al-Shami – “Burning Country: Syrians in Revolution and War” – è dedicato a Razan, una donna di principi e senza paura la cui sorte è in qualche modo emblematica della sorte della stessa Siria.

Peggio ancora, i leader di Jaish Al Islam hanno talvolta fatto dichiarazioni confessionaliste che danneggiano la rivoluzione alienandole ulteriormente le simpatie delle minoranze. La loro posizione riguardo alla democrazia come obbiettivo è almeno ambigua.

Per queste ragioni gli attivisti rivoluzionari si trovano spesso in opposizione con l’autoritarismo di Jaish Al Islam e contemporaneamente insistono che venga riconosciuto come parte della rivoluzione e della soluzione.

A dispetto degli abusi, la milizia è infatti sensibile alla pressione popolare. Le aggressioni agli attivisti sono casi eccezionali, mentre sono la norma nelle aree sotto il controllo di Asad o di Daesh. Libere elezioni si sono tenute nei territori sotto il controllo di Jeish Al Islam, ed è stato il più efficace nemico di Daesh nella regione di Damasco.

Ahrar al-Sham si è ritirato dall’incontro saudita lamentando che la conferenza non riconoscesse esplicitamente la “identità musulmana” della Siria e che si fosse data troppa rappresentanza al Comitato di Coordinamento Nazionale, che non sarebbe realmente una organizzazione rivoluzionaria.

Per quanto difficile sia, è comunque importante cercare di portare simili gruppo all’interno del processo politico e di distanziarli da Jabhat Al Nusra, l’Al Qaeda siriana, con cui spesso collaborano sul campo di battaglia.

Se la Siria è destinata a sopravvivere, i combattenti delle opposizioni nazionalista ed islamista dovranno unirsi a quel che rimarrà dell’esercito regolare post-regime per sconfiggere Daesh, Nusra e gli altri jihadisti internazionali (inclusi quelli sciiti). Ma perché questo accada, bisogna eliminare l’incombente minaccia costituita dalla politica della terra bruciata di Asad.

Nonostante giustizino i religiosi della loro opposizione interna e bombardino senza sosta lo Yemen, dovremmo fare i complimenti ai sauditi per aver messo insieme un così ampio spettro dell’opposizione araba siriana. Se le attuali circostanze cambiassero e rendessero possibile un processo di pace viabile, l’Alto Comitato per i Negoziati potrebbe formare una squadra di negoziatori credibile per sedere al tavolo con il PYD (il partito/milizia dominante nelle aree curde del paese) ed ai rappresentanti delle comunità pro-regime.

Tuttavia la ricetta saudita manca di un ingrediente vitale: i Consigli Locali, talvolta chiamati Consigli Rivoluzionari, che si sono formati in ogni parte del paese. Si tratta di organizzazioni pratiche, non ideologiche. I membri sono attivisti civili, leader familiari o tribali e persone scelte per le loro particolari capacità o professionalità.

Fanno del loro meglio nelle più terribili delle condizioni per assicurare aiuti umanitari e per soddisfare i più elementari bisogni lì dove lo Stato è collassato o abbia deliberatamente smesso di fornire servizi, inclusa l’acqua, l’elettricità, la rimozione della nettezza urbana ed i servizi sanitari.

L’idea è nata con l’attivista Omar Aziz, che durante l’ottavo mese della rivoluzione ha scritto un significativo documento sull’auto-organizzazione.

Aziz era un anarchico che credeva che protestare contro il regime fosse inutile se i rivoluzionari non avessero costruito alternative alle strutture repressive dello Stato. Egli sosteneva la formazione dei Consigli come forum di base delle comunità, ed aiutò a creare quello di Barzeh e Zabadani prima di essere arrestato e quindi di morire in carcere nel febbraio del 2013.

I membri dei Consigli sono nominati attraverso una sorta di processo democratico, che varia da luogo a luogo, ed è più difficile nelle aree sotto il controllo del regime o di Daesh.

Aziz Asaad, un attivista che abbiamo intervistato per il nostro libro, ha descritto in questa maniera le sfide:”Era difficile per noi – soprattutto nel mezzo di una rivoluzione che chiedeva pluralismo e democrazia – scegliere i rappresentanti rivoluzionari attraverso un processo democratico… La cosa era ancora più difficile per il fatto che eravamo in un’area sotto il controllo del regime, per cui costantemente con la paura di essere arrestati . Quando abbiamo formato il consiglio di Salamiyah ci siamo affidati a quella che potremmo chiamare “la democrazia dell’elite rivoluzionaria: abbiamo segretamente scelto 11 persone su 55 candidati“.

Nelle aree “liberate” sotto il controllo dei ribelli, comunque, i Consigli si formano attraverso elezioni democratiche: le prime elezioni in Siria da decenni.

Nelle recenti elezioni della Ghouta, i leader delle milizie non erano autorizzati a candidarsi. I combattenti potevano farlo, ma nessuno è stato eletto. Negli ultimi mesi, si sono tenute elezioni nella regione di Daraa, dove è il Fronte Meridionale dell’ Esercito Libero Siriano ad avere il controllo.

E’ amaramente ironico – ed una delle ragione per cui ho scritto il nostro libro – che l’invasione dell’Iraq del secolo scorso teoricamente si giustificava con la mancanza di democrazia ed oggi praticamente nessuno in Occidente conosce questi esperimenti di democrazia auto-organizzata del popolo siriano. 

L’opinione pubblica occidentale, ingannata dai media, è più disposta a mettere in dubbio la propensione degli arabi per la democrazia piuttosto che ammirare i risultati ottenuti dai siriani nonostante fossero schiacciati da una aggressione militare su vasta scala.

I Consigli non sono sempre perfetti. Talvolta diventano mal funzionanti a causa della frammentazione in fazioni o perché intimiditi dai signori della guerra. Ma sono quel che più si avvicina ad una vera rappresentanza del popolo siriano e quindi dovrebbero essere fortemente presenti ad ogni incontro in cui si discuta del destino della Siria.

Se le potenze mondiali fossero genuinamente interessate a far uscire la regione dalla guerra e dal jihadismo verso la pace e la democrazia, dovrebbero sostenere i Consigli ben più di quanto non abbiano fatto finora. Il sostegno economico non è abbastanza: non ha senso fornire nuovi furgoni per la nettezza urbana se verranno bombardati nel giro di una settimana.

Contemporaneamente, le élite dell’opposizione siriana e le milizie dovrebbero essere incoraggiate a riconoscere la centralità del risultato ottenuto dai Consigli in fatto di democrazia e quindi a sviluppare una visione per il futuro che preveda il decentramento.

Il mito che uno Stato centrale forte assicuri forza e dignità al proprio popolo affonda le radici nelle coscienze degli oppositori – nazionalisti, di sinistra e islamisti –  nonostante tutte le dimostrazioni del contrario. Ma il decentramento è la maniera migliore per trattare con l’esplosiva polarizzazione etnica e confessionalista che c’è oggi in Siria.

Vorrebbe dire autonomia per i curdi, che hanno messo in piedi il loro proprio sistema di Consigli. Vorrebbe anche dire che differenti regioni potrebbero autogovernarsi in maniera coerente con la loro composizione sociale e comunitaria. Quindi l’alcol, per fare un esempio, potrebbe essere proibito da un Consiglio ma consentito da un altro.

L’alternativa al decentramento è lo smembramento, che poi sarebbe il risultato naturale dei bombardamenti di Putin.

Lo smembramento significherebbe pulizia etnica su una scala più ampia di quella vista finora. Vorrebbe dire il perdurare dei campi profughi. Vorrebbe dire che i sostenitori di Asad lungo le coste del Mediterraneo sarebbero contesi tra Iran e Russia, e che ci sarebbe un territorio sunnita tagliato fuori dal mare, assetato di vendetta e bruciato.

Sarebbe un disastro per il popolo siriano, ma anche per la sicurezza globale.

 

*Robin Yassin-Kassab è autore del romanzo “The Road from Damascus” e coautore, insieme a Leila al-Shami, di un recente libro sulla rivoluzione e la guerra siriana “Burning Country: Syrians in Revolution and War” (Pluto, gennaio 2016). Il suo blog è www.qunfuz.com, dove è possibile leggere un estratto di Burning Country, mentre per sentirne leggere alcuni brani e vedere la presentazione fatta dall’autore presso Amnesty International UK potete cliccare qui. L’articolo è stato scritto per CCPA Monitor, la versione originale in inglese e reperibile qui. La traduzione dall’inglese è a cura di Fouad Roueiha. 

 

February 15, 2016di: Robin Yassin-Kassab per il CCPA*Siria,

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