Siria. Storia di una sposa “temporanea”

La storia di Amani, giovane siriana fuggita dalla guerra in Giordania, finita nel campo di Za’atari e  “comprata” da un saudita. La sua, e quella di migliaia di altri rifugiati, vittime di ogni sorta di abusi e violenze. 

 

 

Il campo profughi di Za’atari, messo in piedi frettolosamente nel luglio 2012 per dare accoglienza ai profughi che cominciavano ad accatastarsi lungo il confine siro-giordano, a quasi 5 anni ormai dall’inizio della guerra civile, con i suoi 79,357 rifugiati siriani è il campo profughi più grande della Giordania, nonché di tutto il Medio-Oriente.

Situato nel nord-est del paese, nel Governatorato di Mafraq, a soli 10 km dal confine siriano, l’80% della sua popolazione è composto da donne e bambini, il resto da anziani, ammalati e reduci di combattimenti.

Fin dall’inizio dell’esodo, infatti, le centinaia di migliaia di famiglie siriane che hanno attraversato le frontiere a loro più vicine in cerca di riparo, hanno lasciato indietro, nella maggior parte dei casi, la componente maschile della famiglia, rimasta in patria a combattere.

I campi profughi sono popolati dai più disagiati che, bollati con lo status di “rifugiati”, sono esposti, per via della loro vulnerabilità economica, a ogni genere di soprusi.

Amnesty International e molte altre organizzazioni per i diritti umani operanti nel campo hanno già da tempo denunciato le condizioni di abbandono, abuso, sfruttamento e violenza cui la popolazione di Za’atari versa.

In particolar modo la violenza di genere è diventata la piaga peggiore per molte giovani rifugiate siriane, diventate vittime predilette di un fiorente mercato di matrimoni a basso costo, i cui fruitori sono principalmente ricchi uomini provenienti dal Golfo arabo, ma anche giordani ed europei. 

Il fenomeno delle spose siriane reclutate nei campi profughi giordani per essere compreso va inserito in un quadro socio-culturale più ampio.

Innanzitutto la pratica dei matrimoni precoci, già presente presso classi sociali più disagiate e frequente presso la popolazione rurale siriana, è aumentata considerevolmente nel contesto della crisi di guerra. Abusi e violenze sessuali che mettono a repentaglio la virtù delle donne e vulnerabilità economica di famiglie che, prostrate dalle miserie indotte dalla guerra, cercano per le loro figlie riparo nell’istituzione matrimoniale – che si presume essere ancora l’unica capace di garantire dignitosa sopravvivenza – sono da annoverare tra le cause principali dell’aumento di questa pratica.

D’altro canto, invece, è innanzitutto la dote, considerevolmente “bassa”, rispetto ai normali standard dei costi di un matrimonio, specialmente nel ricco Golfo arabo, a muovere molti sauditi a cercar spose tra le rifugiate siriane. Tuttavia, la percezione del loro status di rifugiate – quindi vulnerabili – espone queste giovani ad abusi nell’ambito del matrimonio.

Spesso, infatti, questi uomini abusano della pratica del zawag al-misyar o zawag al-mut’at, vale a dire il “matrimonio temporaneo” previsto nell’Islam per ragioni particolari, per fuggire al reato di zina, che indica le relazioni sessuali illecite, pre o extra matrimoniali.

Il matrimonio di Amani, la ragazza siriana la cui storia ci viene raccontata attraverso le parole della madre – Umm Amani – è un esempio di questo tipo di abuso. La sua storia non differisce molto da quella di tante altre ragazze siriane che, anziché uno sposo, hanno trovato un aguzzino che, della loro vulnerabilità, se n’è approfittato. 

Gli occhi vividi di Umm Amani, che si manifestano dietro il niqab che le copre quasi completamente il volto, non lasciano dubbi riguardo alla sua personalità di donna forte e fiera. La sua voce è acuta e forte, seppur cadenzata da un tono a tratti lamentoso, a tratti commosso, mentre ci racconta la storia della figlia Amani, data in sposa a diciassette anni a un cinquantenne saudita. 

La nostra situazione in Siria era davvero molto difficile, il padre dei miei figli era morto in combattimento e io ero rimasta sola con una famiglia numerosa da accudire. È stato allora che mio cognato, che viveva in Arabia Saudita, mi ha proposto di dare in sposa mia figlia a un uomo saudita. Sono state le circostanze di miseria e paura in cui versava la mia famiglia, unite alla speranza di ricostruirci una vita lontana dal conflitto, a indurmi ad accettare la proposta di matrimonio di mia figlia. Purtroppo però, lo zio si è approfittato di noi, contrattando con l’uomo una misera dote per mia figlia, e richiedendo per sé una fruttuosa commissione”. 

La tragedia di Amani si snoda tra la Siria, la Giordania e l’Arabia Saudita. Promessa in sposa mentre si trovava ancora in Siria, Amani attraversa con la madre il confine tra la Siria e la Giordania e raggiunge il campo profughi di Za’atari.

E’ lì, infatti, che deve incontrare il suo promesso sposo e ufficializzare il matrimonio. Le sue aspettative, però, non si realizzano. L’uomo saudita raggiunge la donna in Giordania, paga per farla uscire dal campo profughi, affitta un monolocale nella città di Mafraq e lì rimane per soli due giorni, per poi far ritorno in Arabia Saudita. Non ne vuole proprio sapere di riconoscere Amani come sposa. 

Mia figlia, alla fine, si era sposata solo ‘a parole’ con un uomo senza religione né morale. Dopo alcuni mesi abbiamo scoperto che era incinta, e allora, l’uomo, affermando di non volerne sapere nulla, l’ha minaccia di abortire. Con un figlio in arrivo e un matrimonio non ufficiale, il futuro di mia figlia era perduto”.

Umm Amani, per risolvere la situazione e impedire che il nascituro fosse bollato come Ibn Haram – termine con il quale si indicano i figli nati da relazioni considerate “illegittime” – si reca all’ambasciata saudita ad Amman per far pressione affinché il promesso sposo firmi i documenti del matrimonio e consegni la dote prevista di circa 3mila euro. 

Ma le sue richieste d’aiuto rimarranno inascoltate fino alla nascita della nipote, quando la donna riuscirà a fornire il test del Dna. Solo allora infatti l’ambasciata saudita, riconoscendo il fatto, costringerà l’uomo a ufficializzare il matrimonio e registrare la figlia come cittadina saudita.

Umm Amani prosegue narrandoci la triste vicenda di Amani, poi portata dall’uomo a vivere in Arabia Saudita: 

L’uomo saudita non era affatto un buon marito. Certe volte, mia figlia mi chiamava nel cuore della notte per dirmi che suo marito stava abusando di lei o che era malata o non aveva cibo in casa. Finora non vi ho detto che mia figlia viveva a soli 100 metri dalla famiglia dell’uomo, che non aveva alcuna idea della sua esistenza. Non conosceva neppure i suoi vicini e nulla attorno a sé, era come una prigioniera. Qualche volta mi chiamava persino per dirmi che non aveva acqua da bere”.

Dopo circa un anno dal suo trasferimento in Arabia Saudita, Amani viene ripudiata e rispedita da sua madre in Giordania, mentre il marito ha trattenuto con sé la sua bambina. Le minacce di Umm Amani di denunciare la storia della figlia alle associazioni per i diritti umani non hanno sortito alcun effetto nell’uomo, il quale, per nulla intimorito, ha così replicato a Umm Amani:

Se non hai intenzione di riprenderti tua figlia, io mi terrò comunque la bambina e butterò per strada la madre”.

Amani ha solo 19 anni quando viene ripudiata, privata della sua bambina e costretta a far ritorno da sua madre in Giordania, lì recatasi in cerca di un riparo per sé e la propria famiglia, in fuga da una Siria ormai devastata.

Sarebbero all’incirca 635.324 i profughi siriani ufficialmente registrati in Giordania presso l’UNHCR – Alto Commissariato Onu per i Rifugiati – mentre le stime non ufficiali parlano di circa 1.3 milioni di siriani stanziati in Giordania, principalmente presso le aree urbane del regno, e non nei campi profughi.

La Giordania continua ad ospitare profughi nonostante la sua situazione socio-economica stia diventando sempre più insostenibile, e su di essa gravino, oltre che i “nuovi” profughi siriani, anche quelli di vecchia data, palestinesi e iracheni.

In un’intervista rilasciata alla BBC agli inizi di febbraio, il Re di Giordania, Abdallah II, ha affermato che l’afflusso continuo di profughi siriani nel Regno Hascemita sta creando una notevole pressione sul bilancio statale, il cui 25%, infatti, è stato devoluto alla causa dei rifugiati. Il Re ha inoltre affermato che il Regno ha raggiunto il suo “boiling point” e difficilmente potrà continuare ad accogliere rifugiati senza un consistente aiuto finanziario internazionale.

Re Abdallah è consapevole del ruolo essenziale che la Giordania ha nell’assorbire le tensioni delle vicine nazioni – Palestina prima, Iraq dopo e Siria oggi – fungendo da valvola di sfogo fondamentale per contenere i problemi di un Medio Oriente sempre più in conflitto. 

La storia di Amani e della sua famiglia è quella di tante altre famiglie di rifugiati siriani soggetti ai più disparati soprusi, di cui quello del matrimonio temporaneo è solo uno dei tanti esempi.

Ancora oggi queste famiglie, in Giordania, come in altre nazioni, attendono il ritorno in patria. Un ritorno che, probabilmente, rimarrà ancora un sogno lontano.

*L’ntervista a Umm Amani è a cura di Raed A. Sammour, attivista per i diritti umani in Giordania.

 

March 01, 2016di: Ivana Cosmano Arabia SauditaGiordania,Siria,

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