Dal Qatar si era levata un’importante voce a favore del sì al referendum. Pena il disastro delle finanze statali. Che comunque rischiano di restare in rosso.
di Francesca Manfroni
Questo l’appello lanciato venerdì scorso, a sole 24 ore dall’apertura delle urne, dal predicatore egiziano Youssef Qaradawi, che ha invitato i suoi connazionali ad approvare il referendum voluto dal presidente Morsi.
Un no – secondo il numero uno dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani – che sarebbe costato almeno 20 miliardi di dollari in investimenti.
Soldi che il Qatar sarebbe pronto a versare nelle casse dello Stato egiziano ‘in cambio’ della nuova Costituzione.
“Voterò sì, ma non mi interessa né Morsi né il Partito libertà e giustizia, mi preoccupa invece l’Egitto, il più grande paese ” del mondo arabo, avrebbe affermato Qaradawi, che – nel condannare “l’ondata di violenza” che ha interessato le strade del Cairo la settimana scorsa – ha comunque respinto l’accusa rivolta ai Fratelli nusulmani, che li vorrebbe favorevoli a uno Stato teocratico.
Intanto,la rappresentanza di uomini d’affari mandati dal governo di Doha ha cancellato la visita in programma al Cairo, seguiti da turchi ed etiopi.
Rinviata anche una conferenza dal titolo “La ricostruzione del Sinai”, come annunciato dallo stesso presidente del North Sinai Investors Association, Tamer El-Shorbagi.
Ayman Eissa, a capo dell’Egyptian-Ethiopian Business Council, ha spiegato che questa non è la prima volta che è costretto a cancellare il suo viaggio al Cairo, mostrandosi sicuro “che la situazione non migliorerà nei prossimi mesi”.
Gli fa eco Fayez Ezz El-Din, presidente dell’omologa struttura per il Canada, che si rammarica nel veder andare in fumo i soldi promessi dal paese nord-americano, “che arriveranno solo quando la situazione politica sarà stabile”.
Stesso copione per Ahmed Galal, rappresentante della turca MUSIAD con sede in Egitto, che ha annunciato che il suo gruppo ha rinviato l’esposizione “City Scape, Next Move” prevista per il 18 dicembre di quest’anno.
Da parte sua, Khalid Ibrahim, presidente dell’Engineering Export Council of Egypt, sostiene che “la situazione attuale avrà effetti di lungo termine sulle esportazioni”, soprattutto in vista dei nuovi scioperi che potrebbero interessare le fabbriche di tutto il paese”, e “che potrebbe rischiare di paralizzare l’economia”.
Il vicepresidente del Consiglio per l’esportazione dei capi d’abbigliamento, Abdelghani Al-Abasiri, stima già una caduta del 20% per tutto il 2013, mentre il suo collega ai prodotti agricoli, Sherif El-Beltagy, ha dichiarato che “gli scioperi portuali hanno gettato seri dubbi sulla capacità del ministero dell’Industria e del Commercio estero di raggiungere il suo obiettivo dichiarato di esportare 17,5 miliardi di dollari di merci entro la fine del prossimo anno”. Stesse previsioni per altri settori chiave dell’economia egiziana.
A descrivere la situazione in numeri è la contrattazione dei titoli egiziani: gli acquisti particolarmente altalenanti dei giorni scorsi non hanno certo portato ossigeno alla già strozzata situazione finanziaria del paese, aggravata ulteriormente dalla decisone del Fondo monetario internazionale di ritardare il prestito di 4,8 miliardi dollari, che avrebbe dovuto colmare il deficit di bilancio e rassicurare gli investitori stranieri.
Scelta che però non è dettata dall’instabilità politica, quanto dal mancato rispetto delle linee guida che l’FMI ha imposto al paese per aprire il suo portafoglio.
E l’aumento delle tasse è solo la prima delle misure previste dal ‘pacchetto di riforme’ necessarie a soddisfare le condizioni del prestito accordato – in linea di principio – all’organizzazione internazionale.
Prestito che si trascina da oltre un anno e che è mal visto da molti, sia tra le fila degli islamisti che dell’opposizione al presidente Morsi, soprattutto per la mancanza di trasparenza e legittimità, dal momento che le trattative si sono svolte in assenza di un Parlamento eletto.
16 dicembre 2012
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