Traduzione di Cecilia Dalla Negra
“Non andateci, statene fuori. È per la vostra incolumità”. È stato questo il minaccioso messaggio dei manifestanti più allarmisti, con cui molte donne sono state accolte a Piazza Tahrir, il cuore della rivoluzione egiziana.
La ragione? L’aumento dilagante dei casi di molestie sessuali, aggressioni e stupri nella piazza e nei dintorni.
Considerato un modo per scoraggiare la partecipazione femminile alle manifestazioni, la violenza sessuale è diventato un argomento centrale per gruppi della società civile e attivisti, nel tentativo di colmare il vuoto lasciato dall’inazione dello Stato.
“Vietato l’ingresso ai molestatori” è stato quindi il messaggio lanciato da alcuni di questi gruppi in piazza nei giorni scorsi.
Ma il problema è molto più grande di uno striscione.
Tahrir, luogo simbolo della rivolta che ha portato alla deposizione di Hosni Mubarak lo scorso anno, e che resta un punto di aggregazione fondamentale per la maggior parte delle proteste sin dalla rivoluzione del 25 gennaio, è stato attraversato dalla piaga dei tanti episodi di molestie sessuali e aggressioni fisiche contro le donne: manifestanti, giornaliste, passanti.
Episodi che sembrano condotti sia da singoli individui, come forma di violenza spontanea, che da gruppi di molestatori organizzati.
Dina Farid, fondatrice e coordinatrice della Banat Mirs Initiative, sostiene che “si assiste ad un tentativo organizzato di spaventare le persone e allontanarle dalla piazza, e le donne in modo particolare”.
Il gruppo ha raccolto decine di testimonianze di molestie sessuali e aggressioni solo negli ultimi tre giorni. “Abbiamo riportato sia casi di molestie individuali e isolate, che atti di violenza di massa organizzati”, racconta Farid, spiegando che gli aggressori agiscono in gruppo per circondare e attaccare le donne.
Alam Wassef, coordinatore di Operation Anti-Sexual Harassment (Operazione contro le molestie sessuali, ndt) sostiene che ci sia un deliberato obiettivo di spaventare le donne per tenerle lontane dalla piazza.
“Gli aggressori le prendono come obiettivo con l’intento di far percepire la piazza come un luogo pericoloso e insicuro”, sostiene, aggiungendo che i molestatori organizzati cercano anche di gettare discredito sull’immagine di Tahrir.
“Alcuni casi di violenza sono spontanei, come quelli che si verificano contro le donne ogni giorno per le strade egiziane”, afferma Wassef. Tuttavia, molti casi di molestie sono attribuibili alla “mentalità collettiva” o, in alcuni casi, a “molestatori che lavorano in modo organizzato per aggredire insieme le donne”.
“Nelle precedenti occupazioni di Piazza Tahrir, abbiamo notato che gruppi di aggressori organizzati spesso portavano con loro delle armi. Sono pagati per farlo”, sostiene Wassef.
Gli atti di violenza coordinati, aggiunge, sono stati utilizzati durante il regime di Mubarak, del Consiglio Supremo delle Forze Armate e, attualmente, sotto quello del presidente Mohamed Morsi. (…).
Nel suo documentario “Molestie sessuali e Rivoluzione”, la giornalista Ramita Navai rivela che in passato gli aggressori venivano reclutati nei quartieri poveri del Cairo, pagati da uomini legati al regime di Mubarak per scoraggiare le proteste. E che sono ancora pagati per fare la stessa cosa, anche se adesso non vogliono identificare i loro reclutatori.
A confermare l’idea che ci sia una chiara strategia dietro le violenze anche la presenza di armi (…). “Alcuni dei (gruppi di) aggressori arrestati sono stati trovati in possesso di coltelli, mentre altri di droghe e pillole”, sostiene Farid.
Mohamed al-Azaly, avvocato e volontario presso Banat Misr, racconta che “mentre alcuni sono stati trovati in possesso di droghe, la maggior parte degli aggressori erano sobri e ben consapevoli delle azioni che stavano commettendo contro le donne”, aggiungendo che “non fa nessuna differenza se una donna ha i capelli coperti, porta il hijab o addirittura un niqab: tutte sono state oggetto di molestie in piazza”.
Racconta anche di aver aiutato personalmente due donne coperte integralmente dal velo a sfuggire a un’aggressione in piazza. “Erano una madre e una figlia, entrambe vestite con l’abbigliamento islamico tradizionale, e nonostante questo sono state aggredite”, racconta. “A molte delle donne molestate sono stati strappati i vestiti di dosso durante le aggressioni”, aggiunge Farid.
Durante le scorse settimane hanno fatto la loro comparsa in piazza Tahrir diversi gruppi di volontari, per pattugliarla e proteggere donne e ragazze dalle molestie. Il loro lavoro comprende sia la prevenzione attraverso il monitoraggio che l’aiuto alle vittime intercettando gli aggressori.
Uno di questi è Banat Misr Khatt Ahmar – letteralmente tradotto come “le ragazze egiziane sono la linea rossa” – impegnato nel monitoraggio degli episodi di violenza nella periferia del Cairo sin dalle festività di Eid al-Adha lo scorso ottobre, e dalla fine di novembre concentrato esclusivamente su piazza Tahrir.
Il gruppo è composto da 30 volontari, uomini e donne, che indossano t-shirt con il logo dell’associazione per essere riconoscibili (…). Azaly spiega la strategia del gruppo nel cercare di tenere fuori dalla piazza i molestatori.
“Insieme accorriamo sul luogo delle aggressioni. Formiamo un cordone intorno agli aggressori e li allontaniamo. Poi li portiamo nella nostra tenda, dove chiamiamo i parenti – o le mogli se sono sposati – perché vengano a prenderli”. Se non collaborano, li mandano alla vicina stazione di polizia dove però “o vengono rilasciati il giorno stesso o trattenuti per un giorno o due”.
“Fino ad ora nessuna vittima ha voluto sporgere denuncia, forse per il timore di stigmatizzazione o di dover seguire un estenuante iter giudiziario. Se non fosse così forse gli aggressori potrebbero essere portati davanti alla giustizia e puniti”, spiega Farid (…).
Operation Anti-Sexual Harassment invece, conosciuta in arabo anche come Quwwa Ded al-Taharosh, ha fatto la sua comparsa il 30 novembre, quando le proteste sono tornate a riempire piazza Tahrir contro il decreto costituzionale di Morsi.
Mosireen, un collettivo di giornalisti insieme ad altri volontari ha creato il gruppo, anche questo formato da circa 30 volontari che indossano magliette con scritto ‘Contro le molestie’ e ‘Una piazza sicura per tutti’, e che utilizzano le stesse tattiche di Banat Misr.
Solo nel suo primo giorno di lavoro il gruppo ha testimoniato 5 casi di molestie. Entrambi forniscono anche un servizio pubblico con siti internet e linee telefoniche attraverso cui le persone possono riferire episodi di aggressioni (…).
Wassef spiega anche che bisognerebbe fare attenzione alla terminologia che viene utilizzata, e che riflette la profondità del problema.
Spiega che la parola Taharosh, o molestia sessuale, è stata rimpiazzata dal più mite Mo’aksa – approssimativamente tradotto come ‘fastidio’ o ‘rimprovero’ – per descrivere queste “azioni non gradite” contro le donne e le giovani.
Nella sua esperienza è stato testimone di diversi gradi di molestie, che vanno dagli insulti verbali ai palpeggiamenti e alle violenze, fino allo stupro. “Lo stupro non implica necessariamente la penetrazione dell’aggressore. Può essere perpetrato anche con le mani o gli oggetti”, spiega.
Nonostante questo, la maggior parte degli attivisti continua ad utilizzare il termine “molestia” invece che “aggressione sessuale”, anche per descrivere casi in cui le donne sono state aggredite psicologicamente o fisicamente.
Ma serve molto più che una serie di iniziative basate sull’azione volontaria per combattere gli abusi. Per porre fine a questa piaga sono necessarie attività di più ampia portata.
Wassef ritiene che lo Stato, attraverso radio e televisioni, potrebbe essere molto più efficace: “Se solo lanciassero spot e annunci contro le violenze, fornissero sostegno pubblico e diffondessero programmi per aumentare la consapevolezza delle gente, avremmo tutti uno strumento efficace con cui combattere questi aggressori”, spiega.
“Le autorità, però, non hanno la volontà di farlo”.
*Per la versione originale dell’articolo, pubblicato su Egypt Independent, clicca qui.
16 dicembre 2012
Egitto,Articoli Correlati:
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