traduzione a cura di Francesco Siccardi
Mercoledì 17 ottobre, alle ore 14, una grande folla si è radunata davanti alla sede del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Tunisini (SNJT), nel cuore del quartiere di Lafayette, a Tunisi.
“È una giornata memorabile nella storia della stampa tunisina, questo sciopero generale è il primo dall’indipendenza del paese. Oggi i giornalisti sono in sciopero per difendere il diritto dei cittadini ad avere una stampa libera e degna di questo nome, gestita da responsabili scelti secondo criteri di competenza e non di fedeltà politica” dichiara Kamel Ladibi dell’INRIC, l’Istanza Nazionale per la Riforma dell’Informazione e della Comunicazione.
Mongi Khadraoui, Segretario generale dell’ufficio esecutivo del SNJT, è soddisfatto soprattutto del fatto che la mobilitazione abbia coinvolto il 90% dei giornalisti del paese (secondo i dati dell’UGTT, l’Unione generale dei lavoratori tunisini).
Nel corso di questa giornata – storica per i giornalisti ma percepita con distacco dai cittadini che non avvertono alcun cambiamento nel lavoro dei media – sono state sollevate diverse questioni. Dopo un anno difficile i giornalisti sembrano infine essere riusciti a unire le proprie forze e a dare più peso al proprio sindacato.
La battaglia è quella per la libertà di stampa: una libertà che potrà essere assicurata solo da media indipendenti, concetto che sembra infine essere stato fatto proprio da tutti i professionisti del settore.
Anche perché, solo qualche giorno fa, la Troika ha annunciato l’entrata in vigore dei decreti legge n. 116 e 115 relativi alla libertà della comunicazione audiovisiva. Un annuncio arrivato al termine di un anno di battaglie nel settore. Si tratta di un passo in avanti positivo per Larbi Chouikha, membro dell’INRIC, che si rammarica tuttavia del tanto tempo perduto.
Perché è questa, alla fine, la sensazione che si respira: ritardi e passi indietro sembrano essere stati messi da parte, con un anno di ritardo, per lasciare spazio all’applicazione di un quadro giuridico che possa finalmente creare delle basi sane per la crescita e lo sviluppo della stampa nazionale.
L’annuncio, oramai quasi insperato, dell’applicazione delle nuove misure, è stato accolto con favore dai membri del SNJT, come da tutti i giornalisti e da tutti coloro che hanno a cuore la tutela delle libertà.
Ma contestualizzato nella scena politica tunisina, questo provvedimento può essere visto come un’illusione, un escamotage dei politici in un momento di tensione in cui, come è noto, le ineguaglianze sono grandi nel paese e l’Assemblea nazionale costituente (ANC) non è ancora riuscita, a un anno dalle elezioni, a mantenere gli impegni presi.
Sono stati mesi difficili, dicevamo, per il settore dei media: mancanza di un quadro giuridico, violenze continue, nomine calate dall’alto, il sindacato invischiato in un battaglia politica, giornalisti che si battono per cambiare metodo di lavoro e i cittadini impazienti.
Ecco in breve quel che è stato per i media tunisini l’anno appena trascorso.
La riforma del settore dei media sembrava essere ben avviata. All’inizio del novembre 2011 due decreti legge in materia venivano proposti: i Dl n.115 e 116. Non restava che pubblicare i provvedimenti applicativi, a tutt’oggi ancora attesi.
Il decreto legge 115 afferma il principio della libertà di stampa ed emana un nuovo codice della stampa e dell’editoria. Prevede restrizioni minime ed elimina l’autorizzazione preventiva alla pubblicazione.
Il decreto legge 116 si occupa invece della libertà della comunicazione audiovisiva e predispone la creazione di un’alta autorità, un organo di carattere consultivo, di regolazione e sanzionatorio che, soprattutto, esprime pareri sulle nomine dei vertici dei mezzi di informazione pubblici.
Questa istanza è composta da nove membri nominati dal Presidente della Repubblica (1), dalle organizzazioni professionali della magistratura (2), dal Presidente del parlamento (2), dai rappresentanti dei giornalisti (2), dai professionisti del settore audiovisivo (1) e da imprenditori privati nel settore della comunicazione e dell’informazione (1). Il fatto che la composizione del collegio sia plurale garantisce la sua indipendenza, cosa che però ha l’aria di non essere troppo gradita al Primo ministro.
Già prima che i decreti legge fossero promulgati si è assistito alla sollevazione del Sindacato dei dirigenti dei media tunisini, composto dai quei responsabili di settore che non avevano partecipato alla redazione dei due testi. Il decreto 115, in particolar modo, è giudicato troppo repressivo penalmente.
Questi dirigenti, in particolare quelli delle reti televisive private, sembrano però preoccupati soprattutto dall’idea di vedere le loro licenze rimesse in discussione insieme a una nuova distribuzione degli introiti pubblicitari.
La cosiddetta Troika (Ennahda, Congresso per la Repubblica ed Ettakatol, i tre partiti al governo) sembra approfittare dello scontento di questi professionisti per proporre la sospensione dei provvedimenti e la convocazione di una consultazione nazionale. Questo perché il decreto 116 è di per sé problematico in quanto, ordinando la creazione dell’alta autorità, va a modificare il meccanismo di selezione dei dirigenti dei media pubblici, estromettendo l’esecutivo.
Nel frattempo il Primo Ministro, i cui consiglieri non hanno mai smesso durante l’anno di avere relazioni conflittuali con i giornalisti, ha deciso di operare una revisione dei testi affidandoli a una commissione parlamentare.
Larbi Chouikha, membro dell’INRIC, spiega che questo tentativo di cambiare il testo è frutto di un atteggiamento non costruttivo. Kamel Labidi, che presiedeva la stessa istanza, non ha mai smesso, durante tutto questo anno, di invocare l’emanazione dei decreti, affinché un vero quadro giuridico per i media veda la luce. A suo avviso, solo mettendo in pratica le norme sarà possibile fare gli aggiustamenti necessari.
Data la situazione, all’inizio del luglio 2012 l’INRIC ha deciso di congelare i suoi rapporti con il governo in segno di protesta, spiega ancora Labidi. Questo organismo ha comunque continuato a lavorare e a collaborare con la società civile per difendere il processo di riforma, compito che in assenza di una reale volontà politica di dialogo si è rivelato particolarmente ostico. L’INRIC ha preparato un piano di lavoro e delle raccomandazioni per portare i media tunisini al livello dei media dei paesi democratici, spiega Labidi.
Il rapporto, pubblicato nell’aprile del 2012, era una vera e propria tabella di marcia. Ma né l’Assemblea costituente né il governo lo hanno mai preso in considerazione.
Olivia Gré, direttrice di Reporters Sans Frontières in Tunisia, si è anch’essa detta preoccupata dal vuoto giuridico dovuto alla mancata applicazione dei testi, ricordando periodicamente l’importanza, per un buon inquadramento del settore, di un quadro normativo definito.
L’assenza di un quadro giuridico ha avuto come conseguenza diretta una serie di nomine conflittuali ai vertici dei media pubblici, televisioni, radio e giornali (molte tra le imprese confiscate dallo Stato dopo la rivoluzione riguardano l’informazione e la stampa). “Si tratta di nomine che, piuttosto che su norme oggettive, si sono basate sull’affinità politica dei singoli e sull’intenzione (dell’esecutivo) di mettere le mani sui media” afferma Mongi Khadraoui, Segretario Generale del SNJT.
È d’accordo con lui Kamel Labidi, che condivide l’impressione che il governo, evitando di adottare criteri trasparenti, abbia voluto collocare delle persone senza curarsi del diritto di tutti i tunisini ad avere un’informazione libera e pluralista.
Nel mese di gennaio nuovi dirigenti sono quindi stati collocati alla testa della TAP (Agence Tunis Afrique Presse), della Televisione Nazionale Tunisina e della Société nouvelle d’impression de la presse et de l’édition, editrice dei giornali La Presse e Essahafa. A febbraio è stata la volta dei vertici di Radio Zitouna e Radio Shems, ad aprile della Radio Nationale, a luglio di Wataniyya1 (catena televisiva nazionale, ex TV7), ad agosto di Dar Assabah, che pubblica Le Temps e Assabah.
Se per la stampa il processo è autonomo, al contrario la nomina dei vertici delle imprese di comunicazione audiovisiva sarebbe dovuta essere gestita e autorizzata dall’alta autorità (come stabilito dall’art. 18 del decreto 116): ma, siccome le norme del decreto 116 non vengono applicate, il governo è libero di collocare chi preferisce alla testa dei media.
In ogni caso, qualunque sia il settore specifico di appartenenza – stampa, televisione o radio – tutte le nomine fatte quest’anno hanno dato origine a polemiche.
A gennaio, per esempio, la sostituzione presso la TAP di un dirigente storico ha creato un piccolo movimento di protesta, non tanto contro la persona nominata quanto piuttosto contro il metodo utilizzato. Presso Dar Assabah, invece, sono stati organizzati un sit in e uno sciopero della fame.
Dei conflitti che hanno scosso il settore dei media nel corso di quest’anno, quello legato a Dar Assabah è stato di gran lunga il caso più importante, più lungo e punto culminante.
È stata la prima volta in cui professionisti dell’informazione si sono uniti in nome dell’indipendenza e dell’autonomia della stampa. Un’unione che ha portato i suoi frutti e che si è conclusa con la vittoria dei giornalisti.
Il conflitto inizia nel mese d’agosto quando Kamel Samari, già corrispondente da Londra e con esperienze di militanza nel campo dei diritti umani, viene allontanato in seguito a una riorganizzazione del Consiglio di amministrazione.
Samari è sostituito da Lofti Touati, un commissario di polizia che aveva partecipato all’attacco contro il SNJT nel 2009. Il cambiamento non è accettato dai giornalisti e dai membri del personale dell’azienda e comincia così un duro braccio di ferro. Per Lofti Touati non c’è tregua: tra scontri anche fisici, un sit in permanente, l’allontanamento di uno dei tre redattori in capo di Le Temps, Jameleddine Bouriga, e la tensione costante in seno a Dar Assabah, Touati è stato costretto a dare le dimissioni dopo qualche giorno.
La nomina di un nuovo direttore, incaricato di rivedere la linea editoriale, ha turbato i giornalisti soprattutto alla luce del fatto che dietro questo avvicendamento si voleva nascondere – secondo gli impiegati e i giornalisti di Dar Assabah – l’intenzione del governo di manomettere le attività del gruppo e di liquidare una parte dei beni in suo possesso.
Quel che è successo a Dar Assabah è significativo in quanto permette di individuare diversi aspetti problematici che attagliano oggi il settore informativo tunisino: la libertà di stampa, i retroscena economici, la corruzione, la volontà di accaparramento del governo e il conseguente controllo politico. Il fatto che giornalisti e dipendenti abbiano avuto la meglio rappresenta però una notizia incoraggiante.
La Radio Nazionale, invece, resta tuttora sede di conflitto. Habib Belaïd, storico dipendente della radio poi nominato alla sua direzione, aveva avviato un necessario lavoro di riforma, sia formale che sostanziale, ma è stato messo da parte e rimpiazzato da un tecnico il cui stato di servizio è preoccupante: incapace di qualsiasi iniziativa e ostacolo al lavoro dei colleghi, il nuovo direttore Mohamed Meddeb è anche stato riconosciuto colpevole di aver autorizzato la distruzione degli archivi della Radio.
Questi conflitti sono rappresentativi delle tensioni che esistono in numerose redazioni, dove alcuni giornalisti cercano un nuovo equilibrio, mentre altri non vogliono affatto cambiare il sistema.
Uno dei dati più allarmanti, se consideriamo la situazione dei media nell’anno appena passato, è quello che riguarda le cifre relative alle aggressioni dei professionisti del settore: in media tre per settimana, mentre erano in media 1,5 subito dopo la rivoluzione.
Questo numero è “esploso”, secondo Mongi Khardaoui del SNJT, ma – come spiega Olivia Gré di RSF – è il fatto che le violenze siano molto concentrate a rendere le cifre così elevate. Aymen Rezgui (membro dell’ufficio esecutivo del SNJT) spiega che, oltre a essersi modificate “le aggressioni hanno oggi motivazioni diverse”.
Prima della rivoluzione “il nemico” era uno solo. Oggi invece ha almeno tre facce: quella dell’uomo politico, quella della polizia e quella dei cittadini/militanti.
Le forze dell’ordine continuano a malmenare i giornalisti senza avere evidentemente trovato un metodo per gestire le manifestazioni e proteggere i reporter che coprono i principali avvenimenti. Il 9 aprile (manifestazione che ha celebrato la giornata dei martiri, violentemente repressa dalle forze dell’ordine) verrà ricordata senza dubbio come la pagina più nera.
Nel corso di una manifestazione nel centro di Tunisi le forze dell’ordine, disperdendo la folla, hanno attaccato i giornalisti, insultandoli e impedendogli di fare il loro lavoro. Quattordici giornalisti sono stati aggrediti quel giorno, tunisini e anche stranieri. Questa dimostrazione di forza dimostra che la polizia non ha ancora cambiato il suo modo di agire.
Gli uomini politici, da parte loro, esercitano una violenza verbale fatta di aggressioni, insulti, minacce e pressioni, in seno all’ANC come nella vita quotidiana o attraverso altri media “concorrenti”.
Nell’aprile scorso, solo pochi giorni dopo la manifestazione del 9, nel corso di una discussione in seno all’ANC un deputato del partito islamista Ennahda si è riferito ai giornalisti come a delle “mosche”.
Questa volgare definizione dimostra il disprezzo nutrito dalla politica nei verso la categoria e la mancanza di empatia nei confronti di persone vittime anche di attacchi violenti. Una tipologia di discorsi che influenza la popolazione, già di per sé molto dura nei confronti di stampa e televisione.
Secondo Aymen Rezgui ci sono cittadini, specialmente tra i ilitanti politici, che non esitano a prendersela fisicamente con i giornalisti e a manomettere i loro strumenti di lavoro. Uno dei primi casi risale al novembre 2011 quando Ikbal Gharbi, nominata alla testa di Radio Zitouna, cercando di entrare nel suo ufficio è stata bloccata da un gruppo di estremisti religiosi che l’hanno minacciata. Si è trattato di uno dei primi episodi di aggressione, dopo le elezioni, da parte di cittadini e di simpatizzanti di gruppi politici ed è stata una delle prime denunce fatte da un membro del settore dei media.
Olivia Gré di RSF spiega ancora una volta che il modo in cui queste aggressioni vengono gestite mostra che una giustizia a due velocità sta prendendo forma nel paese. Mongi Khadraoui del SNJT conferma questa sensazione: gli aggressori dei giornalisti non vengono mai indagati, le denunce depositate non hanno avuto alcun seguito fino ad oggi, mentre i giornalisti sono stati attaccati per aver infranto, nell’esercizio della loro professione, norme del codice penale.
Nel mese di febbraio il caso del giornale Attounisia ha richiamato l’attenzione: dopo la pubblicazione di una foto di donna a torso nudo il direttore del giornale è stato arrestato e imprigionato ancora prima di essere giudicato. Anche il caporedattore e il giornalista autore dell’articolo sono stati arrestati.
Non si tratta dell’unico caso di questo tipo: diversi giornalisti sono comparsi, nel corso dell’anno, di fronte ai giudici con imputazioni disparate, tra cui le più ricorrenti sono la diffusione di informazioni false e diffamazione.
La violenza è dunque fisica, verbale e psicologica dal momento che i giornalisti, in procinto di liberarsi dai propri “riflessi condizionati” di autocensura, devono continuamente considerare la possibilità di un attacco ingiustificato.
Il vuoto giuridico generato dalla mancata applicazione dei decreti 115 e 116 ha avuto diverse conseguenze. Come già spiegato, ha favorito delle nomine controverse alla testa dei media pubblici e ha impedito al settore di avviare un processo di rinnovamento.
La creazione di una vera concorrenza e la collocazione ai vertici delle società di persone disinteressate e non compromesse con vecchi o nuovi poteri, avrebbe avuto delle conseguenze positive, se non altro perché i giornalisti avrebbero potuto dedicarsi completamente a migliorare il proprio lavoro invece che essere costretti ad estenuanti battaglie interne.
Da parte loro, i cittadini danno grandi segni di impazienza e vogliono subito una stampa professionale e competente. Ma i cambiamenti sono lunghi e difficili, come in tutti gli altri settori della società: lunghi perché la formazione deve essere ripensata, e le nuove abitudini professionali hanno bisogno di un po’ di tempo e di pratica per essere assimilate. Difficili, perché il settore dei media si è ritrovato per tutto l’anno bloccato in una battaglia politica.
La mancata applicazione dei decreti, da questo punto di vista, ha fatto perdere diverso tempo: quando un giornalista della vecchia scuola viene imposto ai vertici è difficile, poi, mettere in atto un cambiamento della mentalità e della formazione professionale.
Per quanto riguarda le redazioni, l’immobilismo dell’amministrazione ha avuto gravi conseguenze sul rinnovamento delle squadre di giornalisti. Essahafa, il giornale in lingua araba di servizio pubblico, non organizzava un corso per assumere nuovi giornalisti da più di dodici anni; la TAP aveva congelato le assunzioni di giornalisti provenienti dall’IPSI (Istituto della Stampa e delle Scienze dell’Informazione) da molto tempo. E questo solleva un altro aspetto problematico: quello della differenza tra generazioni.
Il rinnovamento delle redazioni dovrà aiutare a cambiare il metodo di lavoro e la mentalità dei giornalisti. E questo rinnovamento avrà luogo quando arriveranno sul mercato del lavoro dei giovani di nuova formazione. Perché è dalla formazione che deve cominciare il cambiamento.
Ma Larbi Chouikha, membro dell’INRIC e professore presso l’IPSI, avvisa che per raggiungere questo risultato bisognerà essere pazienti. L’IPSI era un anello della catena della repressione e agiva più secondo logica politica che secondo logica accademica e professionale: pratiche, anch’esse, che non possono essere cambiate dall’oggi al domani (nonostante le modifiche apportate all’Istituto).
Visitando certe redazioni e discutendo con chi ci lavora, ci si rende conto che i giornalisti e i dirigenti più anziani fanno fatica a cambiare il proprio metodo e continueranno addirittura a praticare l’autocensura per non dover avere a che fare con il governo e per non mettere in pericolo la loro carriera. I giovani sembrano invece più dinamici e più pronti a parlare di argomenti fino ad oggi ignorati.
Ed è a questo livello che si gioca la ridefinizione della professione del giornalista in Tunisia: professione che non ha nulla a che vedere con il lavoro dei funzionari, ma che richiede flessibilità e un coinvolgimento personale.
Un altro fenomeno persiste ancora oggi: quello della fedeltà. Oppure, al contrario, quello degli attacchi infondati e della corsa alle false notizie. Dopo la rivoluzione molti media hanno scelto un campo politico: a favore o contro (la troika al governo, ndt).
L’abitudine a schierarsi è profondamente radicata e non sempre le redazioni sembrano capaci della neutralità necessaria al mestiere. Questa mancanza di oggettività è a sua volta uno degli argomenti utilizzati dagli uomini politici e dai cittadini per giustificare i loro numerosi attacchi alla professione.
I cambiamenti nel settore dei media devono avvenire a diversi livelli: al livello dei temi trattati, a quello dei metodi di lavoro, a quello della mentalità. La questione della disoccupazione e della vita nelle varie regioni, della ripartizione della ricchezza e dei finanziamenti statali sono argomenti che hanno l’aria di attirare parecchi giovani giornalisti. I numerosi momenti di formazione organizzati in seno alle redazioni devono permettere ai professionisti di lavorare in maniera più efficace e possiamo solo sperare che, a forza di essere praticato in libertà, il giornalismo ritrovi quella dimensione di “nobiltà” che gli appartiene.
Come spiegano i giornalisti di La Presse e di TAP, i veri reportage non hanno ancora trovato spazio nel panorama dell’informazione. Mentre la reiterata minaccia da parte dei politici di pubblicare una lista nera dei giornalisti (implicati nel vecchio regime, ndt) non aiuta a instaurare un’atmosfera propizia al cambiamento.
Il SNJT spiega di non potere lavorare correttamente dal momento che gli è negato l’accesso agli archivi della polizia politica. Il Ministro dell’Interno Ali Laaryedh ha recentemente spiegato di non disporre degli elementi necessari per prendere una posizione su questo dossier così sensibile.
Quale che sia la polemica sulla volontà di epurazione del settore dei media, il risultato è uno solo: il danneggiamento della credibilità della professione. Una professione che i membri di Ennahda, più degli altri, non cessano di denunciare rifiutando qualsiasi forma di dialogo che permetterebbe di migliorare la qualità e le professionalità del lavoro dei giornalisti.
Il diritto all’informazione infatti dovrebbe agire secondo due direzioni: permettere ai cittadini di essere informati e obbligare la politica ad agire responsabilmente. Si tratta di un diritto essenziale e i media pubblici devono giocare, in questo scenario, un ruolo di primo piano, senza timori e allo stesso tempo senza preconcetti.
Nel frattempo i media associativi e comunitari cercano di organizzarsi e ovunque nel paese. Cittadini-giornalisti danno una mano per la copertura puntuale e particolareggiata di ogni avvenimento. Il lavoro fatto da questi media alternativi mostra un importante cambiamento di mentalità. Malgrado l’assenza di un quadro giuridico, malgrado il fatto che questi media non godano né di riconoscimento pubblico che di sostegno finanziario, iniziative come questa stanno nascendo ovunque.
A Gafsa la radio Sawt el Manajem è una delle più ascoltate, a Sidi Bouzid la web radio SBZone tenta di dare un resoconto dell’attualità. A Makter il blog MaktarisNews si sta imponendo a poco a poco come un vero e proprio media di riferimento locale. Ma la politica non pare intenzionata a prendere in considerazione questo settore.
I media non sono solo imprese pubbliche e private, sono anche queste entità comunitarie e associative di cittadini che si appropriano dei mezzi di comunicazione per parlare della loro quotidianità e vivere in prima persona un’esperienza di “democrazia”.
L’emergere di questi media alternativi mostra infine che la voglia e il bisogno di informazione non sono mai stati così grandi in Tunisia. Un bisogno che non sembra però trovare risposta.
La creazione di uno stato democratico, pertanto, dipende anche dalla creazione di una stampa libera.
Non sarà semplice, ma bisogna sperare che l’applicazione dei decreti legge 115 e 116 abbia infine luogo come promesso, e che la breccia aperta dall’allontanamento di Lofti Touati dalla direzione di Dar Assabah porti delle conseguenze positive per tutto il settore, per poter alla fine celebrare, tra un anno, la stampa libera tunisina.
* Qui la versione originale dell’articolo.
November 11, 2012
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