Disinformazione, strumentalizzazione, semplificazione: è questo il quadro quando parliamo di terrorismo, democrazia, sicurezza. Anche per quanto riguarda l’attentato che ha colpito la Tunisia. Lo speciale di Osservatorio Iraq.
di Damiano Duchemin – Gli attacchi terroristici e gli atti violenti che hanno colpito la Tunisia, il Kuwait, la Francia, la Somalia e il Rojava lo scorso 26 giugno probabilmente non hanno una correlazione diretta, o perlomeno il legame non è stato provato.
Ciononostante è evidente che l’invito di Isis, o Daesh, a compiere “attacchi contro i crociati” nel corso del mese di Ramadan, sia stato colto da più parti.
Attraverso la disinformazione agita da buona parte dei mass media italiani ed europei, che tendono a dare l’impressione che quanto accaduto sia stato orchestrato a tavolino da un’unica mente, la capacità organizzativa del gruppo Stato Islamico viene sopravvalutata ed amplificata. Si tratta di una semplificazione che è peraltro assolutamente in accordo con gli intenti e con la strategia comunicativa di Daesh.
Infatti, l’obiettivo di dimostrarsi capaci di poter attaccare in qualsiasi posto e in qualunque momento, è stato raggiunto.
L’opinione pubblica internazionale è sconvolta da quanto accaduto, così come i seguaci e i simpatizzanti di Daesh probabilmente si sentiranno orgogliosi e ammaliati da tale dimostrazione di potenza. Alcune fonti indicano come responsabile dell’attentato di Sousse il gruppo radicale tunisino Ansar al-Sharia, che da pochi mesi sembrerebbe aver aderito formalmente al gruppo Stato islamico, nonostante le posizioni ideologiche delle due formazioni inizialmente fossero piuttosto discordanti, principalmente per quanto riguarda le modalità di azione: dawa, o proselitismo per Ansar al Sharia; jihad, o guerra santa, per Daesh.
Se la responsabilità di Ansar al Sharia fosse confermata, rappresenterebbe la conferma di un cambio di rotta decisivo.
Il numero di aprile di “Dabiq”, la rivista che Daesh pubblica sul web in lingua inglese, celebra i soldati del jihad ed esorta altri a seguire il loro esempio, citando più volte l’attacco al Bardo a Tunisi dello scorso 18 marzo, sostenendo come “la missione sia stata un successo nel portare angoscia in diverse nazioni implicate nella coalizione dei crociati”. Elementi centrali e complementari del disegno di Daesh, sono quelli di voler provocare il terrore nei paesi “nemici del Califfato”, e di voler espandere la propria influenza attraverso la conquista di zone e territori strategici in Iraq e Siria.
Ma comprendere fino in fondo il contesto attuale è un’impresa resa difficile sia dall’oggettiva complessità dello scenario e dalla difficoltà per l’Occidente di leggere un mondo che ha altri sistemi valoriali e una cultura che generalmente misconosce; sia, e soprattutto, dalla mancanza di volontà da parte dei governi e degli altri attori internazionali che determinano le strategie della geopolitica economica e sociale regionale.
Sarebbe infatti quanto mai necessario analizzare francamente le cause della nascita e dell’espansione di Daesh e del terrorismo, ma diversi ostacoli impediscono che questo percorso venga intrapreso.
Innanzitutto bisognerebbe essere pronti ad accettare le conseguenze e le responsabilità degli attori implicati.
A livello regionale significherebbe prendere atto che le strategie geopolitiche portate avanti dalle potenze occidentali nella regione sono state fallimentari e hanno favorito e permesso la creazione di Daesh. Ben pochi attori della comunità internazionale sarebbero esclusi dall’attribuzione di responsabilità.
O al contrario, si potrebbe scoprire che gli interessi economici e politici dietro alla creazione di Daesh sono assolutamente in linea con gli interessi del capitalismo finanziario in cui oggi siamo immersi.
Superata l’equazione marxista che definitiva il capitalismo come un processo che permette la creazione di denaro attraverso l’investimento nella produzione della merce (denaro-merce-denaro), l’odierno capitalismo finanziario produce denaro tramite denaro. Nel tempo in cui gli Stati-nazione hanno perso sovranità, poco importa se il denaro sia prodotto o fatto circolare da Daesh o da chiunque altro. Gli interessi economici come sempre hanno un ruolo fondamentale nella definizione delle politiche e delle alleanze, più o meno occulte, più o meno evidenti; e trascendono da qualunque altro valore, come dimostrato dalle relazioni tra l’Occidente e i suoi alleati dei paesi del Golfo, i quali certamente non rappresentano un modello di democrazia.
Per quanto riguarda più da vicino la Tunisia, significherebbe essere pronti ad affrontare le conseguenze di questa analisi, senza nascondersi dietro le false soluzioni che utilizzano il terrorismo come pretesto per favorire una svolta autoritaria.
Per farlo si dovrebbe analizzare il fenomeno del terrorismo senza ridurlo ad un problema di sicurezza, come sostiene Houssem Hajlaoiu nell’intervista che abbiamo realizzato, “ed esplicitare l’incapacità dello Stato tunisino di dare risposte economiche e sociali”, incapacità che ha favorito la creazione di un terreno fertile per il reclutamento all’estremismo di giovani sempre più frustrati e impoveriti.
Analogamente Miriam Bribri sostiene che non c’è stata in Tunisia fino ad oggi “un’evoluzione a livello socio-economico e che il potere è tutt’ora centralizzato e impostato su un assetto neolibelista che esclude lo sviluppo nazionale e popolare (..) e che parla di sicurezza dimenticando la giustizia sociale”.
Un’analisi di questo tipo non potrebbe prescindere dal prendere in considerazione i territori in cui si sta espandendo il fenomeno di Daesh non in quanto gruppo terroristico, ma come milizia che ambisce alla costruzione di uno Stato.
Probabilmente una corretta e approfondita analisi porterebbe ad ammettere che supportare più o meno direttamente Bashar al-Asad, un dittatore spietato che ha le mani sporche del sangue di decine di migliaia di civili, sia stato un errore. E che definirlo come l’alternativa alla barbarie di Daesh non serve ad altro che a legittimare la sua presenza al potere.
Effettivamente sostenere Asad come baluardo contro l’estremismo non è difficile, a patto che si decida di non tenere conto né delle documentate relazioni commerciali tra il regime siriano e Daesh, né di quanto le torture subite da centinaia di islamisti nelle carceri siriane abbiano contribuito alla creazione dell’estremismo e del fanatismo religioso, o perlomeno alla determinazione e all’efferatezza dei sedicenti soldati del Califfato.
Al contrario, questi elementi vanno presi in considerazione, così come il fatto che la liberazione di migliaia di prigionieri che in seguito hanno formato o che si sono uniti a gruppi armati radicali durante le prime proteste del 2011 sia servito al regime per legittimare l’uso della forza e la repressione delle manifestazioni che chiedevano democrazia e diritti. E si dovrebbe anche fare i conti con le condizioni di vita dei palestinesi del campo di Yarmuk, di cui si è parlato solo nel momento in cui è stato attaccato da Daesh, tralasciando i crimini commessi da Asad per anni.
Un’analisi complessiva e onesta finalizzata ad affrontare gli errori non potrebbe tralasciare la questione della presidenza di Al-Maliki in Iraq, supportata dagli Stati Uniti e dalla Comunità internazionale, che ha provocato quello che possiamo amaramente chiamare un “effetto Ruanda”, a cui Hutu e Tutsi si sono sostituiti sciiti e sunniti.
E, come in quel caso, si dovrebbe evitare di parlare di ‘guerre interne’, siano esse apparentemente mosse da rivalità etniche o religiose, e comprendere invece che le guerre sono sempre finalizzate all’ottenimento del potere e del controllo economico. La repressione agita dal governo scita di Al-Maliki nei confronti della componente sunnita, accusata di essere legata al precedente regime, non può che aver esacerbato e alimentato le prese di posizione estremiste.
Come spiega bene Debora del Pistoia è evidente quanto l’esclusione di una componente sociale porti come conseguenza la sua radicalizzazione e la sua costituzione in un gruppo in cui l’identità, se non è già preesistente, viene creata in maniera forte e indelebile.
Questo è in parte già accaduto in Tunisia e con evidenza ancora maggiore in Egitto attraverso la messa al bando della Fratellanza musulmana, che sta subendo un lento processo di estremizzazione.
In questa incredibile assenza di informazione e di mistificazione della realtà, alimentata da episodi sanguinosi come l’attacco di Sousse, il populismo e le semplificazioni hanno la meglio.
Così in Europa si attacca l’Islam in quanto religione, si arriva a sostenere che tra i barconi dei migranti ci siano nascosti dei terroristi, si additano gli scafisti come i principali responsabili delle morti in mare. Elementi che servono per poter legittimare il mancato impegno nel cercare una soluzione sostenibile e, ancora una volta, per scaricare le responsabilità. Si continuano in questo modo a legittimare le politiche migratorie e gli accordi bilaterali, i trattati di libero commercio, Frontex e la creazione di centri di detenzione per migranti in Tunisia, Libia e Algeria.
Tornando alla Tunisia, come sostiene nell’intervista che ci ha rilasciato Lina Ben Mhenni, “il fenomeno del terrorismo è figlio dell’incompetenza e del lassismo dei governi che si sono succeduti dopo la caduta di Ben Ali, che talora sono arrivati a favorire la creazione di un clima fertile al suo radicamento”.
L’adesione al jihad è causata anche dal peggioramento delle condizioni socio-economiche del paese, alla mancanza di spazi culturali e sociali, e la risposta ancora una volta è di tipo repressivo, con il pericolo di una svolta autoritaria.
“Il popolo tunisino si trova in una situazione di ricatto tra la libertà e il terrorismo”, sostiene infatti Kais Zriba. Il 4 giugno il presidente della Repubblica Béji Caïd Essebsi ha decretato lo stato d’emergenza in Tunisia, come misura eccezionale per controllare il fenomeno del terrorismo.
Tale misura prevede tra le altre cose l’attribuzione di poteri speciali a polizia e forze armate, l’aumento dei presìdi nei luoghi pubblici, la limitazione della circolazione, la perquisizione domiciliare, il controllo della stampa e delle telecomunicazioni, oltre che l’interdizione di riunioni pubbliche, scioperi e manifestazioni.
Come riportato da diversi siti tunisini lo stato d’emergenza è stato applicato all’epoca dello sciopero generale del 1978, durante le manifestazioni del 1983 e infine dal giorno della fuga di Ben Ali, il 14 gennaio 2011, fino al marzo 2014. La riproposizione di questa misura alimenta i timori di una svolta autoritaria che attraverso il pretesto della lotta al terrorismo limiterebbe le libertà fondamentali, come quella di associazione, riunione e stampa.
A questo proposito Hussem Hajlaoiu nella sua analisi per “Inkyfada” studia gli articoli della proposta di legge per “la protezione delle forze armate” che, come conferma nell’intervista, “in tempo di crisi, è facile approvare numerose misure volte ad accrescere la sicurezza e presentarle come l’unica soluzione possibile. (…) tuttavia, alcune misure sono anti-costituzionali e sarebbe bene ritirarle. Oltre a non essere in alcun modo efficaci, c’è il concreto rischio che diano risultati opposti a quelli sperati”.
A questi spunti, che meriterebbero un serio approfondimento, andrebbero aggiunte molte altre considerazioni.
Poiché la volontà politica è assente, diventa compito della società civile, dei cittadini, degli attivisti e dei giornalisti promuovere un’analisi di questo tipo, per svelare l’ipocrisia di chi usa il terrorismo come pretesto per avere carta bianca nell’imporre, nel nome dell’emergenza, misure repressive e antidemocratiche, oltre che per combattere davvero il terrorismo.
Come sostiene Henda Chennaoui, “oggi siamo incastrati tra due mostri: lo Stato e Daesh”.
Speciale Tunisia – La voce degli attivisti
“Siamo schiacciati tra due mostri: lo Stato e Daesh”. Intervista a Henda Chennaoui.
“Invece di rimpiangere il passato pensiamo a costruire il futuro”. Intervista a Lina Ben Mhenni.
“Nessuna sicurezza senza giustizia sociale”. Intervista a Meriem Bribri.
“L’attacco di Sousse? Colpa delle istituzioni”. Intervista a Kais Zriba.
“Sapevamo che la libertà ha un prezzo”. Intervista a Houssem Hajilaoiu.
Analisi e punti di vista
Da Tunisi a Lione, il “venerdì nero” di Daesh – di Lamia Ledrisi
La Tunisia e il miraggio del turismo: di falsi miti non si campa – di Debora Del Pistoia
Tunisia. Dopo la primavera difendiamo l’estate – di Damiano Duchemin
Tunisia. Noi stiamo con le libertà – di Debora Del Pistoia
Kuwait. L’attentato del “Black Friday” e la risposta popolare – di Luigi Giorgi
July 06, 2015di: Damiano Duchemin da Tunisi Arabia SauditaEgitto,Emirati Arabi UnitiIraq,Libia,Qatar,Tunisia,
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