La connessione Internet fa i capricci. La voce che mi arriva tramite Skype gracchia, l’immagine è sfocata. Intravedo alcune figure che parlano e si agitano davanti alla videocamera. Mi dicono di richiamare.
Stacco, aspetto qualche secondo e poi chiamo un secondo contatto dalla lista Skype.
Rispondono subito e questa volta l’immagine che mi appare è finalmente nitida: tre uomini seduti su un piccolo divano. La voce non è perfetta nemmeno ora, ma questa volta, almeno, ne capisco la causa: davanti a quegli uomini, nascoste ai miei occhi virtuali, si nascondono le loro famiglie: le donne parlano, i bambini giocano.
I tre uomini si presentano: Muhammad, ‘Alì, Kamal. I nomi sono ovviamente di fantasia. Prima di iniziare l’intervista lo hanno detto con chiarezza al mio contatto egiziano: parliamo solo dietro l’anonimato e solo con giornalisti stranieri. Condizioni accettate.
Sono tutti siriani, chi di Aleppo, chi di Damasco, chi curdo, chi arabo, chi circasso. Vivono tutti al Cairo, nel quartiere del 6 Ottobre. Fanno parte dei 130mila profughi siriani attualmente registrati presso gli uffici dell’UNHCR.
Muhammad viene dalla capitale, è passato per la Giordania, ha raggiunto ‘Aqaba con mezzi di fortuna e poi si è imbarcato fino a Nuweiba, penisola del Sinai. Da lì, con vari autobus e passaggi, è infine arrivato al Cairo.
‘Alì ha seguito un percorso diverso. Ha attraversato il confine con la Turchia, si è recato ad Istanbul e poi, via areo, è atterrato al Cairo.
Per arrivare in Egitto esistono solo queste due strade: dal nord della Siria si punta alla più vicina Turchia mentre dal Sud si passa in Giordania e poi, via ‘Aqaba e il Sinai, si arriva sino al Cairo. In quest’ultimo caso ci vogliono tre giorni di viaggio.
Kamal ha seguito lo stesso percorso di Muhammad, ma in Giordania si è fermato un anno: si è sposato con una donna siriana e ha avuto anche un figlio, il piccolo Karam. Con loro si è incamminato prima verso ‘Aqaba e poi verso l’Egitto. E’ al Cairo da 365 giorni. Nel suo viso leggo tutta la tensione per le condizioni del piccolo figlio che non ha un documento di riconoscimento non essendo il suo matrimonio stato in alcun modo riconosciuto dalle autorità siriane.
Interagire con le istituzioni è infatti fuori discussione.
Fra di loro c’è chi è ricercato dal regime di al-Asad, chi dal PKK, chi dagli uomini del Daish (Islamic State of Iraq and al-Sham), chi, a suo, dire, da tutti e tre. In ogni caso poco importa: questi tre uomini e le loro famiglie fuggono dalla guerra, dall’incertezza di rimanere a Damasco ed Aleppo, sotto i bombardamenti. Fuggono da qualcosa e cercano ovviamente qualcos’altro: la salvezza per se stessi e, come mi verrà spiegato più avanti, per i loro figli.
“Uscire dalla Siria non è facile”, mi spiega Muhammad, ma “prima del 30 giugno 2013, la situazione dei siriani in Egitto era tutto sommato accettabile”. Questo ha spinto molte persone a cercare riparo nel paese arabo in attesa di tempi migliori. Dopo il colpo di Stato tuttavia, le cose sono drasticamente mutate.
A causa delle dichiarazioni del presidente Morsi, che due anni fa appoggiava senza riserve la rivolta contro Bashar al-Asad, i profughi siriani sono sempre stati percepiti come soggetti del tutto vicini alla Fratellanza. Tutto è andato per il meglio fino a quando quest’ultima è stata al potere. Destituito Morsi sono iniziati i problemi, problemi seri.
Muhammad zittisce gli altri due e alza la voce. “I siriani sono trattati male, con cattiveria, diffidenza. Per andare a scuola richiedono dei permessi di soggiorno che puntualmente non rilasciano, impongono di presentare documenti che dobbiamo ottenere dall’ambasciata. Chiedono l’impossibile”.
‘Alì non perde l’occasione e subito rincara la dose: “Per questo me ne voglio andare!Ho una moglie e quattro figli che sono scappati con me dalla Siria e qui in Egitto non posso garantire loro nessun tipo di futuro. Non appena arriverà la primavera andremo sulla costa per imbarcarci verso l’Europa”.
Il suo tono è deciso, convinto, incrollabile, tanto che penso di non aver colto il senso della sua frase. L’intervista è tutta in arabo, con forti inflessioni dialettali che a volte mi sfuggono. E invece ‘Alì mi conferma: “Vogliamo scappare dall’Egitto e andare in Europa. Non appena le condizioni climatiche saranno migliori ci imbarcheremo. Gli egiziani sono razzisti nei nostri confronti, la polizia invece di proteggerci ci malmena. Ci derubano, ci picchiano, che futuro posso dare ai miei figli qui?”
Provo a riordinare le idee. ‘Alì ha rischiato la propria vita e quella sua famiglia per uscire dal paese, è ricercato dallo Stato siriano e in Egitto nessuno riconosce i suoi diritti di rifugiato: l’unica speranza è l’Europa. Ma non c’è tempo di riflettere perché ‘Alì è un fiume in piena.
“Le nostre donne sono continuamente molestate: nessuna di loro è al sicuro per strada dopo il tramonto”. Provo a fermarlo con una domanda. Voglio sapere se è vero, come riportato da alcuni organi di informazione internazionali, che molte donne siriane hanno contratto matrimoni di “interesse” con uomini egiziani.
La risposta è di una franchezza quasi sconcertante: “Sì, assolutamente sì”. Di fronte alle mie esitazioni (e forse alla mia palese sorpresa), ‘Alì prosegue. “Ti spiego. Molte donne, che peraltro sono la maggioranza delle rifugiate, sono qui da sole. I loro mariti sono morti o sono stati uccisi in Siria. Qui in Egitto nessuno permette loro di lavorare, ma dovranno pur mangiare? Come possono mantenere se stesse ed i propri figli?”.
Una logica drammaticamente sequenziale che mi sento quasi stupido ad aver posto la domanda. “Molte donne sposano i bawab (portieri dei palazzi) anche se sono già sposati”. Non capisco questo passaggio ed il perché sia più frequente un matrimonio con i bawab. L’unica spiegazione che mi do è che molti dei “portieri” egiziano ha famiglia e mogli lontane dal Cairo e quindi sono”autorizzati” (o si sentono tali) a prenderne in sposa una seconda.
“Le donne hanno bisogno di protezione, altrimenti sono costrette a chiedere la carità e, peggio, sono esposte alla violenza degli altri uomini”. Il ragionamento di ‘Alì non lascia spazio al contraddittorio: fatto piuttosto inquietante se si pensa che queste donne hanno perduto la propria famiglia in Siria e ora sono costrette a matrimoni di interesse per la propria sopravvivenza. La guerra non è soltanto la pallottola di un fucile.
“Del resto – afferma di nuovo ‘Alì – dopo il 30 giugno le cose per noi sono drammaticamente peggiorate”. Più che un’intervista è divenuto un monologo che però non ho il coraggio di interrompere.
“La popolazione ci crede nemici di al-Sisi e sostenitori dei Fratelli e per questo ci odia. Prima i miei figli andavano a scuola senza bisogno di nessun permesso, ora quando provi a chiedere qualcosa ti rispondono: ‘Vallo a chiedere a Morsi!’. C’è una cultura del sospetto insostenibile. Le donne egiziane ad esempio odiano le siriane perché secondo loro rubano i mariti e si accaparrano i partiti migliori!”.
Dopo essere rimasto a lungo in silenzio, Muhammad esplode di rabbia: “Ieri hanno arrestato e deportato in Siria 20 fra dottori e dottoresse siriane che curavano la gente gratis. Davanti al loro ambulatorio ci radunavamo sin dalle 4 di mattina, ma ora non abbiamo più nemmeno loro. Li hanno picchiati con il bastone elettrico, li hanno insultati con offese irripetibili urlando ‘Andate via basta, ci siamo stufati di voi’, e allora sai che ti dico? Anche io mi sono stufato e questa primavera andrò via verso l’Europa”.
Se inizialmente ero sorpreso dalla loro determinazione ad affrontare un pericolosissimo viaggio verso il vecchio continente con le loro famiglie, senza la minima garanzia di arrivare a destinazione vivi, adesso inizio a comprendere la lucidità di quelle parole.
Muhammad si alza di scatto e fa sedere al suo posto una giovanissima ragazza. Avrà non più di diciassette anni. La chiameremo Miral.
Miral non dirà una parola durante la sua intera permanenza davanti alla videocamera. Terrà le mani giunte fra le ginocchia, lo sguardo basso, ridendo imbarazzata mentre Muhammad racconterà per filo e per segno la sua storia.
“Un giorno Miral è stata sequestrata nella scuola dove era solita recarsi insieme ad altre sue compagne. Non sappiamo il motivo, ma solo che è stata trattenuta più del previsto senza alcuna apparente ragione. Miral aveva piacere ad andare a scuola nonostante la facessero stare in piedi, nonostante avesse dovuto imparare il dialetto egiziano per seguire le lezioni. Ora però, dopo quell’evento, i genitori non permettono più che vada.”
Infine è il turno di Madame Suad. Miral si alza senza protestare, per lasciare posto alla decisamente più attempata Madame Suad. Velata, cinquant’anni circa, la donna siriana è scappata con i suoi figli e l’anziana madre che ha bisogno di continue cure e medicinali, ormai impossibili da procurarsi a Damasco. La storia di Madame Suad è legata tanto alla scuola che al permesso di soggiorno.
La sua è la descrizione, odisseica, del percorso necessario al fine di ottenere la documentazione necessaria per se stessa ed i suoi figli.
“Dieci giorni prima della scadenza del permesso mi sono recata presso gli uffici ministeriali. Ho portato tutte le carte, riempito tutti i moduli, eppure hanno iniziato da subito a mettermi i bastoni fra le ruote. Per essere ricevuta ho dovuto dormire davanti la porta dell’ufficio per diverse notti, in diverse occasioni la fila arrivava sino a fuori l’edificio. Al momento del rinnovo ho dovuto anche pagare una multa di 150 sterline egiziane per ogni passaporto a causa di un ritardo che loro avevano procurato. Tutto questo per mandare i miei figli a scuola, una scuola dove imparano soltanto parolacce e modi di comportarsi volgari. Ho dormito per terra, ho pregato i dipendenti, mi sono presa in faccia i loro insulti, io come tanti altri siriani senza alcun rispetto per la loro età o sesso. Ho visto gente dormire per strada la notte in attesa del turno, infreddolita ed affamata”.
Madame Suad ha la fortuna di avere suo marito ancora con lei. Lavorando 12 ore al giorno riesce a portare a casa 500 sterline egiziane per pagare le 700 di affitto in un casa senza luce e senza acqua. Restano 200 pound per le medicine della anziana madre ottantacinquenne, per il cibo.
Me lo aveva detto Muhammad all’inizio facendosi scappare una mezza risata: “Mafish aga bi-balesh fi Misr”, non c’è niente gratis qui in Egitto”.
“Nonostante le difficoltà ho preferito venire qui in Egitto perché pensavo sarebbe stato meglio che rimanere in un campo profughi esposti al freddo ed ai pericoli. Ora però vorrei solo tornare indietro, a casa mia”.
Nessuno di loro lo ha esplicitato chiaramente, ma sembra piuttosto evidente che l’Egitto non sia mai stata la meta finale. Il passaggio sotto le piramidi è appunto un passaggio, una situazione transitoria, un necessario girone infernale in attesa di passare attraverso il limbo acquatico del Mediterraneo.
Ed è forse questo il punto che più di tutto mi sorprende e mi colpisce. Sto probabilmente parlando con i futuri profughi che si ammasseranno o verranno ammassati sulla banchina di Lampedusa. Sono loro, li ho qui davanti.
Sono gli stessi che si ritroveranno in balia del mare quando finirà il carburante, che attenderanno fiduciosi delle imbarcazioni che il più delle volte li ignoreranno, che una volta in Italia penseranno di aver raggiunto “un luogo dove i nostri diritti sono garantiti, in Europa è sempre così giusto? Non è come il mondo arabo, dove siamo vessati e maltrattati. Ma poi, anche non fosse così io e la mia famiglia non abbiamo altra scelta. Nessuno di noi ha altra scelta”.
*Foto Mitch Altman via Flickr in CC
January 22, 2014di: Marco Di Donato Egitto,Siria,Articoli Correlati:
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