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Tunisia e Shari’a, una riflessione per chi grida a un Califfato nel cuore del Mediterraneo

L’articolo del New York Times mostrava l’immagine-simbolo della rivolta tunisina, l’orologio della piazza 7 novembre 1987, di fatto presidiata da “oltranzisti di destra”, come vengono percepiti i salafiti. La fotografia non mentiva: chi scrive è rimasto tanto incuriosito da quella folla, da fermare il taxi sul quale era montato per ascoltare gli slogan e leggere gli striscioni.

 

 

 

di Pietro Longo – CISIP

 

Durante l’ultima settimana di marzo, il portavoce del partito tunisino Ennahda, diretto dallo Shaykh Rashid al-Ghannushi e favorito alle scorse elezioni dell’Assemblea Costituente, ha annunciato che la nuova Costituzione non menzionerà al suo interno la Shari‘a o, per meglio dire, non conterrà alcun riferimento delle fonti del diritto islamico.

Il New York Times riportava quella notizia, il 26 marzo, con toni piuttosto enfatici: Ennahda ha rinunciato alla Shari‘a, rompendo del tutto con gli ultraconservatori salafiti, la fazione degli islamisti che vuole uno “Stato islamico”.

L’articolo mostrava l’immagine-simbolo della rivolta tunisina, l’orologio della piazza 7 novembre 1987, data di ascesa al potere di Ben Ali ribattezzata 14 gennaio 2011, di fatto presidiata da “oltranzisti di destra”, come vengono percepiti i salafiti.

La fotografia non mentiva: chi scrive è rimasto tanto incuriosito da quella folla, da fermare il taxi sul quale era montato per recarsi all’aeroporto di Tunis-Carthage, per ascoltare gli slogan e leggere gli striscioni.

Sventolando bandiere recanti la shahada, i manifestanti urlavano “noi, il popolo, vogliamo la Shari‘a islamica”.

Tuttavia il pretenzioso “We, the peole” non era suffragato dal numero dei presenti: impressionante sì, ma non poi così tanto se rapportato ai quasi 800 mila abitanti della capitale.

La Tunisia però non coincide con Tunisi, questo è sacrosanto. Ed è plausibile che nella parte più interna e meridionale si nasconda lo zoccolo duro dell’islamismo, come quegli Ansar al-Shari‘a, dei quali si parla talvolta in termini di un nascente “Stato nello Stato”, perché inclini al supporto delle fasce sociali più abbienti dei villaggi dell’entroterra.

Esistono tuttavia diversi elementi da valutare: il 20 marzo, data della festa d’indipendenza, la città assisteva contemporaneamente a due fenomeni.

Da un lato al palazzetto dello sport nel quartiere el-Menzah si teneva la conferenza pubblica dal titolo “Shari‘a e Costituzione” con evidente riferimento al processo costituente in atto.

Dall’altro la via principale intitolata ad Habib Burghiba veniva invasa da una folla di manifestanti identificati unicamente dal rosso della bandiera nazionale.

Quanto alla conferenza, o meglio alla da‘wa secondo il linguaggio islamico, è stata organizzata dalla Lega delle università islamiche della Tunisia, con la Zaytuna a fare gli onori di casa.

Le relazioni spaziavano dal significato reale della Shari‘a, al suo rapporto con lo sviluppo economico e con i diritti umani. Inoltre, mentre il sottotitolo del medesimo incontro indicava la Shari‘a come la fonte principale (al-masdar al-asasi) ed unica dell’attività normativa ordinaria, gli striscioni legati agli spalti la invocavano come lo “spirito della civiltà islamica”.

Altro segnale interessante, a parte il gran numero di attivisti di giovane età, uomini e donne, era la completa assenza di bandiere e simboli legati al partito Ennahda.

La corda tesa tra le due ali islamiche dunque era già sedimentata da tempo, ed è curioso che un’istituzione prestigiosa come l’Università Zaytuna, cui è legata anche la Moschea di Qayrawan, raccolga consensi presso i salafiti piuttosto che presso i cosiddetti islamisti moderati.  

Date queste forze in gioco, a quel che sembra la nuova legge fondamentale dello Stato non conterrà menzione della Shari‘a.

Sa‘id Ferjani, membro dell’ufficio politico di al-Nahda, ha affermato che la decisione è stata presa nell’interesse del paese ma soprattutto per evitare la dispersione delle forze politiche. Dunque per favorire la coesione.

Inoltre Ziad Dulatli, altro leader del partito, non solo ha rimarcato che la scelta è stata dettata dalla necessità di unità nazionale, ma ha aggiunto che ciò dovrà fungere da modello per gli altri paesi arabi nelle medesime condizioni.

Insieme a questa decisione, è stata avanzata anche la proposta di mantenere inalterato l’articolo 1 della vecchia Costituzione del 1959, che recita: «La Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano. La sua religione è l’Islam, la sua lingua l’arabo e la Repubblica la sua forma di governo».

A questo punto si deve lasciar spazio ad una riflessione.

Il testo formula una norma generalmente nota nel linguaggio giuspubblicistico islamico  come confessional clause o clausola confessionale.

Si tratta della previsione che fissa l’Islam come religione dello Stato, in modo da rendere quest’ultimo confessionale e non laico.

Questa certamente è la dottrina sedimentata nella filosofia pubblicistica europea e nord-americana, dato che un costituzionalista musulmano con una backgroud di studi nel diritto islamico, come al-Ghannushi ad esempio, dirà che nell’Islam non v’è distinzione tra religione e mondo, e che quindi non sussiste contraddizione alcuna nel ritenere laico uno Stato governato dalla Shari‘a.

Ma cosa è esattamente uno Stato confessionale?

Uno Stato confessionale è un organismo politico che rivendica con successo l’identità religiosa maggioritaria, pur nel rispetto del pluralismo delle confessioni che si trovano in minoranza.

E ciò è possibile?

Da un punto di vista giuridico è lecito che entro un frame work dettato dalla confessione prevalente, ne convivano delle altre riconosciute ed abilitate a celebrare i propri culti.

In altri termini, l’idea di Stato confessionale non si trova necessariamente in contraddizione con quella di pluralismo religioso, come si evince dai commi 1 e 4 dell’art. 5 della Costituzione tunisina.

Qui il costituente aveva garantito il rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani e si impegnava a difendere la libertà di coscienza e di pratica dei culti, entro i limiti dettati dall’ordine pubblico.

Si deve notare inoltre che tali libertà erano poste in cima al testo fondamentale, insieme ai principi di rule of law ed a quello di habeas corpus. Questi ultimi sono identificati come i capisaldi del costituzionalismo liberale e di quello democratico, dottrine alle quali il costituente tunisino di certo si era ispirato. 

Lo Shaykh al-Ghannushi ha affermato che l’art. 1 è accettato da tutte le controparti sociali e che preserva il carattere arabo ed islamico dello Stato.

Votato con 52 pareri positivi e 12 negativi, quel testo esprime l’idea, consona ai canoni islamici, della religione come atto di libera scelta (ikhtiyar) e giammai come un’imposizione.

Il giurista, membro della Costituente, Fadil Musa non ha dubbi nel dichiarare che l’ordinamento tunisino non necessita di richiamare la Shari‘a in Costituzione e che questa mossa creerebbe soltanto confusione tra l’assetto generale delle fonti del diritto.

Nessuna legge del paese del resto, continua Musa, è in contrasto con le previsioni del diritto islamico. Un punto su cui torneremo a breve.

Anche il presidente della Costituente, Mustafa ben Ja‘far e il presidente ad interim Mansaf al-Marzuqi, hanno sempre espresso un parere negativo circa la costituzionalizzazione della Shari‘a ed il primo ministro Hamadi Jabali ha sottolineato che questo atto potrebbe comportare uno sbilanciamento eccessivo verso un preciso gruppo politico, favorendo l’edificio di un nuovo monopolio.

Se le istituzioni hanno espresso tali posizioni, accogliendo di buon grado le istanze di Ennahda, sia dentro il partito che al suo esterno non sono mancate le voci d’opposizione.

Habib al-Lawz, uno dei leader di Ennahda, si è detto contrario alla decisione e pronto a combattere per ottenere una modifica alla risoluzione.

Parimenti il Fronte tunisino delle associazioni islamiche ha perpetrato lo slogan di “S&` alla Shari‘a”, onnipresente sotto forma di gadget di vario tipo anche alla conferenza del 26 marzo di cui si è detto.

Ma la domanda centrale di questo dibattito è la seguente: la Tunisia rischia davvero di trasformarsi in uno Stato islamico o per meglio dire in un Califfato?

E se questa possibilità è concreta, ciò avverrà per effetto di un articolo della Costituzione, la cui introduzione appare ad oggi scongiurata?

Per rispondere correttamente a questa domanda dovremmo avere ben chiaro in mente cosa si intenda per Stato islamico o per Califfato.

L’illustre giurista tunisino Abdel Fattah Amor, recentemente scomparso, illustrava la nozione di Stato islamico distinguendo tre possibili criteri: un criterio quantitativo e numerico, in virtù del quale ogni paese al mondo la cui popolazione è in maggioranza musulmana può definirsi islamico.

Da questa prospettiva certamente lo è la Turchia che dopo la rivoluzione kemalista ha optato per espungere la Shari‘a dalla Costituzione e relegare l’Islam nelle moschee. Almeno ufficialmente queste erano le intenzioni del “Padre dei Turchi”.

Ma questo criterio è meramente descrittivo e poco chiarificatorio rispetto al problema in oggetto, salvo suggerire che uno Stato che escluda la legge rivelata dalla Costituzione diventa ipso jure laico.

La seconda categoria è quella di Stati sottomessi alla Shari‘a. Il moderno Pakistan, l’Iran post-khomeinista, l’Arabia Saudita e la Mauritania sono i principali esempi in questo contesto.

Qui, in modi differenti, l’ordinamento pubblico non soltanto importa la legge islamica per effetto delle previsioni costituzionali ma la Shari‘a diviene palesemente l’ideologia ufficiale.

Prima di arrivare al terzo modello, che definisco post-ideologico distanziandomi non poco dal giurista tunisino, è necessario operare un’altra precisazione.

Cosa implica in concreto la costituzionalizzazione della Shari‘a? E come avviene?

In merito al secondo punto, essa avviene attraverso l’introduzione nel testo costituzionale, di solito in cima, del secondo caposaldo del costituzionalismo islamico, la cosiddetta repugnancy clause. Si tratta di un articolo che prevede la Shari‘a come “una” o “la” fonte dell’attività di legiferazione.

A livello operativo, e sulla base della giurisprudenza della Suprema corte costituzionale egiziana, che comunque non supera certo i confini del paese, questa norma si rivolge al giudice e al legislatore.

Il primo è obbligato ad emettere sentenze, sia sul piano penale che su quello civile o amministrativo, conformi alle fonti della Shari‘a, segnatamente al Corano ed alla sunna del Profeta Muhammad. Il legislatore invece è tenuto a rispettare le norme desunte dalle medesime fonti nell’atto di elaborare nuovi atti normativi.

Ciò detto, il terzo modello di Stato islamico è post-ideologico, nel senso che non pone la Shari‘a a fondamento dell’ordinamento.

Lo “Stato di diritto” e la sovranità popolare sono elementi collegati ad un’ideologia ben precisa (quella democratico-costituzionalista) e non è consacrata la sovranità di Dio o della sua legge. In questo novero confluiscono tutti i paesi arabi e islamici che contengono una simile previsione nella Costituzione.

A ben vedere la Tunisia post-indipendente non rientrava in nessuna delle categorie menzionate (salvo la prima) dato che non includeva la Shari‘a tra le proprie fonti del diritto, né tanto meno la situazione sembra destinata a cambiare, sulla base del dibattito appena esaminato.

Dunque questo paese è uno Stato islamico soltanto perché la sua popolazione è per la quasi totalità musulmana? E quali novità è lecito pensare avrebbe importato l’inserimento della repugnancy clause nella nuova Costituzione?

La vecchia Costituzione prevedeva all’art. 38 le condizioni di eleggibilità del capo dello Stato, cioè del presidente della Repubblica. Era stabilito, tra le altre cose, che fosse di religione musulmana.

La tentazione di affermare che in un paese quasi interamente musulmano questa clausola è più un tratto naive che altro, è forte ma a-scientifica. I giuristi non lo hanno mai detto perché la scienza giuridica, come la fisica e la geopolitica, non ammette i vuoti.

Allora siamo di fronte alla necessità di un nuovo qualificatore, quello relativo ai paesi, come anche l’Algeria o la Siria, che hanno costituzionalizzato alcune istanze prelevate non tanto dalle fonti del diritto islamico quanto dalla giurisprudenza degli ‘ulama’. Il Califfo dopotutto è sempre stato musulmano de jure.

La islamicità dell’ordinamento giuridico tunisino è presente in altre leggi diverse dalla Costituzione.

Segnatamente nel codice civile, in materia di divorzio e di eredità. Per rendere un’idea di cosa ciò significhi sottolineerò che numerose sentenze di tribunali tunisini di vario grado hanno negato l’incapacità di successione per motivi religiosi, come nella decisione del 14 giugno 2002 della Corte d’appello di Tunisi.

In questo caso il giudice ha fatto leva sul rifiuto di ogni forma di discriminazione religiosa come principio basilare dell’ordinamento tunisino, fondato al contrario sulla libertà religiosa ex art. 5, e sugli artt. 2, 16 e 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del paragrafo 2, art. 2, del Patto relativo ai diritti economici, sociali e culturali del 1966.

La discriminazione su base religiosa in materia di successione crea, ha detto la Corte, una pressione che lede le libertà di scelta della religione e provoca la creazione di due classi di cittadini, fatto contrario all’uguaglianza dinnanzi alla legge sancita all’art. 6 della Costituzione.

Ma allora cosa c’è di sbagliato nella Shari‘a? La sua costituzionalizzazione trasforma l’ordinamento in un Califfato? Insomma, verranno tagliate le mani dei ladri? Lapidati gli adulteri? Imposto il velo alle donne? E cosa accadrà a chi vende alcolici?

Qui ci troviamo nel campo degli effetti che l’importazione della Shari‘a nella Costituzione tunisina avrebbe potuto provocare e non possiamo che muoverci negli spazi tutt’altro che angusti del fanta-diritto dato che ciò non avverrà, rebus sic stantibus, e che la Tunisia non ha mai avuto una clausola siffatta, quindi non esiste giurisprudenza di alcun tribunale che possa servire da indizio.

Possiamo però rifarci ancora una volta all’esempio della Suprema corte costituzionale egiziana, che ha fornito chiare spiegazioni su come doveva essere interpretato l’art. 2 della Costituzione egiziana che prevedeva la Shari‘a come “la” fonte principale della legiferazione.

Con la decisione del 4 maggio 1985, la Corte ha sancito il carattere irretroattivo dell’art. 2. Irretroattivo rispetto a cosa?

Questo articolo venne emendato da un referendum costituzionale indetto nel 1980 dato che nell’elaborazione originaria, del 1971, la Shari‘a era prevista come “una” delle fonti principali dell’ordinamento.

Dal momento che tale prescrizione si indirizza tanto al legislatore quanto al giudice, la Corte ha stabilito che tutte le leggi adottate precedentemente al referendum del 1980 sono sottratte all’obbligo di accordo con i principi della Shari‘a e che dunque quell’articolo disciplina soltanto ex nunc.

La legge sullo statuto personale, il codice penale ed altre normative rilevanti dal punto di vista islamico sono tutte precedenti a quella data. Dunque sono rimaste intatte, al pari delle mani dei furfanti.

Qualche giudice ci ha pure provato a comminare punizioni come la flagellazione per tipologie di reati menzionati dalla giurisprudenza penale islamica. Ma la Corte ha annullato il verdetto tacciandolo di incostituzionalità e, si può aggiungere, di anti-islamicità.

In ultimo, al padre che si era rivolto al giudice impugnando una circolare amministrativa del ministero dell’Istruzione che vietava alle ragazze di entrare a scuola completamente velate (niqab), la Corte ha risposto, con la decisione del 18 maggio 1996, secondo cui la Shari‘a (Corano e sunna) non contiene precise e indisputabili nozioni sul modo in cui la donna deve vestire.

Quest’ambito resta quindi sottomesso alla discrezione del legislatore umano (nel caso in esame al ministero dell’Istruzione) e la velatura totale non può venire imposta, non essendo shar‘i, cioè legittima sulla base della Shari‘a.

Con questa decisione, il tribunale faceva trionfare il principio di rule of law e, fatto ancora più significativo, lo faceva attraverso un ragionamento intra-islamico.

A cosa servono questi esempi? Essi ci mostrano come il dibattito sulla costituzionalizzazione della legge rivelata è molto più complicato di quanto lascia intendere chi grida all’imminente pericolo di un Califfato islamico nel cuore del Mediterraneo.

Una definizione di Shari‘a nella quale mi sono imbattuto una volta è la seguente (taccio volontariamente sulla fonte): essa è come un mare pieno di perle che si trovano nel profondo. Ciò implica, per ristabilire entusiastici equilibri, che le previsioni normative desunte dal Corano e dalla sunna, specie se queste fonti vengono costituzionalizzate, aprono a molteplici interpretazioni ma soprattutto agli usi più disparati.

In altri termini, non sembra essere la Shari‘a in sé il problema, quanto l’interpretazione e l’uso talvolta strumentale che se ne può fare.

Del resto nonostante l’origine divina, neppure il sistema del diritto islamico è self-executing.

La fine del regime di Ben Ali ha scoperchiato le forze islamiche tunisine, sia quelle cosiddette moderate che quelle oltranziste.

Ma la Tunisia è un paese, a mio avviso, ricchissimo: epicentro della prima Costituzione mai adottata in terra islamica (quella del 1861), patria dei primi costituzionalisti e dei primi teorici dei diritti delle donne.

È stato anche pioniere nell’abolizione formale della poliginia, fin dai tempi del fondatore della patria Habib Bourghiba. Questo eccezionalismo rientra forse in ciò che talvolta viene definito bourghibismo, che a sua volta somiglia non poco alla nozione kelseniana di Grundnorm, la super-norma presupposta alla base della validità delle norme costituzionali.

In altri termini si fa qui allusione alla Costituzione materiale, propria di ciascun paese, e capace di innescare l’azione costituente. L’inserimento della repugnancy clause nel sistema tunisino potrebbe essere percepita come una “innovazione riprovevole”, per fare il verso ai giuristi musulmani, lesiva di alcuni dei valori più intimi della società. Per tale ragione questo argomento ha innescato una lunga polemica.

Quanto ad altri aspetti della (re)islamizzazione della società, se essa è davvero in atto, di certo è mossa da una reazione spontanea, destinata a restare sul piano dell’informalità fino a quando una regolare vita costituzionale non verrà ripristinata e gli organi politici non saranno eletti.

Certo la Costituzione pone le regole del gioco ma, come sopra si è sostenuto a proposito del diritto islamico, anche il diritto positivo è condizionato inesorabilmente all’interpretazione operata dai giocatori.
 

 

April 9, 2012

`de jure.

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Redazione

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