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Tunisia: gli operai alzano la testa e i ‘furbetti’ se ne vanno

La fragile economia tunisina è vittima di una grave emorragia, frutto della massiccia delocalizzazione messa in atto dai suoi industriali. Un vero e proprio “sabotaggio” contrastato però da lotte sindacali che cercano di erodere i privilegi acquisiti dalla classe imprenditoriale nell’era Ben Alì.

 

Secondo le dichiarazioni di un alto funzionario della Banca centrale citato da Maghreb Intelligence, rimasto anonimo, sarebbero 1200 i titolari d’impresa in procinto di concludere accordi con le autorità marocchine per trasferire la propria produzione nel regno alawita. Tangeri e Casablanca sembrano essere le mete preferite dagli “scaltri” uomini d’affari che, dopo aver acquistato diversi terreni, hanno effettuato trasferimenti di liquidità per un ammontare di 500 milioni di euro (circa un miliardo di dinari). 

Dati questi da mettere a confronto con l’esigua somma di un milione di dinari messa a disposizione dalla Troika per riparare o più semplicemente asfaltare le strade dell’enorme sobborgo popolare di Hay Ettadhemen, che assieme ad Hay Intilaka, Hay El jouhouria, Hay Douer Hicher ospita la stragrande maggioranza della popolazione della capitale (circa un milione di abitanti, la metà della popolazione di Tunisi).

 

Chi sono questi furbetti?

Si tratta di imprenditori che hanno accumulato ingenti ricchezze durante i regimi di Bourghiba e di Ben Alì. Un autorevole centro di ricerca americano – il Boston American Group – stima che, solo nell’ultimo decennio, 10 miliardi di dollari di questo cospicuo patrimonio siano già stati messi al sicuro nei paradisi fiscali.

Trasferendo illegalmente all’estero il 45% della propria fortuna, i “nuovi ricchi” tunisini hanno conquistato il primato per la fuga di capitali all’estero nell’intero Maghreb, superando i cugini marocchini che si sono fermati al 30%.

Emblematica su questo piano è la dichiarazione rilasciata dall’ex primo ministro Hamadi Jebali che, davanti ad una platea di giornalisti francesi, ha apostrofato in maniera denigratoria il patronato tunisino. Infatti, nonostante gli svariati tentativi di Ennhadha e dei suoi partner di governo di trovare dei compromessi con gli industriali più in vista – spesso a discapito dei diritti dei lavoratori – gli imprenditori si sono dimostrati insensibili alle lusinghe governative.

Dal loro punto di vista, con ragione.

Dalla caduta di Ben Alì, infatti, gli operai hanno preso coscienza della loro situazione e non sono più disposti a piegare la testa. La rivoluzione di cui sono stati protagonisti ha infuso loro coraggio per chiedere una più giusta ripartizione delle ricchezze, quelle ricchezze che loro stessi producono mettendo spesso a repentaglio la propria salute.

Tuttavia, ciò che maggiormente preoccupa gli imprenditori è l’incapacità dimostrata da Ennhadha – nonostante le rassicurazioni fornite negli ultimi mesi – di giungere ad una mediazione con i lavoratori, di garantire quella pace sociale associata al ricordo del dittatore che qualcuno tra l’elite economica tunisina comincia a rimpiangere.

Il partito islamico, secondo questa interpretazione, non avrebbe sfruttato a dovere la propaganda religiosa che ne ha accompagnato l’ascesa: le promesse di future ricompense nell’aldilà non hanno fatto breccia nel cuore degli operai, né sono riuscite a placare le richieste più concrete presentate dai dipendenti, dai precari, dai disoccupati, dai giovani e dalle donne.

 

La chimera delle ricompense celesti non paga

Dal giorno della dipartita di Ben Alì sì è registrato un notevole incremento di scioperi, rivendicazioni e conflitti sociali: alla fine del 2012 erano oltre 27 000 gli episodi recensiti. Inoltre, nel 2013, una nuova ondata di proteste ha interessato alcune grandi imprese come la Jal Group, specializzata nelle calzature di sicurezza a Menzel Bourghiba e Menzel Aberrahmen (4000 dipendenti) e la SEA Latelec, filiale del gruppo francese Latécoère, che lavora in subappalto per Airbus dopo aver delocalizzato una parte della produzione a Fouchana, periferia di Tunisi, per trarre profitto dalla manodopera qualificata a buon mercato.

In questa fabbrica, 450 operai in maggioranza donne esigono che l’impresa francese rispetti il codice del lavoro tunisino, assumendo con contratti a tempo indeterminato qugli impiegati che sono precari da più di quattro anni.

Richieste simili sono state avanzate anche dai dipendenti dell’impresa SAZEX basata a Dégache (nella regione di Tozeur) che dà lavoro a 180 operai specializzati nel confezionamento di datteri da esportazione.

Questi sono solo alcuni esempi delle lotte sociali intraprese negli ultimi mesi dai lavoratori tunisini. Le rivendicazioni espresse vanno dalla richiesta di maggiore dignità e  sicurezza nei luoghi di lavoro, alla protesta contro l’obbligo di straordinari non pagati e contro i turni massacranti imposti nei periodi di più elevata produzione. 

Nel frattempo, nuovi episodi fanno crescere il malcontento per le precarie condizioni di impiego mediamente registrate nelle fabbriche tunisine. Il 2 giugno scorso alcune operaie della regione di Sidi Hassine sono state ricoverate d’urgenza in stato di incoscienza negli ospedali Habib Thameur, Charles Nicolle, La Rabta e presso il centro di primo soccorso di Tunisi. La causa è da imputare alle sostanze tossiche che le donne hanno inalato durante il turno di lavoro.

Ancora un esempio di irresponsabilità da parte degli imprenditori che si fanno beffe della dignità e dell’incolumità dei lavoratori, spesso trattati come bestie da fatica.

Negli ultimi due anni gli operai sembrano aver capito che l’unico metodo efficace per migliorare la propria situazione è la lotta sindacale (grazie anche ad un contesto che la permette, ndr). Il rifiuto deciso dei contratti precari, comunemente in voga nell’era Ben Alì, ha infatti costretto diverse aziende a favorire assunzioni sul lungo periodo e a creare posti di lavoro fissi.

Numerosi sono stati gli scioperi indetti contro lo sfruttamento alimentato dalle società di interinali, specializzate nel lavoro “a giornata” o “a chiamata”. Il rispetto del codice del lavoro e degli accordi di categoria rappresenta il fulcro delle mobilitazioni volte a limitare il dominio decisionale degli imprenditori, che in passato hanno potuto dettare agevolmente (grazie ai controlli quasi inesistenti) le regole del gioco.

L’esperienza accumulata e le vittorie ottenute negli ultimi tempi saranno difficilmente cancellabili dalla memoria dei lavoratori tunisini. Esse costituiscono il motivo principale per cui gli imprenditori stanno sabotando l’economia attraverso lo “sciopero” degli investimenti e la decisione di trasferirsi in paesi limitrofi, dove operai e impiegati del settore privato non sembrano aver preso ancora coscienza della loro forza.

(…)

 

*Traduzione a cura di Giulia Fagotto, per la versione originale clicca qui.

Foto di By US CIA (The World Factbook) [<font><font>Dominio pubblico </font></font>], via Wikimedia Commons

 

June 25, 2013di: di Hamadi Aouina per Nawaat*Marocco,Tunisia,

Redazione

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