Un giovane di 22 viene condannato per omosessualità: succede nella Tunisia post-rivoluzionaria, in cui la nuova Costituzione “modernista” non tutela i cittadini, ma delega alla polizia poteri incontrollabili. Per la comunità LGBT la battaglia è ancora lunga.
Succede oggi in Tunisia. E’ martedì 22 settembre quando un giovane tunisino di 22 anni viene condannato in prima istanza ad un anno di carcere per omosessualità, provata attraverso un’analisi anale.
Una decisione che ricorda che l’omosessualità resta un crimine nella Tunisia post-rivoluzionaria, e che scatena un forte dibattito mirato a sottolineare le contraddizioni legislative e le violazioni permesse da una normativa che viola il rispetto della vita privata.
Pratiche ancora possibili a causa di leggi retrograde e desuete – in piena contraddizione con la nuova Costituzione “modernista” – e che delegano alla polizia un potere giudiziario ed esecutivo incontrollabile. Uno Stato moralizzatore che si impone per punire chi trasgredisce il valore della morale pubblica reazionaria, si dimostra complice di gravi attacchi all’integrità morale e fisica dei cittadini, superando le prerogative legali e la protezione garantita dalla Costituzione.
Mentre il paese cerca con i denti di trattenere saldo il processo rivoluzionario, la grande battaglia si gioca anche sui diritti personali.
La vicenda di cui è stato vittima il giovane tunisino è emblematica e racconta lo stato del dibattito nel paese sulle libertà sessuali e le pratiche poliziesche ancora in vigore.
Secondo Badr Baabou, presidente di Damj (l’Associazione Tunisina per la Giustizia e l’Uguaglianza), che storicamente difende le minoranze sessuali in Tunisia ed è stata la prima ad aver ottenuto il riconoscimento nel 2011, il giovane sarebbe stato convocato dal commissariato di polizia di Hammam Sousse (Governatorato del Nord Est di Soussa) il 6 settembre per testimoniare in un affare legato ad un omicidio.
Arrivato al commissariato di polizia, sarebbe stato messo in arresto con l’accusa di omosessualità e immediatamente condotto in ospedale per realizzare un test anale senza il suo consenso.
Sarebbe infatti stato obbligato e torturato per realizzarlo. Secondo le testimonianze dell’associazione Damj, il sospetto della sua omosessualità sarebbe stato fatto risalire ad alcuni messaggi intimi scambiati con un altro uomo. Nel corso di una detenzione di 6 giorni il giovane sarà poi interrogato sotto tortura a proposito della sua presunta omosessualità e inquisito sulle sue pratiche sessuali giudicate “non conformi”. L’11 settembre sarà poi il momento dell’interrogatorio del Procuratore della Repubblica, per finire al Tribunale di prima istanza di Soussa il 15. Il processo sarà poi rimandato al 22 settembre.
Il giudice avrebbe infatti atteso il risultato dell’ispezione anale a cui sarebbe stato obbligato a sottoporsi il giorno precedente il ragazzo, e realizzato dal servizio di medicina legale di Soussa. Il giovane non sarebbe stato quindi colto in fragrante “delitto”, ma condotto in commissariato con la scusa di una testimonianza.
Dinamica che non sorprende considerando le derive repressive e reazionarie del ministero degli Interni. Ma a permettere alle autorità di dimostrare una prova pratica della sodomia sarà poi il test anale, pratica che in molti denunciano per la violazione dell’integrità fisica della persona e per la brutalità con la quale viene ancora oggi condotta.
La vicenda mette a nudo le contraddizioni della legislazione tunisina sulla libertà sessuale e la criminalizzazione dell’omosessualità, tra un Codice penale desueto (risale al 1913) e la nuova Costi-tuzione, considerata esemplare ma rivelatasi ancora lacunosa e inapplicata nella difesa delle libertà e dei diritti individuali.
L’articolo 230 del Codice penale, che criminalizza l’omosessualità prevedendo pene fino a 3 anni di carcere, è stato da tempo rimesso in discussione per sua incostituzionalità.
Come emerge nell’analisi di Inkyfada, la versione araba e quella francese differiscono. Se la versione francese parla di “sodomia”, quella araba si riferisce invece a “omosessualità femminile e maschile”.
Facendo fede la versione araba nell’ordinamento tunisino, la legge criminalizza quindi sia l’omosessualità femminile che quella maschile.
Secondo la legge, si definisce omosessualità “qualsiasi atto concesso tra due adulti consenzienti e in privato”. In questo caso, quindi, l’articolo 230 non si applicherebbe. Il Codice penale criminalizza quindi gli atti praticati in privato, con una disposizione che però rischia di provocare gravi violazioni dell’integrità fisica e della dignità umana, lasciando campo libero alle autorità giudiziarie per provare l’esistenza di relazioni sessuali, compresa la perquisizione del domicilio o la realizzazione di analisi mediche fisiche alle persone sospette.
L’articolo menzionato deve essere analizzato insieme alle disposizioni della nuova Costituzione tunisina, approvata nel gennaio del 2014, che dichiara lo Stato garante della protezione della sfera privata di cittadine e cittadini, e di conseguenza della loro vita sessuale, l’aspetto più sacro.
La pratica del test anale tradisce quindi lo spirito costituzionale e rimette in luce le pratiche barbare esistenti. Sebbene si tratti di un esame usuale di pratica medico-chirurgica utile nel diagnosticare determinate patologie, la sua realizzazione dovrebbe avvenire solo in caso di vittime di aggressioni sessuali per provare la violenze e dopo aver ottenuto l’esplicito consenso della persona interessata.
La stessa Commissione Internazionale di lotta contro la Tortura delle Nazioni Unite ha considerato nel 2014 questo tipo di test medico come un atto di tortura perché viola l’integrità fisica delle persone con lo scopo di verificare la loro verginità o l’eventuale consumazione di rapporti anali, aldilà dei casi di violenza.
Inkyfada ricorda anche che secondo l’articolo 49 della Costituzione, la legge può fissare delle restrizioni relative ai diritti e alle libertà e al loro esercizio come garantiti dallo stesso testo. Queste restrizioni possono essere stabilite in caso di reato contro la morale pubblica, che si esplicita solo in uno spazio pubblico e che quindi non riguarda il caso criminalizzato dall’articolo 230 del Codice penale, che si riferisce invece ad un atto praticato in privato.
La contraddizione è quindi evidente dalla lettura dei due testi.
La reazione della società civile e degli internauti di fronte al caso non si è fatta attendere. Se la notizia della condanna era prevedibile come per tutti i casi legati all’omosessualità, da subito l’affare ha generato una mobilitazione importante, per il momento solo virtuale, per denunciare come in Tunisia sia ancora oggi possibile che la polizia giudiziaria richieda imperativamente un test anale per indagare sulla sessualità di cittadine e cittadini e per allertare l’opinione pubblica sulle pratiche di ordinaria repressione della diversità e delle libertà sessuali.
A lanciare la denuncia sono varie associazioni per i diritti umani e altre rappresentative della comunità LGBT in Tunisia, molte delle quali represse fino ad oggi e che hanno finalmente deciso di esporsi.
Tra le prime a reagire con un comunicato stampa sono state l’associazione DAMJ, l’Association de soutien des minorités, l’Association Shams e l’Association Without Restriction.
Le stesse avevano già preso posizione e promosso una raccolta di firme nel maggio 2015 per l’abolizione dell’articolo 230 del Codice penale e contro la violenza sociale e politica verso la co-munità LGBT. La petizione ha ad oggi raccolto circa 2500 firme ed è ancora disponibile (qui). Ma la sfida rimane aperta e l’assenza, ad oggi, di una Corte Costituzionale in Tunisia fa presagire tempi molto lunghi per un’eventuale revisione del testo.
Nei giorni successivi all’arresto del giovane, l’associazione DAMJ ha lanciato una campagna sui social media stimolando la mobilitazione contro quello che viene già definito “il processo della ver-gogna”.
Le parole d’ordine sono No al test della vergogna! e No all’articolo 230! e si riassumono nell’hashtag #TestanalHontenationale (“Test anale onta nazionale”).
L’associazione Shams per la depenalizzazione dell’omosessualità in Tunisia, ha rilanciato promuovendo un evento su Facebook dal titolo “No agli esami della vergogna!”, spingendo alla massima mobilitazione per fare pressione prima che si celebri la sessione di appello.
Anche il Comitato per le Libertà e il Rispetto dei Diritti Umani in Tunisia (CRLDHT) richiede la liberazione immediata del giovane e l’apertura di un’inchiesta sulle circostanze dei trattamenti umilianti ai quali è stato sottoposto, come la cessazione degli esami medici e il rispetto della dignità e della vita privata di ogni individuo.
Oltre a denunciare la pratica del test e la violazione dei diritti umani ad esso connessa, le associazioni ricordano che tale analisi viola la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti ratificata dalla Tunisia nel 1988.
Allo stesso modo, le associazioni rivendicano una presa di posizione da parte dell’Ordine dei Medici contro tale pratica, contraria al Codice deontologico professionale, che definisce la dignità del paziente un principio inviolabile. Alcuni medici legali hanno risposto, esponendosi sui propri profili Facebook.
In primis, gli appelli esortano i medici a rifiutarsi di compiere l’esame e i membri del Consiglio dell’Ordine dei Medici ad aprire un’inchiesta sulla pratica effettuata contro il consenso della vittima, giudicando i responsabili. Si ricorda inoltre come l’aver effettuato l’esame sia contro la legge, non trattandosi di un caso di violenza (tra l’altro l’ordinamento tunisino prevede che le vittime di violenza siano solo di sesso femminile, un’altra aberrazione della legislazione) e non soffrendo la vittima di patologia legata alla zona analizzata. Per il momento, l’Ordine non ha replicato.
l coinvolgimento dei medici nella campagna per la difesa dei diritti delle minoranze appare oggi fondamentale, come già la storia del Libano ci ricorda. Le associazioni LGBT avevano infatti a lungo militato per convincere i medici ad astenersi dalla pratica del test e questo processo aveva dato ragione delle rivendicazioni.
Questo evento continua ad acquisire visibilità e a suscitare indignazione, dimostrando un lieve cambiamento nella percezione dei tunisini sulle questione dei diritti LGBT e dimostrando nuovamente che la società civile è vigile per la protezione dei diritti umani e desiderosa di godere delle libertà conquistate.
In molti la definiscono però un’indignazione parziale e ricordano che parlare di libertà sessuali e di omosessualità in Tunisia resta ancora un tabu.
Secondo Baabou è urgente fare pressione sulle altre realtà nazionali – come la Lega Tunisina dei Diritti Umani (LTDH) e sui parlamentari dell’ARP (Assemblea dei Rappresentanti del Popolo) – per sensibilizzarli. Quando si tratta della causa LGBT, infatti, anche i più progressisti “tremano all’esporsi pubblicamente in una società alla base ancora molto conservatrice”. Come succede con altre cause sensibili ma estremamente attuali, si giudica il momento inappropriato per lanciare una mobilitazione, ribadendo che le priorità nel paese sono sempre altrove.
Nessuna mobilitazione reale nello spazio pubblico è invece prevista, in una fase in cui anche il diritto di associazione traballa a causa della Legge antiterrorismo.
Nessuna reazione pubblica, nemmeno dalle fila dell’opposizione ormai ai ranghi ridotti, ad eccezione di un comunicato emesso dal partito Al Massar. La Presidente della Commissione Diritti e Libertà all’ARP, Bochra Belhaj Hamida, sollecitata dalle associazioni, ha dichiarato di non poter intervenire in quanto la questione non sarebbe tra le prerogative dell’organismo che rappresenta.
La campagna virtuale resta l’unico mezzo utile per sollecitare l’opinione pubblica. Le associazioni LGBT soffrono ancora di un’evidente esclusione dai dibattiti televisivi, radiofonici e della stampa mainstream e continuano ad essere stigmatizzate da buona parte della società.
Ne è testimonianza la valanga di insulti di cui sono vittime molti attivisti e militanti che osano esporsi pubblicamente. Storie che ci raccontano che la battaglia per il riconoscimento dei diritti è ancora lunga, e che non ci si deve limitare ad esigere la depenalizzazione dell’omosessualità, ma mirare a creare le condizioni per affermare la libertà di disporre del proprio corpo, il rispetto dell’integrità fisica e morale, parte integrante dei diritti rivendicati dai giovani durante la Rivoluzione e sui quali ormai non si può più cedere.
Una battaglia anche culturale contro le discriminazioni legate all’identità e all’orientamento sessuale, contro il sessismo, la lesbofobia e l’omofobia dilagante e in aumento dal 2011.
Se poca speranza resta nei confronti del governo reazionario di Nidaa Tounes, possiamo ancora confidare nell’attivismo della società civile, vigile e attenta. La Tunisia resta uno dei pochi paesi del mondo arabo in cui le associazioni che difendono i diritti della comunità LGBT esistono e sono riconosciute.
Se per anni, dal 2000, la comunità LGBT in Tunisia ha lavorato nell’ombra e militato segretamente, con azioni poco visibili e sempre attenta a mettere in sicurezza i propri militanti, sembra essere arrivato il momento dell’azione.
Questa presenza e attenzione fa ben sperare e la mobilitazione sembra finalmente rioccupare gli spazi, come era accaduto nella primavera del 2015 in occasione della Giornata Mondiale contro l’Omofobia. In un contesto in cui la tendenza è all’autocensura e l’omosessualità maschile – e ancora di più quella femminile – restano tabu, manifestare pubblicamente è un atto di coraggio.
*Nella foto di copertina il logo della campagna lanciata dall’associazione “Shams”. Nella scritta “Gli esami della vergogna” Fino a quando?”.
September 27, 2015di: Debora del Pistoia da Tunisi Tunisia,Articoli Correlati:
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