Per quanto la storia non si ripeta mai nello stesso modo, la situazione attuale in Tunisia si compone di elementi ricorrenti. Mancanza di prospettive di miglioramento delle condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione, repressione del dissenso e ritorno a forme di autoritarismo stridono con l’immagine della “primavera” riuscita .
Sabato pomeriggio, centro di Tunisi, Rue de Paris. Una delle vie più trafficate della capitale, costantemente affollata da persone che vi si recano per fare acquisti o per dirigersi verso il Passage, snodo della mobilità urbana da cui partono tram, bus e taxi e su cui confluiscono alcune tra le più importanti strade del centro. Tra souq improvvisati, rifiuti abbandonati e camionette della polizia che occupano prepotenti lo spazio del centro cittadino.
Fermi nel traffico, osserviamo una scena inusuale. Due ragazzi corrono facendosi largo tra la folla e sorreggendo un pannello di compensato forato in cui sono inserite decine di riproduzioni di occhiali da sole delle marche più conosciute. Altri giovani scappano invece portandosi dietro un fagotto, probabilmente ricolmo di auricolari e di altri accessori per smartphone.
Uno di questi viene raggiunto da due agenti della polizia municipale, arrestato e caricato in auto. Il tassista alla guida sbuffa, scuote la testa e si rivolge in francese “Se davvero (i poliziotti) volessero fare qualcosa di buono, dovrebbero arrestare i politici che hanno dato questi ordini”. Poi aggiunge “I veri abusivi sono loro”.
Sembra infatti essere iniziata quella che è stata definita la “lotta della municipalità contro le bancarelle e il commercio abusivo”.
Il ministero degli Interni ha dispiegato poliziotti e agenti municipali per controllare e sanzionare chi non ha la licenza commerciale, col fine dichiarato di impedire la proliferazione dell’economia informale e del lavoro in nero, e di lottare conto l’evasione. Secondo un comunicato pubblicato il 24 ottobre scorso dallo stesso ministero, il bilancio sarebbe di 175 operazioni di confisca di merce, in cui sarebbero state arrestate 8 persone ricercate (per ragioni non meglio identificate) e 53 “mendicanti”, come letteralmente vengono definiti nel comunicato.
L’iniziativa della municipalità segue le manifestazioni dei commercianti del centro che qualche mese fa avevano scioperato per protestare contro gli ambulanti e contro i commercianti abusivi che danneggerebbero il commercio formale, perché nella “posizione privilegiata di non dover pagare alcuna imposta”. Una parte della merce sequestrata viene distrutta in piena Avenue Bourguiba, in un gesto di grande simbolicità e visibilità. Alcuni quotidiani e siti di informazione mostrano con orgoglio le foto di diverse vie del centro “finalmente libere” dalle bancarelle improvvisate.
Le stime indicano che più del 50% del PIL tunisino si regge sul commercio informale.
Al raggiungimento di questo tasso non concorrono soltanto i venditori abusivi di merce di per sé legale e il contrabbando di beni altrimenti soggetti a imposte doganali, come la benzina e il tabacco, ma anche le piccole attività economiche a conduzione familiare. E’ inoltre raro ricevere uno scontrino anche nei negozi o nei locali cosiddetti “formali”.
In una fase in cui la corruzione è diffusa e spesso tollerata quasi in ogni settore della società, i tassi di povertà e di disoccupazione sono in costante aumento e l’evasione fiscale è endemica, viene da chiedersi a quali priorità risponda l’accanimento contro i venditori abusivi, e se coincida con le reali esigenze del paese.
I più critici sostengono che sia l’ennesima operazione di facciata, “utile solo a indurre la popolazione a pensare che le autorità stiano lavorando”. E non solo perché già dall’indomani gli ambulanti che sono riusciti ad evitare il sequestro della merce saranno tornati ai proprio posti, ma anche perché questa strategia non porterà alcun cambiamento strutturale ad un’economia che si basa sull’esclusione e sul lavoro “indecente” per la gran parte della popolazione.
Una strategia di contrasto della corruzione che oltretutto va a toccare solo l’ultimo anello di una catena che vede il proprio centro nei grandi contrabbandieri e negli uffici ministeriali. Soggetti, questi ultimi, che come da copione resteranno impuniti.
I soli impatti tangibili della campagna consisteranno in un aggravarsi dell’impoverimento di chi già appartiene alle fasce più deboli, e in un’ulteriore disaffezione nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni, che esercitano la propria autorità senza garantire né servizi di base né opportunità lavorative in altri settori.
La lotta alla corruzione e al contrabbando, già annunciata da anni, è infatti affare ben più serio e complesso di una mera guerra all’illegalità. Non si tratta solo di una pura questione economica, ma ha implicazioni anche sociali e politiche importanti.
La stessa campagna governativa, tra l’altro, definita contro “El Irheb w el Tahrib” (“la corruzione e il terrorismo”) già denota l’approccio delle istituzioni alla questione.
Il contrabbando è per una parte della popolazione transfrontaliera l’unica risposta alla miseria economica basata sull’arte dell’”arrangiarsi”, e questo vale sia per chi gestisce le vendite che per gli acquirenti. Il commercio transfrontaliero, da sempre presente, contribuisce all’economia di sussistenza delle regioni limitrofe ad Algeria e Libia ed è divenuto illecito dopo l’indipendenza con la creazione della frontiera. Mentre il contrabbando che produce grossi introiti è quello che arriva via mare e via cielo.
Come segnala un articolo di Inkyfada, il sistema dietro il commercio transfrontaliero cela dinamiche di potere ben strutturate anche all’interno delle forze dell’ordine: a seconda del grado dell’ufficiale, esiste una griglia specifica di “bakshish” (“mazzetta”) che quest’ultimo può permettersi di chiedere. In questo contesto di illegalità istituzionalizzata, anche molti poliziotti diventano prodotti della corruzione e lasciano liberi i contrabbandieri di lavorare.
Il sistema del grande contrabbando era stato messo in piedi da Ben Ali e gestito in maniera gerarchica dalla famiglia, utilizzandolo in parte anche per sopperire alle insufficienze del mercato locale (in primis per ferro e benzina).
Oggi invece si assiste ad una “benalizzazione” generalizzata con un coinvolgimento a più livelli, e ad uno Stato che, anche volendo, sarebbe incapace di far fronte alle conseguenze dello sradicamento di tale sistema economico parallelo.
D’altro canto le misure repressive non sono accompagnate da alcun piano di sviluppo o da proposte di impiego alternative. Nonostante sia presentata come una lotta per la legalità, di fatto questa operazione si configura come un incentivo alla delinquenza, all’emigrazione irregolare (e ai rischi che essa comporta), all’arruolamento nelle file di gruppi radicali.
I giovani che sono partiti in questi anni per la Libia, la Siria o l’Iraq raramente sono dei convinti sostenitori del Califfato; piuttosto, sono allettati da un compenso mensile che supera di almeno 10 volte il salario minimo garantito in Tunisia, che ammonta a circa 150 euro. E, se privati anche della possibilità di guadagnarsi da vivere con una delle professioni più umili, molti si troveranno costretti a cercare nuove strade.
La denigrazione del loro ruolo nella società, insieme all’immagine negativa dello Stato e dell’istituzione securitaria, spiegano l’atteggiamento di perenne opposizione con quello che diventa un nemico da abbattere.
Si tratta in buona parte di persone che hanno già vissuto la frustrazione della disoccupazione come stato esistenziale, passando anni alla ricerca di un lavoro, riducendo sempre di più le aspettative. Anche nelle periferie di Tunisi e nella regione della Grand Tunis esistono delle sacche di povertà estrema e una carenza quasi totale di servizi.
Già pochi metri al di fuori dai principali centri urbani delle città costiere, tutta la Tunisia è periferia.
E’ proprio nella periferia di Tunisi che, ancora in nome della legalità, il October 22, sono stati abbattuti 30 edifici abusivi, costruiti su terreni demaniali da famiglie non abbienti che con un minimo “bakshish” avevano corrotto il funzionario pubblico per poter costruire le abitazioni senza impedimenti. E che oggi si trovano costrette ad andarsene, senza indennizzo né assicurazione, dopo strazianti proteste che ricordano scenari di espropriazione all’israeliana.
E’ quasi superfluo oramai ricordare in quali regioni e per quali motivazioni sia nata la rivoluzione; è più rilevante sottolineare che molte altre proteste di diverse intensità si sono sviluppate negli ultimi 5 anni nelle medesime zone e per ragioni analoghe.
E’ solo di pochi giorni fa, il 20 ottobre, l’ultimo drammatico episodio che dà la misura di quanta frustrazione e disperazione sia presente nella vita di buona parte della popolazione delle regioni dell’entroterra. E capitato di nuovo a Kasserine, dove 36 giovani laureati che da giorni erano in sit in di fonte alla sede del Governatorato hanno tentato un suicidio collettivo per protestare contro la disoccupazione e la mancanza di investimenti da parte del Governo, ingerendo sostanze tossiche.
Dopo essere stati ricoverati all’ospedale, 20 di loro non sono più in pericolo di vita mentre una giovane ragazza è in condizioni giudicate critiche.
Non si tratta di proteste inedite o isolate; al contrario, manifestazioni, scioperi, blocchi stradali, sit in e talvolta gesti estremi di si susseguono senza sosta dal dicembre 2010, sia nelle regioni che nella capitale.
Proteste che nell’ultimo anno si sono intensificate rispetto alla relativa calma del periodo successivo alle elezioni del 2014. Sono 18 i sit in che da gennaio hanno resistito fino ai giorni nostri con rivendicazioni connesse, da Menzel Bouzaiene, Tozeur, Kasserine, fino al presidio permanente di fronte al ministero del Lavoro e della Formazione professionale a Tunisi, che dal 19 gennaio 2016 riunisce una delegazione di giovani disoccupati di Kasserine.
Da gennaio, a partire proprio da Kasserine si era riaccesa una forte mobilitazione che si era presto espansa in tutto il paese, con risposte palliative e di ordine sempre punitivo e autoritario da parte delle autorità. Come avviene in questi giorni tra Sidi Bouzid, Kasserine e Gafsa, con arresti e intimidazioni verso coloro che partecipano ai sit in e alle manifestazioni e che vengono accusati sulla base di leggi del vecchio regime e dello stato di emergenza, appena rinnovato per altri tre mesi, che vieta le mobilitazioni pubbliche.
Quello che si richiede da cinque anni sono la realizzazione di piani di sviluppo socioeconomico e democrazia locale, riforme legislative e investimenti nelle infrastrutture e nei servizi ma, paradossalmente, la cattiva gestione può essere pericolosa tanto quanto la mancanza di risorse.
Secondo una recente inchiesta di Inkyfada, nel solo governatorato di Kasserine 1.900 progetti per un valore complessivo superiore a 1 miliardo di dinari (circa 400 milioni di euro) restano ad oggi lettera morta nei registri dei funzionari regionali. Tra le ragioni, in primis si citano frodi e procedure amministrative, in una regione in cui l’esasperazione ha raggiunto livelli allarmanti.
“Quelli che sono morti sono stati sollevati dalla povertà, dalla marginalizzazione e dalla miseria” riporta Inkyfada attraverso una testimonianza che parla da sola.
A peggiorare la situazione attuale e a sconfortare ancora di più sia le fasce più povere della popolazione che la classe media, è stata la presentazione della Legge finanziaria per il 2017, che risponde alle imposizioni di austerity delle organizzazioni internazionali che operano in Tunisia. Solo poche settimane fa, infatti, il FMI ha concesso un secondo prestito – dopo quello del 2013 – di 2,9 miliardi di dollari, condizionato all’introduzione di una serie di misure di “stabilizzazione macroeconomica”.
La legge prevede la riforma del sistema fiscale con un generale aumento dell’IVA e di altre imposte, il blocco degli stipendi del settore pubblico fino al 2019, il taglio della spesa sociale, e la lotta contro l’evasione fiscale con la creazione di un corpo di polizia preposto a tale compito.
Una legge concepita senza alcuna strategia di lungo periodo e realizzata per sopperire oltre che alla richieste esterne, anche ai buchi di bilancio già preventivati per l’anno prossimo. E che fa discutere da destra a sinistra.
“Questo circo è inscenato in onore di Madame Christine, il cane da guardia del FMI”, annunciano i commenti inviperiti di alcuni attivisti. Ma per protesta contro l’approvazione della legge, anche gli avvocati di Tunisi, patrocinati dall’Ordine professionale, hanno scioperato il 21 ottobre e hanno avviato il 26 una “settimana della collera”.
“Una rivendicazione discutibile di autonomia per non pagare le nuove imposte”, dicono alcuni, come avveniva l’anno scorso con l’Ordine dei medici mobilitati in difesa dei privilegi di categoria. Ma che viene argomentata con l’incompatibilità della legge con lo spirito della Costituzione in quanto colpirebbe il potere di acquisto dei comuni cittadini, contrariamente al principio della giustizia fiscale.
Quel che è certo è che nell’applicare la nuova legge, il controllo maggiore verrà effettuato sul pagamento dell’IVA, imposta indiretta e per definizione iniqua, pesando di conseguenza maggiormente sulle classi meno abbienti. Una riforma reale che permetta di verificare il pagamento delle imposte dirette richiederebbe invece un apparato fiscale efficiente che al momento non esiste.
Ci sono segnali comunque significativi: se a quasi 6 anni dalla rivoluzione si nota una tendenza verso il calo nel pagamento volontario delle imposte, la causa va ricercata soltanto nella crisi economica o anche nella disaffezione verso lo Stato e al prematuro declino dei valori di una cittadinanza ancora in costruzione?
Anche il sindacato UGTT, nonostante appoggi il governo di unità nazionale, ha minacciato lo sciopero generale qualora la legge non venga modificata, riprendendo almeno in parte quel ruolo politico parzialmente sacrificato nel 2013 per prendere parte, con il ruolo di mediatore, nel Dialogo Nazionale, il lungo tavolo di trattative che ha permesso alla Tunisia di uscire da uno stallo politico che perdurava da mesi.
Anche l’Utica, l’omologo tunisino della Confindustria, secondo attore dello storico negoziato e che insieme al sindacato ha ottenuto nel 2015 il Nobel per la Pace, ha criticato la legge mettendo in guardia sui rischi che la sua approvazione potrebbe comportare in termini di crescita economica e sottolineando la necessità di un cambiamento di rotta significativo.
La proposta di una legge finanziaria evidentemente in linea con le richieste del FMI, stride con la necessità di cambiamento rispetto ad un modello sociale ed economico non sostenibile, che negli anni ha affossato l’economia interna e ha privilegiato i grandi investitori tunisini ed europei invece che beneficiare la popolazione.
Il crollo del dinaro in relazione all’euro e al dollaro dovrebbe favorire le esportazioni, ma difficilmente potrà portare prospettive di crescita, essendo la Tunisia un paese dipendente in gran parte dalle importazioni.
Una legge in linea anche col nuovo Codice degli Investimenti, che poco si discosta dal modello iniquo benalista e che ha implicazioni importanti anche sul capitolo irrisolto della redistribuzione delle terre.
Di fatto, l’ultima versione del Codice, attraverso l’apertura indiretta all’investimento e all’acquisto di terreni agricoli da parte di stranieri, espone il paese ad un alto rischio di land grabbing e di violazione del principio della sovranità delle risorse naturali, garantito dall’articolo 13 della nuova Costituzione. E rimette in discussione la faticosa battaglia per l’indipendenza dagli investimenti stranieri di larga scala che hanno depauperato i territori per produzioni intensive destinate all’esportazione.
Se ci fosse stata coerenza nel rispondere alle pressioni dei finanziatori internazionali o transnazionali, la Tunisia avrebbe dovuto anche rispondere alle richieste dell’Unione Europea di rafforzare i meccanismi democratici e la partecipazione cittadina.
Ma purtroppo sono ancora troppo poche le riforme che vanno in tal senso grazie alla determinazione di alcuni politici e funzionari.
Invece, chi sta provando a costruire percorsi di democrazia basati sulla salvaguardia dei beni comuni e su sistemi di sviluppo socio economici alternativi, vede sempre più limitati gli spazi di agibilità.
Come nel caso dell’oasi di Jemna, in cui il 14 gennaio 2011 il “Comitato rivoluzionario” locale ha recuperato le terre da un’impresa fallita, iniziando a gestire la raccolta e la vendita dei datteri. Il ricavato, che in questi anni è aumentato vertiginosamente grazie ad una gestione collettiva del palmeto, è stato reinvestito in opere pubbliche e servizi per la collettività decisi in maniera partecipativa attraverso assemblee pubbliche cittadine.
In questo caso il governo non ha accettato di riconoscere la legittimità dell’associazione di sfruttare le terre, poiché rappresenterebbe un precedente che potrebbe indurre altri ad agire in maniera analoga, riaprendo il vaso di Pandora della questione fondiaria.
Non è la volontà politica a mancare, al contrario c’è ed è ben chiara. Si tratta di una deliberata opposizione ad un progetto che si basa su valori ben diversi rispetto a quelli sostenuti dall’impostazione economica top-down di tendenza neo-liberista che contraddistingue tanto Nida Tounes quanto Ennahda.
La tensione in questi giorni sta salendo, tanto che i conti correnti dell’associazione e del grossista che si era proposto di comprare i datteri sono stati congelati dal governo. Per tutta risposta gli abitanti di Jemna stanno chiudendo i conti correnti in banca, in un’azione di disobbedienza civile significativa.
La perseveranza di chi continua a cercare nuove forme di democrazia e di sviluppo locale, che si oppone all’amnistia in favore di chi negli anni del regime ha corrotto, truffato e frodato, che cerca di risolvere questioni di ordine sociale e economico ancora pendenti, permette di non perdere la speranza per un cambiamento che richiede ancora molti sacrifici e altrettanto tempo.
Una vittoria significativa quella, per esempio, del collettivo Manish Msamah e delle organizzazioni che si sono battute per contrastare la controversa proposta di legge della Presidenza definita della “riconciliazione economica nazionale”, che avrebbe facilitato l’amnistia per i reati economici e di corruzione del vecchio e del nuovo regime. E la cui discussione in Parlamento è stata bloccata pochi giorni fa a data da destinarsi, facendo sperare in un abbandono definitivo della legge stessa. Che arriva simbolicamente proprio alla vigilia dell’inizio delle prime udienze pubbliche dell’Istanza Verità e Dignità, che potrebbero aprire un capitolo di speranza per una vera riconciliazione sociale dopo la dittatura.
Per quanto la storia non si ripeta mai nello stesso modo, la situazione attuale in Tunisia si compone quindi di elementi che sono ricorrenti.
Mancanza di prospettive rispetto al miglioramento delle condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione, tanto nella capitale quanto nelle regioni storicamente marginalizzate, repressione delle forme di dissenso e ritorno a forme di autoritarismo e centralismo che stridono con i principi della Costituzione del 2014, aggravarsi della crisi economica, solo per citarne alcuni.
La complessità della situazione attuale necessita inoltre dell’analisi della natura delle relazioni internazionali e del contesto geopolitico in cui la Tunisia è inserita.
Il 26 ottobre il Washington Post ha pubblicato una notizia secondo cui dal giugno scorso gli Usa avrebbero alcune basi militari nel sud della Tunisia al fine di controllare da vicino l’evolversi della situazione in Libia. Il ministero della Difesa tunisino ha immediatamente smentito la notizia, contribuendo a rendere ancora più oscuro il rapporto militare tra Usa e Tunisia, nonostante l’utilizzo dello spazio aereo tunisino da parte di velivoli americani decollati da Pantelleria sia confermato già da tempo.
Inoltre servirebbe chiarezza su aspetti decisivi, come la rottura con il regime di Damasco e i tentativi di ricomposizione portati avanti da alcuni parlamentari, le relazioni con il Qatar, l’appoggio ricevuto da Francia, Ue e FMI in primis, l’accordo di libero scambio (ALECA) in discussione e le relazioni commerciali con Italia e Europa, i trattati di mobilità, la contraddittoria posizione sulla Libia, la partenza di migliaia di giovani tunisini per la Siria e Iraq.
Sono elementi che difficilmente trovano spazio nelle analisi, così come nelle discussioni politiche interne al paese, ma che aiuterebbero a comprendere più a fondo come e perché vengano privilegiate alcune scelte che hanno avuto e avranno un impatto fondamentale sul futuro della Tunisia.
*Nella foto: Manifestazione del movimento “Manich Msamah” (“Io non perdono”) contro la legge di riconciliazione economica. Credit photo: Manich Msamah
October 29, 2016di: Damiano Duchemin e Debora Del PistoiaTunisia,