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Tunisia. “Noi giovani, delusi ma non passivi”

La violenza, lo stallo politico, la crisi sociale e le disillusioni dei giovani rivoluzionari. Intervista a Kais Zriba, giornalista indipendente, blogger e mediattivista tunisino, in Italia ospite del Festival di Internazionale a Ferrara.

 

Recentemente a Ferrara per partecipare alla conferenza sulla libertà d’espressione nel Mediterraneo, uno degli eventi del Festival di Internazionale, Kais è originario dell’area di Gafsa, nel sud della Tunisia, una delle regioni politicamente più attive. E’ li che, benché giovanissimo, ha seguito in prima linea gli eventi del 2008, le proteste del bacino minerario che hanno cambiato la storia del paese e che lo hanno spinto verso l’attivismo attraverso la rete, unica forma di resistenza ed espressione nella Tunisia di Ben Ali.

A 22 anni,  Kais Zriba è giornalista ed ex membro della redazione di Nawaat, blog indipendente e militante già dal 2004, divenuto in Tunisia un fonte primaria di informazione e d’inchiesta. E’ proprio a causa del lavoro con Nawaat che è stato recentemente costretto a comparire davanti al Tribunale di Tunisi per un articolo sul gruppo salafita radicale di Ansar al-Sharia (I Partigiani della Sharia), definito dal governo islamista di Ennadha come ‘organizzazione terrorista’.

Questa volta è il governo legittimo che reprime i suoi cittadini impegnati nella difesa della libertà di espressione e di stampa.

Sguardo perso nell’osservazione attenta, Kais è in Italia per la prima volta. A causa delle restrizioni e delle politiche migratorie europee, la libertà di movimento in Tunisia è un privilegio e la sua repressione colpisce soprattutto i giovanissimi, considerati potenziali cervelli in fuga una volta toccato il suolo europeo. Ma Kais è determinato – glielo si legge negli occhi – a rientrare in Tunisia e a servire con le sue energie e capacità il suo paese e il suo popolo, per garantire un’informazione affidabile e indipendente.

 

Il regime di Ben Ali utilizzava metodi espliciti di censura, che creavano un divario incolmabile tra lo spazio da viveree lo spazio da vedere, costruito dai media di regime. Nonostante la parziale liberalizzazione dei mezzi di comunicazione e la declamata conquista della libertà d’espressione, ci troviamo di fronte oggi ad una nuova fase di repressione – da te definita “una campagna orchestrata contro i giornalisti e gli artisti indipendenti” – della quale tu stesso sei stato vittima. Com’è cambiato il sistema di censura con un governo legittimo, e che impasse sta vivendo il settore mediatico tunisino? 

Per quanto riguarda la censura, è utile fare una precisazione importante. Non possiamo ignorare l’ondata di ricorsi alla giustizia di cui sono stati vittime innumerevoli giornalisti indipendenti e comuni cittadini per la semplice “colpa” di voler praticare il diritto sacro alla libertà di parola. Ma non per tutti è pertinente parlare di censura nel vero senso della parola. Pensiamo a vari casi di giornalisti che hanno sfruttato l’anarchia mediatica e l’assenza di controllo per servire agende politiche ben precise. 

Tra coloro che invece sono impegnati nella battaglia per la libertà d’espressione citerei, oltre ai giornalisti, anche i vari blogger e i rapper che già da prima della rivoluzione rischiavano la propria incolumità per lanciare messaggi di rottura contro il sistema.

Ricordiamo la vicenda di Kley BBJ, che considero un internauta più che un semplice rapper, costretto a rispondere alla giustizia per aver ripreso pezzi già esistenti su Internet e averli resi popolari. In questo momento non è più in carcere, ma si trova ancora in libertà provvisoria.

O quella del rapper Weld El 15, anche quest’ultimo in prigione per le sue manifestazioni verbali di rabbia verso la polizia. “Tsheddou wahid, yokhrujou lkam alif” (Ne mettete uno in prigione, ne nascono mille), recita un graffito sulle mura di Tunisi, ad indicare l’effetto controproducente di queste politiche liberticide che colpiscono le rivendicazioni di una gioventù arrabbiata e incompresa. 

In Tunisia i rapper rappresentano un simbolo della pratica della libertà d’espressione, in molti casi anche ignorandone il concetto stesso, spesso semplicemente affermando la verità. Perché il diritto alla parola è un diritto innato e sacro, ed è quello che la nostra generazione rivendica. C’è  poco di naturale invece nel perseguire legalmente delle persone per questo. 

La libertà di espressione è un obiettivo che il popolo ha rivendicato e per questo dobbiamo lottare per continuare ad esercitarlo, senza sopraffazioni della giustizia o della polizia, che un governo che si definisce rivoluzionario non può più accettare. Il sistema cambierebbe con una riforma del settore poliziesco, che resta ad oggi lo stesso dell’epoca di Ben Ali, e che continua a mietere vittime con le stesse procedure sporche e violente del passato. 

Io stesso, insieme al collega di Nawaat Walid, sono stato convocato in tribunale come testimone per un articolo pubblicato sul nostro portale e relativo alla vicenda di Ansaar al-Sharia, indicato dal ministero dell’Interno come gruppo terrorista, ma mai definito tale dalla giustizia. Se mettiamo da parte la soddisfazione di notare che il lavoro di un media indipendente come Nawaat sia riuscito ad incidere a tal punto da disturbare il ministero, è importante ricordare che la giustizia in questo caso ha commesso due errori principali, che rispecchiano le falle del sistema tunisino. 

In primo luogo, è la giustizia che ci interpella, quando lei stessa non ha preso posizione ufficiale su Ansaar al-Sharia, rispondendo alle decisioni politiche del ministero. E in secondo luogo, che cosa significa richiamare due giornalisti come testimoni? Io come professionista sono libero e ho già pubblicato tutto quello che doveva essere diffuso all’opinione pubblica. Se devo essere giudicato è per attentato all’ordine pubblico, ma non potrò mai scendere a compromessi per rivelare le mie fonti. 

Per questo è così importante la regolamentazione dei media e l’applicazione di leggi che organizzino seriamente e deontologicamente il sistema d’informazione. Altrimenti sarà facile per molti abusare dei limiti della libertà d’espressione per far passare messaggi personalistici e pericolosi.

 

La recente costituzione di un organismo indipendente del settore come l’Alta Istanza Indipendente per il Settore Audiovisivo (HAICA) può cambiare il paesaggio mediatico e fermare le politiche liberticide?

Mi soffermerei in primis sul ruolo della HAICA, per la cui applicazione tutto il settore mediatico si batte da due anni, dall’approvazione del famoso decreto 116 sul settore audiovisivo. Dal 3 maggio 2013, data della sua ufficializzazione, quest’organo si trova svuotato delle sue prerogative. La responsabilità è senza dubbio da attribuire ai partiti politici che hanno bloccato l’istituzionalizzazione e la costituzionalizzazione delle funzioni della HAICA e che hanno reso il terreno propizio a creare disordine e disfunzione nel settore, e che adesso si ritrovano ad essere vittime dei propri errori.

Sono gli stessi partiti che attaccano oggi direttamente tutti i media che tentano con difficoltà di produrre un’informazione alternativa al messaggio ufficiale. E’ stato il caso di Nessma TV nell’ultima settimana, ma è il rischio che corrono ogni giorno tutti i mezzi di comunicazione che cercano di lanciare messaggi alternativi.

In un quadro simile, è importante sottolineare il ruolo di un organo come la HAICA per regolamentare il settore, con prerogative e compiti che restano tuttora da definire, ma in un periodo in cui i media sono in pericolo. L’unica funzione esercitata finora è quella di ammonimento dei media, che evidentemente non può essere sufficiente per inquadrare e proteggere il settore in maniera efficace. Se poi parliamo dell’indipendenza di quest’ultima, si tratta di una questione spinosa e che dovrebbe far riflettere. Che cosa significa oggi in Tunisia essere indipendenti? 

Ma ancora più importante è il ruolo che dovrebbe svolgere per regolamentare il terzo settore mediatico, quello associativo-comunitario, come reale attore di contro-potere, in forte espansione in Tunisia negli ultimi due anni e mezzo, ma su cui l’interesse politico è assente e su cui le prospettive legislative restano vaghe.

 

La rivoluzione mediatica e la conseguente “liberalizzazione della parola” si è affermata anche grazie ai nuovi media alternativi, creati e gestiti dai giovani con un approccio locale, tanto forti da poter influenzare le relazioni centro/periferia in un paese caratterizzato dal monopolio e dalla concentrazione nella capitale. Credi che questo nuovo panorama mediatico possa essere capace di annientare la centralizzazione del dibattito politico?

La decentralizzazione mediatica è un aspetto fondamentale, da realizzare con giornalisti professionisti o amatori, ma non è una finalità di per sé. L’obiettivo è cambiare lo sguardo delle persone verso il proprio paese.

Non si tratta solo di decentralizzare i media, ma di decentralizzare il vero lavoro giornalistico, oltre ai mezzi tecnici. Oggi abbiamo molte radio comunitarie di cui non si sente nemmeno parlare. Perché non riescono ad imporsi come attori di cambiamento e fonti di informazione, a causa del monopolio capitalista dei media. Ma non è concepibile che un’informazione locale esca prima su Radio Shems FM (radio commerciale nazionale già autorizzata nell’epoca Ben Ali,ndr) che sui media alternativi della regione di appartenenza, che dovrebbero rappresentare la prima fonte affidabile per la reale conoscenza del terreno.

E’ una missione che si sta compiendo a metà. Pensiamo per esempio ai deputati che rappresentano le regioni e che parlano ai media di Tunisi.. perché quelli regionali non esigono la loro presenza per potersi far sentire dagli stessi uditori che li hanno votati? O ai sondaggi telefonici realizzati da Radio Mosaique FM, che influenzano le decisioni politiche, ma che non sono rappresentativi. E questo è un rimprovero anche ai media locali.

Questi nuovi media devono giocare un ruolo nel cambiamento della mentalità. Poichè sono dei giovani che li gestiscono, ci si attende qualcosa di diverso da loro. Per affermarsi devono avere la forza di farlo. Alcune esperienze positive le abbiamo ed è giusto sottolineare la loro efficacia: pensiamo alla radio comunitaria Mines FM di Gafsa o a radio Tatouine che, benché statale, è riuscita ad ottenere un’eco importante anche a Tunisi.

Questi media hanno una potenza e un impatto rivoluzionario di gran lunga superiore a quello dei media tradizionali. Il settore dei media locali deve imporsi e rivendicare il suo diritto ad esistere, ad avere impatto e visibilità. Questo è un aspetto nevralgico nella decentralizzazione politica, economica e sociale: la democrazia rappresentativa locale di cui tanto si parla, deve per prima essere messa in pratica dai media locali. E non attraverso trasmissioni dedicate al tema, quanto piuttosto con la pratica nelle regioni, assumendosi la responsabilità di essere l’unica voce in questi contesti dimenticati dallo Stato.

Attraverso voci giovani e indipendenti, per diventare allo stesso tempo uno spazio di partecipazione in contesti marginalizzati e dove l’emigrazione dei cervelli rappresenta una piaga sociale. 

 

Parlando ancora di partecipazione, come valuti la costituzione della piazza tunisina alla luce delle ultime manifestazioni, a partire dal 6 agosto, a sei mesi dall’assassinio di Chokri Belaid, e fino ai cortei del 23 ottobre scorso? Pensi che si tratti di movimenti rappresentativi delle rivendicazioni sociali? 

Ci tengo molto a parlarne, perché si è scritto e detto troppo sulle manifestazioni che hanno rianimato la piazza tunisina negli ultimi mesi. Non si tratta di una nuova rivoluzione, soprattutto se pensiamo alle rivolte contro Ben Ali, perché queste persone scese in piazza non lo hanno fatto spontaneamente. Sono i partiti politici che hanno fatto appello a scendere in strada, ma le persone che hanno aderito non rappresentano la massa stremata dalla situazione politica e sociale. Il 6 febbraio sì, la gente ha partecipato, con una rabbia spontanea e un’indignazione di fronte alla violenza politica.

Ed è proprio il 6 febbraio 2013 che la nostra sinistra è morta, e con lei il rapporto tra partiti politici e la piazza.

Nei mesi seguenti, abbiamo assistito a scenari diversi in spazi diversi. Nelle regioni, i movimenti contestatari hanno avanzato rivendicazioni sociali ed economiche e sono stati spesso repressi (pensiamo ai fatti di Siliana del novembre 2012 e alla repressione a colpi di chevrotines, munizione a proiettili multipli). Nella capitale invece, le manifestazioni assumono forme diverse, sono politicizzate e prive di veri messaggi rivoluzionari.

Il 23 ottobre (anniversario delle elezioni per l’Assemblea Costituente, ndr) è un altro giorno di lutto per la sinistra e l’intera opposizione, che ha dimostrato come la gente sia ormai stanca dei partiti di ogni colore, dei presunti partigiani che rispondono ai loro appelli, ancora inconsci di essere marionette all’interno di un bieco teatrino politico. E con non poche contraddizioni, considerato che il partito per il quale queste persone si impegnano sta negoziando con quello stesso governo contro il quale incita a lanciare pietre.

Se qualcosa cambierà davvero in questo paese, sarà dalla base popolare e in maniera spontanea.

Per concludere, una triste riflessione sulla manifestazione serale che lo stesso 23 ottobre i sostenitori di Ennadha hanno organizzato in centro a Tunisi per rivendicare la legittimità del governo. Un’immagine che mi mette i brividi, perché ricorda terribilmente la manifestazione dei partigiani del RCD, il partito di Ben Ali, il 13 gennaio 2011, alla vigilia della fuga del dittatore e in coincidenza con un atteso discorso presidenziale, come il 23 ottobre. E’ una battaglia intorno al potere e per il potere quella che tutti i partiti stanno combattendo.

 

Dove si posizionano i giovani più attivi in questo contesto, la vera forza di cambiamento e di elaborazione di messaggi politici nuovi? 

Noi giovani attivisti siamo sempre stati presenti. Ma adesso ci tiriamo indietro, lasciamo i partiti soli con i loro giochi politici, senza ripetere lo stesso errore. I giovani indipendenti non hanno voluto partecipare e spendersi in questa scena mediocre e triste, in questa confisca delle lotte sociali da parte dei partiti. 

Lo ammetto, siamo delusi e stiamo a guardare questa “battaglia politica” perdente in partenza. 

Ma non siamo passivi, ognuno si dedica al proprio progetto, individuale e collettivo, con gli stessi sogni di cambiamento. Che lo si faccia tramite il giornalismo, il cinema, la musica, è comunque una scelta politica di resistenza. Pensiamo ai registi impegnati, ai musicisti o ai movimenti di base come il collettivo autogestito Blesh 7ess.

 

Il processo del dialogo nazionale tra il governo islamista e l’opposizione, avviato ufficialmente il 25 ottobre, viene definito da molti mediocre sia per il suo approccio che per la composizione degli attori. Che cosa ne pensi?

Quanto al dialogo nazionale, il suo avvio è stato solo un’altra di una lunga serie di violazioni istituzionali, uno striptease nazionale, compiuto in innumerevoli casi dalla Troika e da Ennadha e in questo caso da tutti i partiti. Il governo, che è stato eletto e che dovrebbe rappresentare il popolo, ha firmato un assegno in bianco, soprattutto di fronte all’UGTT (il sindacato tunisino, ndr), annullando il lavoro svolto dall’Assemblea Nazionale Costituente durante questi ultimi due anni.

Come definire poi il Fronte Popolare, che incita i suoi a scendere in piazza ogni mercoledì per chiedere la verità per gli assassini di Belaid et Brahmi, e che nella stesse giornata si siede a tavolo della negoziazione con Ennadha? Dove stanno l’etica e la coerenza?

Gli stessi deputati dell’opposizione nell’Assemblea Costituente hanno dimostrato una mediocrità politica senza precedenti. Si sono ritirati il 25 luglio dopo l’assassinio di Mohamed Brahmi, hanno preso posizione contro la violenza politica e il coinvolgimento del governo nella crisi securitaria del paese, e poi hanno dichiarato di voler riprendere i lavori. Ma che cosa è cambiato dopo tre mesi? Le persone che hanno partecipato al sit-in del Bardo e sostenuto la sospensione dei lavori dell’ANC, che posizione prendono oggi?

E’ più che probabile che questi deputati abbiano accettato di tornare sui loro passi semplicemente perché si sono visti riconoscere la promessa di avere un posto nel prossimo governo.

Il dialogo nazionale è ufficialmente iniziato, è vero, ma senza che i partiti politici abbiano preso posizione contro la violenza politica, di cui sono stati vittime anche sedi e membri del partito di Ennadha. Quindi dobbiamo pensare che le formazioni di opposizione sostengano questa violenza? Se sono contro devono prendere posizione e assumersene la responsabilità. Molti membri del Fronte Popolare e di altre opposizioni hanno partecipato direttamente a queste azioni, contraddicendo il loro stesso discorso.

E’ un “gioco” pericoloso, perché la violenza politica è da condannare in tutte le sue forme, aldilà dei colori politici.

 

Il dialogo nazionale sta prendendo in considerazione le reali rivendicazioni sociali? Quello della giustizia transitoria resta ancora tema di discussione all’interno della società civile e delle istituzioni?

Questo nuovo teatro politico non soddisfa le rivendicazioni della gente comune, che non si sente coinvolta dal “dialogo”, così lontano dai problemi reali del paese. Oltre al fatto che il sistema non è cambiato, la lista dei candidati per il prossimo governo cosiddetto “indipendente”, ancora una volta è caratterizzata dalla presenza di vecchie facce e da un’assenza totale dei giovani.

Questi ultimi, esclusi dalle decisioni politiche e lontani dal poterle influenzare, non sono rappresentati neppure nella compagine del dialogo nazionale, nemmeno attraverso l’UGET, l’Unione Generale degli Studenti Tunisini, lo storico sindacato studentesco bacino di leva del UGTT.

Approfittando del vuoto politico e dell’incerto cammino della giustizia di transizione, si fanno rientrare nelle fila del governo personaggi collusi con l’ancien règime, quegli stessi che sono stati rifiutati dal popolo tunisino a partire dal 17 dicembre 2010. 

Temi centrali come quelli della giustizia transitoria e della riconciliazione nazionale non sono nemmeno stati presi in considerazione tra i punti in discussione, dando adito ad episodi gravissimi come quello avvenuto il 25 ottobre scorso: uno dei sindacati delle forze dell’ordine ha pubblicato un comunicato nel quale i poliziotti, che da sempre servono il sistema e che ancora rappresentano il pilastro del vecchio apparato poliziesco di Ben Ali, rivendicano la legittimità di custodire armi nel loro domicilio a causa dello “stato di urgenza”, ma soprattutto chiedono la liberazione dei colleghi delle forze dell’ordine incarcerati per aver commesso torture e ucciso i manifestanti durante le rivolte del 2011. Ancor più grave, gli altri sindacati non si sono dissociati.

Con quale diritto queste persone offendono la memoria dei martiri e dei feriti della rivoluzione, senza nemmeno essere passati davanti a un tribunale e attraverso una riforma del sistema poliziesco? E’ in atto un gioco politico sporco e noi cittadini assistiamo al ritorno di uno stato poliziesco e siamo costretti ad accogliere gli ex affiliati del RCD con il benestare tanto del governo che dell’opposizione.

Senza citare le spinose tematiche del debito odioso (il governo tunisino ha da poco firmato l’accordo con l’FMI aggirando i poteri dell’ANC, passato quasi completamente inosservato, ndr) e il livello di vita della popolazione, su cui il dibattito è pressoché inesistente.

 

Come hanno affrontato i media questo evento politico chiave?

Si tratta in effetti di un elemento essenziale per comprendere tutto il resto. L’intero apparato mediatico si è focalizzato sul tema del dibattito nazionale, come se fosse qualcosa di storico e che possa davvero far uscire la Tunisia dall’impasse che sta vivendo. Non sono stati capaci di fare un’analisi critica dei problemi reali del paese, monopolizzati da una classe politica che ancora una volta è riuscita ad imporre ed esercitare la propria agenda e la propria propaganda, sia nei ranghi del governo che dell’opposizione.

Poche le buone pratiche di giornalismo da citare in questo contesto, e addirittura ci troviamo obbligati a fare i complimenti a persone che banalmente hanno compiuto il proprio dovere e svolto il loro ruolo con professionalità, considerato il livello di inaffidabilità del settore in Tunisia. 

 

Torniamo al 23 ottobre: in occasione del secondo anniversario dalle prime elezioni libere, un clima d’insicurezza generalizzata e di complotto regna nel paese. Ancora una volta un attentato definito ‘terrorista’ ha colpito 7 membri della Guardia nazionale nella regione di Sidi Bouzid e in quella di Bizerta. Lo stesso scenario sembra ripetersi costantemente nei momenti chiave, instaurando una strategia della tensione pericolosa e già sperimentata in altri contesti limitrofi. Qual è la tua chiave di lettura di questo momento di instabilità istituzionale, della sicurezza, della giustizia?

A mio avviso si tratta di un terrorismo pianificato e strumentalizzato a fini politici, probabilmente sostenuto anche da forze esterne che mirano a destabilizzare il paese. Molti attaccano Ennadha, altri l’opposizione, altri ancora l’RCD. Ma non ci sono elementi concreti per le accuse. L’unica certezza è che si tratti di una manovra politica, che agisce in spazi temporali ben definiti. Il 6 febbraio 2013 (giorno dell’assassinio di Chokri Belaid, ndr) era il giorno in cui si sarebbe dovuta discutere la legge sulla protezione della rivoluzione. 

Lo stesso Essebsi (ex Premier del secondo governo provvisorio post-Ben Ali e fondatore del partito Nidaa Tounes, ndr) ha accusato pubblicamente il governo di Ennadha di essere responsabile delle violenze, supponendo che il suo popolo possa aver dimenticato che il terrorismo in Tunisia è iniziato proprio quando lui stesso era premier.

Il gioco sta funzionando bene. Si sta preparando il terreno per qualcosa di grave, tra cui il varo della “legge contro il terrorismo” che le forze dell’ordine stanno cercando di imporre, andando così a ledere anche le libertà individuali e i diritti fondamentali delle persone.

Si pensi al dibattito sul niqab, il cui uso si vorrebbe vietare, legandolo al terrorismo e criminalizzandolo. Ma pensiamo allora alle divise dei nostri servizi di sicurezza, il famoso cagoule, il passamontagna: qual è la differenza tra chi uccide le persone in una manifestazione pacifica e chi lo fa come terrorista? Il primo gode anche di un vantaggio di forma, perché non può neppure essere arrestato.

Siamo di fronte ad una manipolazione di massa che influenza l’agenda politica del paese e devia dalle reali necessità e rivendicazioni della base. Che ancora aspetta una risposta. 

 

A proposito di strumentalizzazioni, che cosa ti ha colpito di più dell’immaginario collettivo italiano sulla Tunisia? 

Mi ha fatto molto piacere notare l’interesse per la situazione tunisina e per il processo di transizione democratica. Spesso però l’immagine del paese è totalmente distorta e il dibattito si concentra su falsi problemi.

Basti pensare a tutta l’attenzione mediatica che ha seguito il caso di Amina del movimento Femen, o la questione  religiosa, presentata intenzionalmente come uno “scontro di civiltà” tra laici e islamisti. Queste non sono le priorità né i problemi veri del paese, sono tematiche che troppo spesso vengono utilizzate e ingigantite per trasmettere un’immagine sbagliata, soprattutto se parliamo dei media ufficiali mainstream

Rari sono quelli che si interessano ai nuovi movimenti sociali, alle realtà di base e alle lotte quotidiane. In particolare ai suoi giovani, quelli che si sono affacciati numerosi sulle coste italiane fin dai primi mesi dopo la rivoluzione.

Perché se è vero che le prospettive economiche sono un fattore che spinge moltissimi a partire, non possiamo dimenticare gli aspetti culturali e politici delle migrazioni, quelli che muovono un’intera generazione.

 

 

 

 

October 29, 2013di: Debora Del Pistoia (COSPE) da TunisiTunisia,

Redazione

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