di Andrea Ranelletti
La scelta di intervistare Belaïd nasceva dal desiderio di far chiarezza all’interno del vasto (e confusionario) quadro partitico post-14 gennaio e di raccogliere la testimonianza di un politico da decenni protagonista dell’opposizione al regime.
Come militante all’università, ancora studente, come membro del movimento clandestino dei ‘Patrioti democratici’, fin dagli anni Ottanta, e poi come avvocato impegnato in prima linea nella difesa dei diritti umani.
Lo raggiungemmo nel piccolo appartamento di rue Abdelnasser adibito a circolo del Watad, il movimento dei Patrioti Democratici (tra le prime formazioni ad essere legalizzate nel marzo 2011, poi confluita nel Fronte Popolare, opposizione di sinistra radicale al governo della Troika).
Il senso di vuoto trasmesso dalle stanze ampie e sguarnite era compensato dalla vista della Cattedrale di Saint Louis, che dà su avenue Bourghiba.
Erano i mesi precedenti alle votazioni per l’assemblea costituente e la città intera era animata dal fervore pre-elettorale. In un turbine di sondaggi di varia attendibilità, tutti i partiti cercavano di ritagliarsi sulla carta un vantaggio sugli altri schieramenti.
Belaïd non resistette alla tentazione, proclamandosi primo sfidante di Ennahdha: impietoso, il verdetto elettorale finì per dargli torto (un solo seggio ottenuto allo scrutinio).
Il volto segnato e i grandi baffi contribuivano a far sembrare Belaïd più anziano dei suoi 47 anni. Trafelato, il leader del Watad ci concedette mezz’ora del proprio tempo, in cui enumererò i punti del suo programma.
Qualche proclama e un po’ di retorica non bastarono però ad offuscare la passione e la sincerità di un vero combattente della politica.
Al contrario di molti connazionali, Belaïd aveva capito che la rivoluzione, la fuga del dittatore, non era un fine in sé ma l’inizio di un lungo processo di cambiamenti da affrontare con forza di volontà e tenacia.
I tagli in fase di montaggio del documentario fanno sì che le parole contenute in questa intervista* siano inedite: pubblicarle è la nostra maniera di rendere omaggio alla sua memoria.
Chi è Chokri Belaïd?
Sono un avvocato e segretario del movimento dei Patrioti Democratici. Cominciai a fare politica molto presto e venni arrestato per la prima volta nel 1987, quando facevo parte del movimento studentesco (UGET, Union générale des étudiants de Tunisie).
Allora ero già un convinto oppositore del regime e un membro del movimento clandestino dei ‘Patrioti Democratici’. Sin dagli anni Settanta, il gruppo ha avuto una storia riconosciuta, un forte seguito e ne hanno fatto parte anche dei martiri degli anni ’70 e ’80, uccisi e torturati per aver preso parte alle contestazioni.
Quale genere di politica fa il Watad?
Il nostro è un movimento di sinistra, a carattere socialista, che porta avanti le istanze del popolo con un obiettivo preciso: la lotta contro l’imperialismo nel mondo arabo e la lotta di classe sul territorio nazionale.
Per poter creare una Tunisia libera e democratica sarà necessario uscire dalle logiche prevaricatrici che hanno imprigionato fino ad ora il paese, in modo da ottenere un potere decisionale autonomo e rispettoso dei diversi punti di vista del popolo tunisino.
L’uguaglianza sarà ottenibile solo attraverso la lotta contro lo sfruttamento, le discriminazioni razziali e sessuali e soprattutto contro il centralismo dell’offensiva culturale occidentale.
Il movimento dei Patrioti Democratici ha una struttura transnazionale, fa parte di una rete di movimenti estesa a tutto il mondo arabo e non solo (ha legami solidi con formazioni della sinistra libanese e irachena).
Qual è il peso del vostro partito?
Siamo molto conosciuti in Tunisia. Molte persone contribuiscono con i loro salari a finanziare il movimento. Abbiamo vissuto in clandestinità, subito l’oppressione, l’ingiustizia e nonostante tutto i nostri militanti sono presenti in tutto il territorio.
Cosa significa la rivoluzione per il Watad?
La rivoluzione è per la Tunisia l’inizio di un percorso: bisogna riprendere e migliorare il vecchio Stato interrompendo ogni legame col vecchio regime, con le sue leggi, le sue istituzioni e la sua classe dirigente.
Per questo scopo sarà essenziale la formazione di un’Assemblea Costituente, da noi fortemente richiesta fin dalla caduta di Ben Ali. Per cambiare il sistema occorre partire dalla costituzione: il voto sarà lo strumento in mano ai cittadini per annullare ogni legame con il vecchio regime.
Cosa pensa di Ennahdha? C’è un rischio fondamentalista per la Tunisia?
Sosteniamo la necessità di una separazione totale tra religione e politica. Ennahdha è pericolosa perché mantiene un discorso ambiguo, duplice: da una parte si rivolge all’Occidente mostrando la propria faccia democratica e dimostrandosi pronta al dialogo; dall’altra, quando i leader parlano alla base, paventano l’instaurazione di un califfato in Tunisia.
La democrazia è da loro considerata quasi una cosa per atei: la teocrazia è il loro scopo, con Dio fonte del potere e l’uomo che si sottomette alla volontà dei suoi sacerdoti.
Noi non temiamo Ennahda, abbiamo fiducia nella volontà popolare: il 14 gennaio i suoi uomini non erano in piazza. Se ci saranno elezioni aperte e trasparenti Ennahda non avrà un ruolo preponderante. Sappiamo che sarà il primo partito, ma diventerà solo una componente del governo.
Ciò che temiamo sono le ingerenze esterne: l’intervento di Qatar e Arabia Saudita da una parte e di America, Francia e Italia dall’altra falserebbero il voto e creerebbero uno scenario politico irreale. In elezioni oneste e libere Ennahda avrebbe, secondo me, non più del 15-16% dei voti.
Tra le possibili ingerenze ha nominato anche l’Italia. Qual è il suo timore in proposito?
Il mio timore viene dall’esperienza ed è legato alle solide relazioni intessute da Ben Ali con i nostri vicini del nord attraverso le politiche migratorie.
Per difendere i loro interessi hanno trasformato la Tunisia in uno stato di polizia e poi hanno approfittato della benevolenza del regime per rapinare le nostre risorse, con la scusa dello sviluppo in loco. Esenzioni fiscali, sfruttamento della manodopera e costi di produzione bassissimi.
Non credo che l’Italia o la Francia siano disposti a rinunciare facilmente a tutto questo.
* Per la traduzione dell’intervista ringraziamo Ghassan Fares e Mofid Fares.
La foto pubblicata è di busy.pochi (via Flickr)
February 8, 2013
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