Un nuovo rapporto di HRW definisce “pericolosa” per i diritti umani e le libertà personali e collettive la nuova legislazione anti-terrorismo al vaglio del Parlamento tunisino. Sull’onda dell’attacco del Bardo, il rischio è la limitazione delle libertà individuali e collettive.
La Tunisia sta combattendo una duplice battaglia: da un lato contro l’orrore rappresentato dall’estremismo e dal fanatismo di gruppi che si definiscono islamici, dall’altro contro il ritorno al passato incarnato dall’autoritarismo del governo.
Inoltre queste partite si stanno giocando nel mezzo degli strangolanti conflitti per la ridefinizione geopolitica dell’intera area, di cui il dramma che si sta compiendo a Yarmuk, o lo scontro in Yemen tra Arabia Saudita e Iran, rappresentano solo gli episodi più recenti.
Durante le giornate del Forum Sociale Mondiale a Tunisi in molti hanno espresso fortepreoccupazione per l’approvazione, sull’onda dell’attacco al Bardo, della nuova normativa antiterrorismo.
A conferma di tutto ciò anche Human Rights Watch ha redatto un rapporto proprio sulla pericolosità degli articoli di legge che si stanno approvando in questi giorni.
Combattere il terrorismo, senza calpestare i diritti umani e le libertà , ed anzi, conquistare una vera giustizia sociale, è quello che la società civile sta richiedendo a gran voce, lottando e mobilitandosi sia contro le politiche del governo di coalizione pentapartito, sia contro la provocatoria presenza degli integralisti, appoggiati e coperti più o meno apertamente, a secondo dei tempi, anche dall’Islam politico moderato.
La lotta dei disoccupati di Gabes in sciopero della fame, così come la contestazione alla chiusura dello spazio MassArt a Tunisi ci parlano di questo: di una Tunisia che non vuole farsi mettere il bavaglio e che non accetta la strumentalizzazione dell’attentato del Bardo.
Una Tunisia che vuole continuare e portare a compimento il cammino aperto ormai quattro anni fa.
La vicenda di MassArt è emblematica. Si tratta di uno spazio culturale, attivo, vivo, un luogo di aggregazione in un quartiere popolare, aperto quattro anni fa. Stiamo parlando di quell’aggregazione fatta di creatività e partecipazione dal basso che rappresenta realmente un antidoto all’integralismo e alla reazione e che costruisce l’alternativa, senza deleghe.
Oggi le sue porte sono chiuse a causa dell’arroganza della proprietà e della mancanza d’intervento (o forse proprio a causa dell’intervento) delle istituzioni.
Stessa sorte stanno subendo altri spazi culturali ed autogestiti; ciononostante, nello stesso tempo, altri luoghi d’aggregazione continuano a funzionare e a svilupparsi anche fuori dalla capitale, nelle regioni del centro-sud, quelle in cui è più difficile conquistare agibilità politica tra i raid degli integralisti e la corruzione o l’opacità delle istituzioni.
Dalla fine di febbraio più di sessanta persone sono in sciopero della fame nella sede della Ligue tunisienne pour la défense des droits de l’Homme (LTDH), a Gabes, nel sud del paese. Si tratta di disoccupati da lungo tempo.
Protestano contro la loro situazione sociale, reclamano diritti tra cui il lavoro e una vita degna. L’UDC (l’Union des diplômés chômeurs) che sostiene gli scioperanti, chiede al governo ed alle autorità nazionali di assumersi le proprie responsabilità.
La disoccupazione, soprattutto giovanile, le condizioni durissime di lavoro delle donne rurali nel sud, restano lo specchio di un paese che sotto il governo di Ennahda non ha certo cambiato politiche economiche e che anche oggi con il governo guidato da Nida Tunes è perfettamente in linea con le politiche globali, in cui “crescita” significa riproduzione del sistema guidato dal capitalismo finanziario.
Da questo punto di vista anche la riconversione del debito di 25 milioni di euro, da parte del governo italiano, da investire in cooperazione, così come i milioni di euro concessi con tassi agevolati alle imprese tunisine, da un lato ammiccano agli interessi delle imprese italiane e dall’altro non sono certo vincolati ad una prospettiva di alternativa sociale e produttiva.
Un esempio: si potrebbe imporre la riduzione dell’inquinamento da parte delle industrie tessili che schiarendo i jeans colorano d’inquinamento la baia di Monastir e riattivare un turismo eco-compatibile dell’area. Oppure si potrebbe fermare la devastazione causata dall’industria estrattiva. Ma chi ha interesse ad imporre tali cambiamenti? Né il governo italiano, né gli altri paesi europei, né tanto meno il governo tunisino.
Uno sviluppo basato su giustizia sociale ed ambientale è tutto da conquistare poiché non c’è da aspettarsi che venga promosso dalle istituzioni o da chi agisce mosso da interessi economici o strategici in Tunisia, come in nessun altro luogo.
E’ a queste esperienze, così come alle lotte sociali che continuano a svilupparsi nelle cittadine e nelle regioni tunisine che bisogna guardare; consapevoli che si tratta di una sfida difficile, ma che può dare anche speranza. E non solo per il paese dei gelsomini.
L’organizzazione Human Rights Watch (HRW) ha pubblicato mercoledì scorso un rapporto nel quale critica i molti “guasti” del progetto di legge anti-terrorismo in discussione all’Assemblea dei Rappresentanti del popolo dallo scorso 25 marzo.
Stiamo parlando della legge che dovrebbe sostituire quella adottata nel 2003 da Ben Ali, ma che di certo non si distingue dalla precedente rispetto alla tutela dei diritti.
Nel rapporto si legge che questo progetto di legge “rischia di portare a forti violazioni dei diritti umani”.
Ecco gli aspetti che vengono sottolineati:
– si autorizzerebbe la polizia a “detenere le persone sospette per 15 giorni al massimo, con il semplice avallo di un procuratore e senza che la persona fermata compaia davanti ad un giudice (…). Durante questo periodo il sospetto non sarà autorizzato a comunicare né con l’avvocato né con la famiglia, aggravando così il rischio di torture”.
– si prevede la pena di morte per “chiunque sarà incolpato di atti di terrorismo”. Ricordiamo che la Tunisia osserva dal 1991 una moratoria sulle esecuzioni senza aver mai abolito la pena capitale.
– viene proposta una definizione “vaga e ambigua” del terrorismo che potrebbe condurre ad arbitrarietà da parte delle autorità. Il rapporto spiega infatti come questa definizione giustificherebbe la repressione ad esempio di una manifestazione pubblica che “possa nuocere” alla proprietà privata o pubblica, o che porti alla disorganizzazione dei servizi pubblici. Queste iniziative potrebbero essere identificate come atto terroristico.
– i giudici possono accettare prove da un testimone che può restare anonimo per motivi di sicurezza e di protezione dal rischio per lui o la sua famiglia. “Questa disposizione può portare a ledere il diritto di un accusato a difendersi vista l’impossibilità di contestare gli elementi di prova che gli vengono accreditati”.
– il progetto di legge violerebbe anche la riservatezza professionale degli avvocati, costringendoli a violare il segreto d’ufficio “in caso di questioni attinenti agli atti di terrorismo”. Ancora una volta una formulazione vaga può compromettere il diritto alla difesa.
*Articolo originariamente pubblicato sul sito di Ya Basta Caminantes.
April 19, 2015di: Associazione Ya Basta Caminantes*Tunisia,
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