“Io voglio continuare a dissociarmi dal potere, noi blogger, siamo liberi e abbiamo rifiutato di unirci in un’associazione”. Lina Ben Mhenni, una delle protagoniste della prima rivoluzione della storia compiuta al computer, non crede nei metodi dei partiti che ‘passano tutto il tempo in riunioni e conferenze’, lei deve continuare il suo lavoro perché, dice: “Il lavoro di un blogger non si ferma mai!”.
di Bibi Trabucchi, da Tunisi*
“Sidi Bouzid brûle”, questo fu il grido d’inizio quando Muhammed Bouzizi si dette fuoco in quel villaggio della Tunisia dimenticato dagli uomini e da Dio.
E poi di blog in blog, la ‘Primavera’ è esplosa.
Ora si guarda al futuro. Ma i blogger spinti a gran voce a entrare in politica, non ne vogliono sapere, per loro un solo desiderio: inserire nella nuova Costituzione un articolo che garantisca la libertà di accesso a Internet.
Hanno vinto i giovani che invocavano: ” Libertà, giustizia e dignità”, hanno vinto i partiti islamici oppressi dal Governo di Ben Ali.
“Une autre Tunisie est possible?” E’ il titolo di un dibattito che si è tenuto a Tunisi nei giorni scorsi. Attivisti della società civile, tunisini, africani ed europei, hanno affrontato il nodo cruciale della post-rivoluzione, la questione dei debiti onerosi contratti da un regime dittatoriale e corrotto.
Un debito pubblico enorme, che non permette ai tunisini di vedere miglioramenti nella loro vita, neppure in un futuro prossimo.
Intanto cambia il costume. Sulla centralissima avenue Bourguiba a Tunisi, città cosmopolita, si incontrano sempre più spesso barbuti in djellabia afghana con al seguito donne velatissime.
Sempre più fanciulle indossano l’hijab e si vedono anche molti guanti e calze, nonostante i 40° all’ombra.
Sulle stesse spiagge affollate di turiste in bikini cambiano gli scenari. Tra le bagnanti si aggirano i “barbus” che scrutando tra la folla imbarazzano non poco le donne stese al sole.
Ma anche la moda coglie subito i cambiamenti e così ecco che nasce il “Burkini”, una sorta di tre pezzi che consente alle adepte del “nikab” e “hijab” di bagnarsi.
Ora nelle campagne si indossa il foulard in cambio di un po’ di dinari, ma soprattutto qui si inizia a praticare l’Orf, matrimonio a tempo, previsto dall’Islam.
Bastano due testimoni, si legge la “Fatiha” e il gioco è fatto. Si può avere una moglie e sposarne un’altra anche per poche ore. Il problema è che secondo le leggi tunisine, ora in vigore, tutto ciò è illegale.
C’è quindi il serio rischio che la rivoluzione tunisina porti a una regressione, ai danni delle donne, del codice di famiglia, uno dei più avanzati del mondo musulmano.
Dall’abolizione della poligamia all’aborto libero, fino allo studio: conquiste del padre dell’indipendenza Bourguiba, tiranno sì, ma a differenze di Ben Ali, illuminato e colto.
Nella nuova Tunisia sono rientrati dall’esilio tutti gli uomini di Ennahda, partito islamico, che all’origine si è ispirato ai Fratelli Musulmani egiziani, perseguitati da Ben Ali, e che ora ha trovato terreno fertile in un paese alla ricerca di una nuova identità.
E proprio in questi giorni il partito si è riunito a Tunisi per il suo primo congresso, dopo anni di clandestinità. In cinque giorni di dibattiti si sono delineate le linee guida di un partito che si dichiara “moderato”.
Intanto, dopo aver affermato a una tv francese, “La democrazia è la mia shari’a”, il primo ministro Hamadi Jebali haannunciato trionfalmente l’arrivo del ‘VI Califfato’.
Ma la Tunisia rischia davvero di trasformarsi in uno Stato islamico o per meglio dire in un Califfato?
In Tunisia esiste una Costituzione dal 1959, entrata in vigore tre anni dopo l’indipendenza del paese avvenuta nel 1956.
Si tratta di una Costituzione laica e moderna, che ha permesso a Tunisi di riconoscere il diritto di voto alla donna soltanto 13 anni dopo rispetto all’Italia.
Oggi però le forze islamiste chiedono una nuova carta basata sulla shari’a.
Nelle elezioni per l’Assemblea costituente il partito Ennahda ha conquistato oltre il 40% dei seggi. Sommati agli altri partiti islamisti (tra cui “Tahrir”, solo il 5 % ma molto agguerrito) hanno il 60% dei parlamentari a fronte di una minoranza di liberali.
E mentre i membri eletti stanno scrivendo la Costituzione, che dovrà quindi passare al vaglio del referendum, i salafiti sembrano impegnati in una vera e propria islamizzazione della società tunisina.
Il primo segnale risale ai giorni caldi della rivoluzione, quando i barbus entrarono nella facoltà di letteratura e arti dell’Università di Tunisi e ammainarono la bandiera tunisina issando al suo posto il vessillo nero con scritte islamiche.
“Come possiamo restare moderni, pur nel rispetto delle nostre tradizioni, con una teocrazia tirannica?” scrive Lamia Karray in “Révolution et aprés?”.
Intanto la Tunisia, soffocata dai suoi circa 15 miliardi di euro di debito con l’estero (cifra valutata nel 2010 dalla Banca mondiale), di cui ben oltre la metà è imputabile al regime Ben Ali, non vede migliorare le condizioni di vita e il numero dei disoccupati, che tocca più del 70% della popolazione attiva, continua a crescere.
Però arrivano anche i prestiti, la cui origine è un chiaro segnale politico.
L’Arabia Saudiata ha appena versato 350.000 milioni di dinari tunisi per tre progetti: la costruzione di una centrale elettrica, impianti per il gas naturale e per la modernizzazione della formazione professionale.
Un debito da restituire in 20 anni a un tasso d’interesse del 2%.
Questo mentre il Qatar, non pago dei suoi deserti investe in quelli tunisini. La Qatari Diar Real Estate Investment Company porterà un turismo a cinque stelle nel sud del paese.
Ottanta milioni di dollari, che si materializzeranno nel 2015, con un resort da 60 suite, spa, negozi e ristoranti tra le palme e i cammelli di Tozeur, la città cara a Battiato.
C’è chi dice che in fondo i salafiti sono arrivati al potere perché sono stati finanziati dal Golfo (Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita), con l’assenso degli Stati Uniti.
“Meschina Tunisia” potrebbe cantare Manu Chao, perché i problemi non finiscono qui.
A Gafsa e in tutto il sud –ovest del paese continua a mancare l’acqua, mentre prosegue l’emergenza spazzatura.
“L’assenza totale di strutture adeguate per la gestione dei rifiuti urbani è un’eredità sciagurata alla quale il governo di Hamadi è costretto a far fronte”, spiega Giacomo Fiaschi, che da 20 anni vive e lavora in Tunisia e più volte ha denunciato al ministero della Sanità la drammatica situazione.
Ovunque esistono discariche a cielo aperto dove i rifiuti vengono inceneriti semplicemente bruciandoli. Di conseguenza l’aria è irrespirabile e l’inquinamento minaccia di raggiungere livelli incredibili.
La pesante eredità di anni di malgoverno disegnano una transizione tunisina che si annuncia tortuosa, difficile e lunga. E in molti temono che si vanifichino le lotte fatte per la dignità, la giustizia ed i diritti umani.
Sono soprattutto le donne che vogliono che lo Stato sostenga la loro dignità e il loro valore, e adotti leggi, politiche e strategie che traducano queste parole in risultati tangibili.
Donne che si aspettano processi trasparenti ed inclusivi, che consentano alla loro voce di essere ascoltata e che le opinioni espresse siano prese sul serio.
Vogliono dibattiti pubblici e un governo responsabile e affidabile che si occupi di diritti umani e di giustizia sociale.
In altre parole, partecipazione, responsabilità e giustizia, ed equità sono le loro richieste, non negoziabili.
Molte sono le associazioni femminili, un panorama eterogeneo che a volte evidenziano legami con il vecchio regime. E’ il caso di LTDH (“ Ligue tunisienne des drois de l’Homme”, fondata nel 1977): Souade, la coordinatrice assicura la sua autonomia e che la sua Associazione continuerà a difendere la libertà e i diritti conquistati.
Jouine invece fa parte di ATFD (Association Tunisienne des Femmes Démocrates), un gruppo nato nel 1989. “Il nostro è un movemento femminista autonomo – spiega con ostentata sicurezza – che combatte per l’uguaglianza tra uomo e donna e nel 1993 abbiamo anche creato un Centro d’ascolto per tutte le donne vittime di violenze, il CEOFVV (Centre d’Écoute et d’Orientation des Femmes Victimes de Violences)”.
Non manca un centro di ricerca, l’AFTURD (Association de la femme tunisienne pour la recherche et le developement Tunis) che si batte per una nuova Legge di assoluta parità.
Zohra insegna inglese ed è la rappresentante di Doustourna: “Noi tutte crediamo nella società civile. E crediamo fermamente che il nostro posto sia in seno all’Assemblea per scrivere una nuova Costituzione”.
Comunque ama aggiungere che la Tunisia è un paese islamico e anche la libertà di culto è un diritto irrinunciabile per un popolo.
Sono tutte donne energiche, combattive e senza timori; distribuiscono adesivi che inneggiano alla libertà e all’emancipazione delle donne.
Li distribuiscono chiedendo a tutti di indossarli per sostenere la loro giusta causa. Nessuna ha il velo e il loro abiti sono multicolori e oramai, visto il panorama, quasi trasgressivi.
Ma c’è anche chi combatte con le stesse armi dei salafiti. Nelle librerie spicca un libro nero con la firma di una donna vergata in rosso, quella di Lamia Karray, dottorato in ingegneria, che si cimenta in: “Le hijab”.
Con un attento studio del Corano, mostra come l’uso del velo sia legato più alla tradizione che ai precetti islamici.
Infatti il sottotitolo dell’opera recita: “Il velo, dovere islamico o costume preistorico?”.
Perché il velo, di origine sumera, nato quindi ben 4.000 anni fa, ha un significato sociale, e non religioso.
Analizzando i tre nomi utilizzati nel testo sacro del Corano, hijab, jilbab e khimar, Lamia Karray cita gli otto versetti in cui si parla del velo ma mai per indicare il foulard che copre i capelli.
Una sola volta c’è un versetto in cui si invitano le fedeli a coprire il loro décolleté.
E nel frontespizio dell’opera ecco una provocazione, cita la sura 17 del Corano (Il viaggio notturno) dove al versetto 17 c’è un chiaro invito allo studio e all’uso del cervello: “Non seguire ciò che non conosci”.
Un messaggio chiaro che invita tutti, salafiti in testa a una riflessione!
* Un ponte per…
July 23, 2012
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