Entro la fine del 2013, il Grande Progetto Anatolico modificherà irrimediabilmente l’ambiente e la cultura del Kurdistan turco, spazzando via 5 mila anni di storia. Ad Hasankeyf, la Diga Ilisu determinerà lo spostamento di 60mila persone e la fine dell’ecosistema delle Marshes (paludi) tra i corsi d’acqua del Tigri e dell’Eufrate, culla di una civiltà millenaria.
di Andrea Camboni
“Adalet ve Kalkınma”. Giustizia e Sviluppo. Le due chimere, che continuano a scontrarsi tra le pieghe del sistema economico-finanziario del nuovo millennio, rappresentano puntualmente la parabola di una Turchia stretta nella dicotomia tra la spregiudicata negazione dei diritti civili, politici, sindacali e l’aspirazione all’integrazione europea.
Non a caso, la formazione politica fondata dal premier turco Erdogan vede la luce proprio all’indomani della recessione che colpisce il paese tra il 1999 e il 2001.
Partito giustizia e sviluppo (Akp), appunto. Ma entrambe le promesse – nonostante l’ambizioso programma elettorale dal titolo “La Turchia è pronta”, presentato da Erdogan alla vigilia delle elezioni del maggio 2011 – proseguono il loro percorso nell’ambiguità di una linea guida di governo che promette da una parte l’ampliamento delle libertà politiche e una maggiore efficienza giudiziaria mentre, dall’altra, vara nuove norme nel segno di ulteriori restrizioni nei confronti dei siti web.
Come quella riservata ad Halil Savda, attivista per i diritti umani condannato a 100 giorni di carcere per aver “allontanato l’opinione pubblica dall’istituzione del servizio militare”, o ai giornalisti Ahmet Sik e Nedim Sener, incriminati per appartenenza all’organizzazione sovversiva Ergenekon mentre indagavano su presunti abusi dei diritti umani da parte di funzionari turchi.
O ancora, come la documentarista Carlotta Grisi, espulsa dal paese dopo aver girato un reportage nella cittadina di Hasankeyf.
Nelle 156 pagine del programma elettorale dell’Akp, Erdogan indica anche la strada di un nuovo sviluppo economico di lungo termine (“Obiettivo 2023”) che parte da un imponente piano di opere infrastrutturali da realizzarsi principalmente nelle città di Ankara e Istanbul.
In particolare, per quanto riguarda la capitale, i progetti prevedono la creazione della “nuova Città del Sud” (Güneykent) come soluzione al problema della crescita di popolazione.
Magari quella popolazione costretta dalla pressione militare o dalla depressione economica ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi per lasciare il posto al cemento dell’imponente piano idrico denominato Gap-Grande Progetto Anatolico (valore complessivo 32 miliardi di dollari), che ha preventivato la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche nel sud-est della Turchia.
Un progetto avviato negli anni ’70, ma che ha ripreso vigore soprattutto negli ultimi due anni, a partire dalla dichiarazione del premier turco di voler continuare il progetto anche senza il sostegno finanziario estero, per quanto non manchi l’apporto finanziario di imprese europee ( tra cui l’austriaca Andriz AG e le svizzere Stucky, Colenco, Maggia).
Hasankeyf è uno dei molti ‘danni collaterali’ di questo nuovo corso impresso dall’Apk all’economia e alla società turca.
Se per alcune popolazioni “sviluppo” significa vivere in armonia con l’ambiente circostante, per il governo di Ankara la produzione di energia a basso costo (essendo la Turchia dipendente dalle importazioni di idrocarburi per soddisfare il proprio fabbisogno energetico) rappresenta il giustificato motivo per attivare processi di sfollamento e reinsediamento della popolazione che vive lungo le rive del Tigri, dell’Eufrate e dei loro affluenti.
La città di Hasankeyf, situata su un pianoro che si affaccia sulla valle del Tigri, è l’emblema di questa strategia ad excludendum.
Situata vicino ai confini con la Siria e con l’Iraq, la zona di Hasankeyf è stata scelta dal governo turco per la costruzione della diga Ilisu, la più grande dopo la diga di Ataturk, in cantiere dalla metà degli anni Novanta.
Tuttavia, il consorzio privato che , senza alcuna gara di appalto internazionale, si occuperà della costruzione della diga, non ha svolto alcuna consultazione a livello locale.
Eppure il progetto coinvolgerà 50/60.000 persone senza l’assicurazione di un risarcimento adeguato a fronte dell’abbandono delle proprie terre, del proprio lavoro, della propria vita.
Garanzie che certamente non vengono annoverate tra i risultati di uno studio dell’associazione non governativa “Berne Declaration”.
Il progetto della Diga Ilisu, infatti, violerebbe per 18 volte 5 politiche operative della Banca mondiale, relative alla valutazione d’impatto ambientale, al reinsediamento forzato, alla gestione del patrimonio culturale, alla consultazione pubblica, all’accesso all’informazione.
Per Erdogan, invece, “la Diga Ilisu è stata un’opportunità per salvare Hasankeyf e preservarla per le generazioni future, non per demolirla”.
“Hasankeyf diventerà un distretto costiero che attrarrà turisti da tutto il mondo”.
Nessuno, infatti, demolirà Hasankeyf, già tutelata da un decreto del ministero della Cultura turco del 1978.
Sarà semplicemente sommersa da 30 metri di acqua insieme ad altri 185 villaggi insistenti su un’area di 313 kmq.
Un disastro archeologico ed ecologico dal costo di 1,52 miliardi di dollari per la produzione di circa 3.800 GWh l’anno di energia, appena il 2,3% del fabbisogno nazionale di elettricità.
Quanto basta per spazzare via 5 mila anni di storia.
Ma se il passato sarà compromesso per sempre, con il progetto della diga – la cui ultimazione è stata anticipata dal 2016 alla fine del 2013 – verrà compromesso irrimediabilmente anche il futuro del territorio e del suo ecosistema composto da 123 specie, tra flora e fauna, che rischiano l’estinzione.
A causa del bacino di contenimento generato dalla diga Ilisu, infatti, si innescheranno processi di eutrofizzazione delle acque e di inquinamento da rifiuti solidi urbani e sostanze chimiche utilizzate per l’agricoltura intensiva nella regione che comprometteranno il processo di rigenerazione naturale delle acque del Tigri.
Senza contare che le acque stagnanti contribuiranno alla salinizzazione dei terreni e all’aumento esponenziale dei casi di malaria e leishmaniosi legate alla presenza di acqua in zone a clima arido.
Un territorio prossimo alla distruzione che, al contrario, dovrebbe essere classificato “Patrimonio mondiale dell’umanità”, in quanto Hasankeyf risulta essere uno dei centri abitati più antichi nella storia dell’uomo e luogo nel quale hanno lasciato la propria testimonianza Romani, Parti, Bizantini, Sassanidi, Mongoli, Assiri e gli antichi Medi, antenati della popolazione curda che attualmente vive nella zona.
Nel 2009, Doga Dernegi (Associazione per la Natura), Ong attiva in Turchia, ha presentato al ministro della Cultura e del Turismo turco un rapporto che punto per punto dimostrava come la Valle del Tigri e Hasankeyf rispondessero perfettamente a 9 dei 10 criteri stabiliti dall’UNESCO per i luoghi da inserire nel Patrimonio mondiale dell’Umanità.
Per entrare nella lista ne è sufficiente 1.
Una richiesta alla quale attivisti iracheni, turchi, iraniani, internazionali – con la collaborazione della italiana Un ponte per… – si sono associati con una campagna di raccolta firme da girare al governo iracheno per trasformare, entro il giugno del 2013, Hasankeyf e le paludi mesopotamiche (Marshes) in Patrimonio dell’Umanità, con l’obiettivo di sospendere i lavori della diga Ilisu fino alla realizzazione di uno studio indipendente sui danni ambientali, sociali ed economici prodotti dalla sua costruzione.
Una battaglia per la sopravvivenza delle popolazioni del Kurdistan del nord organizzatesi dal 2006 in un eterogeneo movimento denominato “Iniziativa per mantenere in vita Hasankeyf” che ha registrato l’adesione di 70 realtà locali tra municipalità, organizzazioni professionali e associazioni.
La massiccia adesione della società civile locale curda ha determinato nei paesi coinvolti nel finanziamento al progetto (o che ne sono usciti per tempo) la nascita della Campagna internazionale contro la Diga di Ilisu che vede in prima linea organizzazioni come Civil Development Organization (Iraq), Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, Nature Iraq (Iraq), People of Iraq Campaign To Save the Tigris (Iraq), Center for Sustainable Development (Iran)e Un ponte per… (Italia).
Un ultimo punto riguarda la produzione del documentario “This was Hasankeyf”. Un progetto ideato da tre ricercatori italiani, che vogliono raccontare la distruzione di Hasankeyf e la nascita di una nuova città senza storia.
Ma per raccontare questa, di storia, servono dei fondi per finanziarne la produzione nel modo più indipendente possibile.
Perché Hasankeyf, la sua storia, i suoi volti, le sue battaglie meritano di essere raccontate.
November 26, 2012
Iran,Iraq,Siria,Turchia,Articoli Correlati:
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