La regista iracheno-libanese Parine Jaddo racconta il suo viaggio in Iraq, alla ricerca delle parole di una canzone. Il suo primo lungometraggio “Broken Record” è un pellegrinaggio attraverso le rovine di un patrimonio culturale e musicale che la guerra ha bruciato o distrutto.
di Ylenia Gostoli
Incontro Parine Jaddo in un bar di Brick Lane, a Londra, dove la regista si trova in occasione dell’anteprima non ufficiale del suo documentario, Broken Record. Qualche giorno fa segnava il decimo anniversario dell’invasione dell’Iraq.
Mi accorgo che la memoria del mio registratore digitale è piena e mentre cerco qualcosa da cancellare, Parine finisce frettolosamente la colazione, condividendo i suoi programmi per la lunga giornata che ha davanti. “Hai una copia di quello che stai cancellando?” mi chiede.
Le rispondo di no, che sto eliminando solo vecchie registrazioni che non mi servono più. “Non dovresti cancellare nulla di cui non hai una copia, ” mi risponde, “anche se adesso ti sembra di poca importanza.”
Quando Parine era bambina, il padre finì sulla lista nera del partito baathista e l’intera famiglia dovette lasciare l’Iraq per trovare rifugio in Libano. Allo scoppio della guerra civile libanese – a metà degli anni Settanta – tornarono in Iraq, dove Saddam Hussein aveva annunciato l’amnistia per i rifugiati politici “accusati” di comunismo, come parte della sua strategia politica. Ormai ventenne, Parine decide di lasciare il paese per spostarsi prima in Libano e poi negli Stati Uniti.
In Iraq molti dei miei amici sparivano, dal giorno alla notte. Una sera ti trovavi con qualcuno a una festa, a ballare i Pink Floyd, e il giorno dopo non sapevi che fine avesse fatto. Erano i tempi in cui Saddam forzava intere comunità sciite al confine iraniano.
Ancora oggi quando mi chiedono ‘dove vivi’…, la regista esita per un momento, cercando di trovare le parole giuste: “Ci penso un attimo prima di rispondere. In realtà sono un po’ dappertutto”.
Oggi Parine divide il suo tempo fra Beirut e l’Iraq, dove nel 2008-09 gira Broken Record, un viaggio evocativo e personale attraverso il paese e la storia familiare della regista-protagonista, alla ricerca di una canzone turcomanna che sua madre registrò con il complesso di musica tradizionale dei suoi fratelli negli anni Sessanta.
Il viaggio si svolge fra Baghdad e Kirkuk, città multietnica del nord, dove convivono arabi, curdi e turcomanni. Ricca di giacimenti petroliferi, Kirkuk si trova al centro di uno scontro fra il governo centrale iracheno e la regione autonoma curda ed è teatro di frequenti attacchi, ultimo dei quali un camion bomba contro il quartier generale della polizia, che ha provocato 33 morti e più di 90 feriti lo scorso 3 febbraio 2013.
Attraverso immagini di archivio e interviste a membri della famiglia della regista, musicologi, archivisti, giornalisti e residenti, il film ripercorre la storia musicale turcomanna (la terza minoranza etnica dell’Iraq) e ritrae un paese dalle sfumature storiche complesse, mettendo in discussione l’immagine purtroppo comune di un paese dominato da un confessionalismo radicato ad-infinitum nella sua cultura.
Nel film intervisti una giornalista di Baghdad che perse 30 anni di lavoro quando l’ufficio del suo giornale fu colpito da un attacco nel 2003, distruggendone gli archivi. Durante l’intervista dice: “Forse è possibile costruire una nazione dalle ceneri; ma riportare in vita arte, scrittura e musica dalla cenere, questo è impossibile”. Questa frase sembra rinchiudere il significato del tuo viaggio, alla ricerca di una copia introvabile della registrazione di una canzone che tua madre cantava da giovane.
Fare qualcosa per preservare gli archivi che abbiamo è imperativo. Quando nel 2003 le truppe della coalizione entrarono in Iraq, tutto ciò che fu distrutto o bruciato andò perso. Manoscritti originali, redatti a mano, bruciati.
Come si fa a riportarli indietro? Non erano stati scannerizzati. Archivi musicali, bruciati. Erano tutti in analogico, senza copie. E via dicendo. Se la mia cultura non va persa finché rimango in vita, svanirà per la prossima generazione, o quella successiva, se non protetta. Tutto questo fracasso per commemorare il decimo anniversario dell’invasione. Piangendo la morte di mia madre, rimpiango anche le tante altre perdite.
Il viaggio che intraprendo nel documentario è molto personale. Mentre sei alla ricerca della registrazione, che finalmente trovi nel seminterrato di una casa di famiglia, cerchi allo stesso tempo di risolvere un enigma: quello di una donna con un vestito rosso.
[Nel letto di morte di mia madre] avevo un piccolo taccuino dove prendevo nota di tutto quello che succedeva. A un certo punto sussurrò “vestito rosso”.
Lo scrissi sul taccuino, sebbene non ne capissi il significato. Durante le riprese del film, continuai a parlarne con chiunque incontrassi, e come hai visto nel film, tutti mi davano spiegazioni diverse. Poi mentre svolgevo le mie ricerche di archivio, trovai una canzone di Maeda Nazhat, una Billie Holiday irachena, intitolata “Ls donna dal vestito rosso”.
Era una canzone molto famosa, e durante gli anni di Abd al-Karim Qasim questa donna dal vestito rosso della canzone venne a simboleggiare il partito. In anni successivi, il colore rosso essendo associato al comunismo, si dovette cantare di una “donna dal vestito verde”. Per me quella era una pista importante poiché l’ingiusto esilio di mio padre sconvolse completamente la vita di mia madre.
Tuo padre finì nella lista nera del partito baathista dopo il colpo di stato del 1963. Che cosa ricordi di quei tempi?
Per tutta la mia vita ho sempre pensato che mio padre fosse comunista – è la ragione per cui il suo nome finì nella lista nera. Questo rimase sempre e comunque un argomento taboo, di cui non si poteva discutere a casa.
Essendo turcomanno, non era un nazionalista arabo, e al tempo chiunque non fosse nazionalista arabo era considerato comunista. Mi ricordo che mia madre era una donna alla moda, elegante. Sembrava una star di Hollywood. Improvvisamente questa donna, una maestra di scuola, una delle prime generazioni di giovani donne professioniste in Iraq, rimase sola con cinque figli.
Era tua intenzione, attraverso il film, rivelare il contrasto che esiste fra l’attuale posizione delle donne nella società irachena e negli anni Cinquanta?
Quando mia madre sposò mio padre, la sua unica condizione fu quella di togliersi il velo. La generazione dei miei genitori fu testimone di un liberalismo che oggi abbiamo perso, anche – e specialmente – dal punto di vista legale.
Per esempio, se dovessi ereditare oggi, prenderei la metà di quanto spetterebbe a mio fratello. Ci sono delle importanti questioni da affrontare per quanto riguarda i diritti delle donne. Ma il mio scopo è di evidenziare la sofferenza di tutti gli iracheni, uomini e donne.
Che cosa può aspettarsi una donna che viaggia attraverso l’Iraq con una cinepresa, in un periodo di estrema instabilità?
A volte la gente pensa che sia pazza, che deve essere tremendo e via dicendo. Non è solo il fatto che sono una donna: sono una donna che non porta il velo. Ti dirò una cosa: a volte l’ho usato a mio vantaggio, facendo finta di essere una turista mentre in realtà stavo girando il film. Non sarei mai riuscita a fare quello che ho fatto se fossi stata un uomo ventenne, per esempio.
Quali sono a tuo avviso i cambiamenti principali che l’Iraq ha subito dal 2003?
Baghdad è cambiata fisicamente. Camminando per la città, si vedono solo le mura anti-esplosione erette ai lati della strada. Non hai accesso visivo a ciò che c’è al di là del cemento armato.
Queste, ci dicono, sono per la nostra protezione. Blocchi stradali dappertutto. Una distanza che si potrebbe coprire in venti minuti richiede tre ore. Le strade sono piene di buche. Se hai un blocco stradale di fronte a te, vedi macchine che fuggono in tutte le direzioni.
Non puoi immaginarti il subbuglio che tutta questa distruzione ha causato: alla cultura, alla città, da un punto di vista visivo e da un punto di vista funzionale. Basti pensare che in un paese ricco di risorse come l’Iraq l’accesso all’elettricità rimane un problema.
Le mura anti-esplosione di Baghdad furono erette allo scopo di proteggere gli edifici ufficiali, e in seguito, con l’inasprimento della guerra civile, andarono a circondare interi quartieri e a segregarne le comunità. Alcuni di questi muri di cemento sono oggi adornati di graffiti. Quale è il ruolo dell’arte in un conflitto?
Certo che c’è un ruolo per l’arte. Non faccio politica, ma le mie opere portano alla luce le ingiustizie, laddove sono presenti. Il ruolo dell’artista è di evidenziare i problemi, non di trovare soluzioni. Il tessuto sociale iracheno oggi è devastato. E non solo l’arte e la musica, ma le relazioni umane nella loro totalità.
Quando la tua rappresentazione artistica si concentra su una particolare comunità, la speranza è che questo contribuisca a far diventare quella comunità parte integrante dell’identità del paese. Turcomanni, arabi, curdi e assiri possono vivere fianco a fianco, come un tempo.
Diresti dunque che la motivazione principale che ti ha spinto a girare questo film sia stata quella di rappresentare la cultura turcomanna sullo schermo?
Lo scopo del film è di rivisitare chi siamo e quello che ci è successo. A tutti noi. Il caso vuole che io sia turcomanna. E per questo, ringrazio mia madre per avermi dato una voce. La sua voce mi ha dato voce. Il caso vuole che sia turcomanna.
March 31, 2013
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