Diario (alternativo) dall’altro Iraq. Di ritorno

Di rientro in Italia per un breve periodo di pausa, l’Iraq è rimasto in valigia. E’ in ogni risposta ad ogni domanda che mi fanno. La buona notizia è che ad ascoltare cosa sia “l’altro Iraq” c’è anche “l’altra Italia”: quella che non si fida dell’esperto improvvisato di turno, che si sforza di ricercare e capire.

Perché l’Isis vuole avanzare verso nord? Ci sono una cultura, un sapere, una tradizione ben evidenti nel tuo lavoro quotidiano in Iraq contrariamente a quanto ci viene mostrato? Come e dove vivono gli sfollati? Perché secondo te la gente parte da qui per andare a combattere in Iraq o in Siria con l’Isis? Cosa si può fare nel medio-lungo termine per fermare tutta questa violenza? Cosa mangi e come vivi “lì”?”.

Domande, semplici o difficili che siano, che mi capita spesso di ricevere di questi tempi.

Di rientro in Italia per un breve periodo di pausa, l’Iraq è rimasto in valigia.

Non solo per la rete di relazioni e conoscenze che in poco meno di tre mesi una persona con capacità media di interazione riesce a costruire – le foto, gli auguri, i messaggi di saluti per telefono o su Internet tra Iraq e Italia.

Ma anche, e in particolare, per la curiosità delle persone che sto avendo la fortuna di incontrare in questi giorni.

Di fronte a un aperitivo, in una libreria, a pranzo con famiglia e amici, di fronte un té o un caffé. Oppure banalmente allo sportello dell’ufficio passaporti, dalle Poste o al forno. A Brescia, Bergamo, Roma, Vasto o Gissi (in provincia di Chieti) questo tipo di curiosità è una costante che mi sta accompagnando e che fa sì che l’Iraq sia spesso nei discorsi e nei pensieri.

Non c’è ovviamente soltanto l’Iraq. C’è inevitabilmente anche Parigi, Charlie Hebdo, la libertà di espressione. Ci sono Vanessa e Greta, le due Simone, l’Islam e il Cristianesimo. E quasi sono scomparsi, d’altro canto, gli Ezidi, Mosul e Sinjar.

Colpa dei tempi, sembrerebbe. Gli accostamenti tra un concetto e un termine radicalmente diversi in queste settimane pare stiano caratterizzando sempre più i media e i discorsi comuni. La confusione regna e la reazione può essere anche diversa dalla curiosità.

C’è, da un lato, il rischio di respingere qualsiasi possibilità di conoscere argomenti nuovi o, peggio ancora, di accogliere tutto il flusso di parole e opinioni come un frullato di banalità e informazioni non corrette.

Cerco di non interrogarmi troppo sulle cause e sulle responsabilità di una simile confusione.

O meglio, le ragioni appaiono evidenti dal punto di vista di chi, per lavoro e per passione, ha la possibilità di relazionarsi ogni giorno con “l’altro”, e sa che per fare questo occorre non farsi prendere dalla fretta e dall’ansia. Quella fretta e quell’ansia che generano paura, sentimenti alquanto diffusi nei telegiornali alle varie latitudini mediatiche di questi giorni.

Per questo constatare che non ci sono solo questi, di sentimenti, tra coloro che volenti o nolenti si approcciano all’informazione su quanto sta accadendo, ad esempio in Iraq, è una buona notizia.

E’ una buona notizia perché vuol dire che la voglia di studiare, di conoscere e di approfondire non è un fatto marginale. Soprattutto, emerge che il non fidarsi di un solo tipo di informazione, opinione o verità non è qualcosa che appartiene non necessariamente a specialisti, esperti, studiosi e giornalisti “d’area”.

Fermarsi a parlare per oltre due ore delle ragioni per cui una certa cultura e un certo popolo si chiami “ezida” e non “yazida”, ricordare che Isis, Is, Daesh o Stato Islamico non sono un fenomeno nato dal nulla la scorsa estate, significa che c’è la volontà di capire.

E’ successo ieri sera a Bergamo, nell’ambito di un incontro organizzato dal comitato locale di Un ponte per… in una piccola libreria che a fatica riusciva a contenere le 60-70 persone che vi hanno partecipato.

E’ accaduto giovedì a Brescia, in una conferenza organizzata dall’Osservatorio Permanente delle Armi Leggere (OPAL), che con uno straordinario lavoro di ricerca ci fa conoscere come non poche industrie italiane esportino armi di prima qualità in tutto il mondo. Accade per fortuna ogni giorno, in circostanze più o meno formali.

E’ strano, ne rimango comunque ancora sorpreso.

I Sumeri, I Babilonesi, gli Assiri e la Mesopotamia sono popoli e luoghi che permangono ancora in tutti i sussidiari su cui tutt’ora ragazzi e ragazze delle scuole elementari leggono e studiano.

C’è anche un misto di rabbia e stupore nel realizzare che per fermarsi a parlare e discutere in questo modo di simili argomenti occorrano nuovi morti, nuove violenze e un’ennesima crisi che continua sconvolgere milioni e milioni di persone.

D’altronde, è pur vero che la storia in Iraq non ha insegnato molto e che continua a ripetersi.

Tuttavia, sensazioni positive prevalgono e lasciano un sorriso.

Raccontare l’altro Iraq dopo che lo si scopre ogni giorno e dietro ogni persona e angolo del paese è ancora più bello se può servire a questo. A trasmettere l’importanza di fermarsi, farsi delle domande, e realizzare che la frenesia e l’immediatezza non sempre sono la giusta risposta.

Ad ascoltare cosa sia l’altro Iraq evidentemente c’è anche un’altra Italia.

Quella intelligente, capace di ragionare con la propria testa e che si sforza di ricercare. Ignorando il sermone e l’opinionista esperto e improvvisato di turno, le cui idee attecchiscono anche, ma evidentemente non fanno effetto su tutti.

*Stefano Nanni, nostro corrispondente dall’Iraq, si trova attualmente a Dohuk come operatore umanitario di Un ponte per… Le altre puntate del suo diario si trovano qui.

January 18, 2015di: Stefano Nanni Iraq,

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