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Yemen. Perché questo non è un conflitto settario

“Questo è un conflitto settario”: è così che generalmente i media liquidano la situazione in Yemen, per districarsi nella complessità del paese. Ma le cose non stanno esattamente così. L’analisi di Laura Silvia Battaglia per Osservatorio Iraq.  

 

 

di Laura Silvia Battaglia – A circa un mese dallo sviluppo della crisi yemenita, per districarsi nella complessa realtà di un paese a composizione tribale, con un paio di governi succedutisi nell’arco di 35 anni, entrambi abbastanza lontani dal soddisfare le esigenze della popolazione, nonché la fortissima ingerenza internazionale e delle sigle terroristiche sul terreno, in genere i media non trovano di meglio che liquidare ciò che risulta loro incomprensibile con la frase: “questo è un conflitto settario”.

Lo Yemen, con l’evidenza di gruppi armati che si contendono il controllo del territorio, a volte interposti, a volte sovrapposti all’esercito governativo regolare e/o alle tribù che compongono il tessuto sociale nella sua reale articolazione, sembra attualmente un crocifisso che si agita tra la conservazione della sua anima maggioritaria sunnita e la necessaria acquisizione di una seconda anima sciita.

Come un moribondo che non abbia scelta, lo Yemen viene letto come uno Stato “imploso”, il regno del “caos”, l’esempio del “fallimento transizionale”, la sempiterna “tana di Al Qaeda” ma soprattutto, il luogo-quintessenza del plurisecolare conflitto “sunniti-sciiti” dove, in controluce, si agitano l’Iran da una parte e l’Arabia Saudita dall’altra, con gli Usa che, come al solito, non stanno a guardare e inviano droni.

Vorremo cercare di spiegarvi che le cose non stanno esattamente in questi termini e che è possibile fornire una lettura complessa di quanto accade nel paese, senza che essa risulti ostica e/o incomprensibile.

Va fatta una premessa: dopo la cosiddetta Primavera araba, i tre anni di transizione, che si sarebbero dovuti concludere con elezioni democratiche nel febbraio 2014, hanno evidentemente fatto acqua da tutte le parti.

Il cosiddetto “modello yemenita” di risoluzione della crisi, tanto portato in palmo di mano da Obama, dalla UE e da tutti gli attori che hanno favorito e incoraggiato la Conferenza per il Dialogo Nazionale, non ha avuto l’esito sperato.

Perché la società tribale yemenita ha una sua complessità, certo, ma soprattutto perché si è riproposto il solito, annoso problema: ossia la concentrazione del potere e dei privilegi in poche mani, quelle del neo presidente Hadi e quelle della famiglia al-Ahmar che, unita al debito pubblico del paese nei confronti del Fondo Monetario Internazionale e del vicino saudita, lo hanno sprofondato in una crisi economica seguita da ulteriore scetticismo nei confronti di chi era preposto a risolverla.

Se l’esito è stato nullo, rispetto alla prevista “roadmap”, il processo ha avuto un merito: quello di interessare alla politica una generazione che nel febbraio 2011 era andata in piazza e che oggi, durante le sedute di masticazione del qat o nei giochi di quartiere tra ragazzini, parla di democrazia, giustizia, Conferenza per il Dialogo Nazionale.

E se si inerpica in discorsi in cui viene menzionata Al Qaeda o gli Houti, non menziona con la stessa frequenza le parole ‘sunnita’ o ‘sciita’. Non c’è da stupirsi. Tranne in specifiche situazioni, l’iscrizione o l’appartenenza a un madhab (scuola religiosa di pensiero) viene raramente menzionata in conversazioni ordinarie in Yemen.

Certo non si può dire che non ci siano tendenze settarie o spaccature tra gruppi tribali in Yemen, ma la lotta di potere che si sta profilando ai nostri giorni non può essere liquidata solo con le differenze storiche e teologiche tra sunniti e sciiti. 

Nella lettura dei media, per esempio, invale la cattiva pratica secondo cui dire Houti equivale a dire sciiti, il che equivale a dire zayditi.

Innanzitutto va detto che molti componenti del partito Ansarullah, comunemente noti come Houti, sono zayditi, ma anche provengono da varie scuole religiose di pensiero sciita e sunnita, tra cui ismaili, shafii, e jaafari.

Molte tribù e molti soldati si sono uniti agli Houti e combattono al loro fianco. In realtà, leader shafii di spicco come Saad Bin Aqeele, un mufti di Ta’iz, sono tra gli Houti più influenti: sono intervenuti nei sermoni del venerdì e da un sit-in, prima dell’avanzata dei ribelli sulla capitale.

Secondariamente, gli zayditi condividono dottrine e opinioni giurisprudenziali simili con studiosi sunniti. Le differenze teologiche, paragonate alle questioni di coesione sociale, tra cui la lealtà tribale, il potere, il controllo, lo sviluppo e il finanziamento della sicurezza sociale per la popolazione, sono relative.

Al punto tale che i musulmani in Yemen, pur se provenienti da varie scuole di pensiero, sunnite o sciite, pregano insieme, si sposano senza “conversioni” forzate, ed episodi di violenza sociale fondati sull’appartenenza confessionale finora sono stati rarissimi.

Non tutti gli zayditi sono peraltro Houti: molti studiosi zayditi sono problematici rispetto alla adesione politica ad Ansarullah.

Gli Houti vengono sempre considerati la longa manu dell’Iran in Yemen e paragonati tout court ad Hezbollah. Posto che la loro fonte di ispirazione è chiara e immagini di Nasrallah campeggiano ovunque nei loro sit-in, e che la teocrazia di matrice khomeinista pare essere la loro benzina politica, le loro azioni non hanno come scopo quello di stabilire principalmente un ordine politico zaydita. Così come se l’adesione al partito dei Fratelli Musulmani Islah è prevalentemente sunnita, non significa che Islah stesso abbia lavorato strenuamente per ristabilire il califfato.

Piuttosto va detto che non si può leggere questo conflitto senza comprendere che la composizione della società yemenita è prima di tutto tribale. Quando si punta il dito sugli Houti, mancano quasi sempre delle analisi profonde del legame tra la povertà rurale, le contestazioni politiche e i conflitti.

Non è possibile comprendere la capacità degli Houti di aggredire la capitale Sanaa se non si ricorda che il governo di transizione ha ignorato a lungo le rimostranze della popolazione, arricchendo le fila degli scontenti che hanno supportato Ansarullah.

La goccia che fece traboccare il vaso fu la revoca delle sovvenzioni ai combustibili da parte del governo durante la notte nel 29 luglio 2014.

Senza preavviso l’aumento del prezzo del carburante e del gasolio schizzò dal 60 e al 90 per cento. Le proteste di massa scoppiate successivamente sono state capitalizzate dagli Houti, che hanno guadagnato un numero significativo di nuove adesioni da diverse tribù e da tutte le fasce sociali. 

Un capitolo a parte lo merita la capacità di tutti gli attori politici in Yemen nel tessere nuove alleanze che vadano a scompaginare le vecchie e precedenti solo per il gusto – come nel gioco afghano del buskazi – di portare alla meta la capra, e dunque vincere, contro chiunque.

Se questo conflitto fosse stato di natura settaria e avesse avuto radici antiche, l’ex presidente Ali Abdullah Saleh (che è tecnicamente un zaydi) non si sarebbe impegnato in sei guerre consecutive contro gli Houti, dal 2004 al 2010.

Ma soprattutto oggi non avrebbe formato un’alleanza temporanea con i suoi ex nemici, come testimoniano le intercettazioni dello scorso ottobre tra l’ex dittatore e Abdul Wahid Abu Ras, uno dei leader del movimento Houti.

Nemmeno la detenzione di attivisti e giornalisti in recenti proteste si è basata su questioni settarie. Gli Houti fanno ciò che faceva Saleh, che ha già fatto Hadi e che hanno fatto tutti, qui: hanno messo il bavaglio a chi li metteva sulla graticola, indipendentemente dalla provenienza tribale o settaria.

Ultima questione: la lettura secondo cui ciò che accade in Yemen venga da una regia occulta che ha le sue stanze dei bottoni in Usa, Iran e Arabia Saudita è quanto meno riduttiva della storia del paese e delle responsabilità dei suoi governanti.

Vero è che, per innumerevoli motivi, lo Yemen è stato tirato per la giacchetta da molti attori internazionali, ma non va dimenticato che puntare il dito solo sul settarismo o solo su influenti manovre esterne equivale ad assolvere il governo di transizione dalle sue funzioni che ha abbondantemente disatteso.

Anche addossare agli Houti una valenza teologica alle loro violazioni non va bene poiché esse hanno solo una precisa connotazione politica, e relativa alla politica interna.

Essa soltanto è il vero e tuttora irrisolto nocciolo della questione “crisi in Yemen” e avrà il suo capitolo decisivo nella battaglia appena iniziata per il possesso del Marib: l’area dove il 75% delle risorse energetiche non sfruttate e mai messe a disposizione per la popolazione locale (petrolio e gas) sono il vero, succoso e irrinunciabile motivo dell’apparente caotico contendere.

 

*Laura Silvia Battaglia è giornalista professionista freelance e documentarista, e vive tra Milano e Sanaa, in Yemen, da dove collabora con alcune tra le maggiori testate e radio italiane ed internazionali. Photo by ai@ce (Flickr) [CC BY 2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons.

 

February 08, 2015di: Laura Silvia BattagliaYemen,

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