47 Soul. Non chiamatela “world music”

La dabke palestinese si mescola con la sua variante irachena, lo choubi, a cui si aggiungono coloriture dub e reggae, in un originale crogiolo di apporti diversi che rende possibile la rottura di ogni confine.

 

 

 

Sono di varie nazionalità ma tutti di origine palestinese e siriana i componenti dei 47 Soul, collettivo di musicisti nato ad Amman, Giordania, nella primavera 2013.

E forse alcuni di loro li conosciamo già, dato che hanno tutti una ricca storia musicale alle spalle: Tareq Abu Kwaik – palestinese di nazionalità giordana – è rapper (il suo nome da MC è El Far3i) e polistrumentista; è autore di tre album hip-hop ed è stato inoltre uno dei componenti della band post-rock El Morabba3, con cui ha pubblicato il bellissimo album omonimo.

Walaa Sbeit è un ex-maestro di Haifa, componente della band Ministry of Dub, attore, ballerino e poeta, nonché uno degli ideatori di un singolare progetto socio-politico: insieme a un gruppo di discendenti degli abitanti del villaggio di Iqrit, che attualmente si trova nello stato di Israele, ha inaugurato un progetto che prevede che il villaggio stesso sia ripopolato dai suoi legittimi abitanti, realizzando di fatto quel diritto al ritorno di cui spesso si sente parlare ma di cui pochissimi sono riusciti a godere da quando Israele, sin dagli albori della sua esistenza, ha distrutto interi villaggi deportandone gli abitanti.

Z the People, al secolo Ramzy Suleiman, è un musicista soul e gospel di nazionalità statunitense che ha deciso qualche anno fa di trasferirsi in Giordania; infine Hamza Arnaout, aka El Jihaz, è produttore hip-hop e bassista della band giordana Autostrad.

Niente di strano che l’unione di tutte queste esperienze e sensibilità abbia prodotto questo sound così interessante da ascoltare e conoscere un po’ più da vicino.

Nonostante i membri della band ci tengano a rimarcare l’aspetto ludico della loro musica, i temi trattati nelle canzoni sono perlopiù politici e legati alla questione palestinese, che però viene affrontata con una leggerezza intelligente e genuina: la Palestina, sembra dirci 47 Soul, non è solo lacrime e sangue, ma riesce in qualche modo ancora a farci ballare.

Musicalmente, come leggiamo sul loro sito ufficiale, 47 Soul è una “electro-mijwez, shamstep, choubi band”: su una base musicale tradizionale tipica del Levante arabo, che viene definita dalla band “musica da matrimonio”, si innestano elementi elettronici, dando vita a un mix inedito che il gruppo ha deciso di chiamare shamstep.

La dabke palestinese si mescola con la sua variante irachena, lo choubi, e a tutto questo si aggiungono coloriture dub e reggae, in un originale ed energico crogiolo di apporti diversi che rende davvero tangibile l’idea della rottura di ogni confine, non soltanto musicale.

Il nome del gruppo, infatti, allude un po’ nostalgicamente al 1947, l’anno immediatamente precedente a quello della fondazione dello stato di Israele e della prima guerra arabo-israeliana: un anno tragico per la Palestina in particolare e per l’intero Bilad al-Sham in generale; l’anno della Nakba, della grande disfatta; l’anno in cui sulle carte geografiche vengono segnati confini prima inesistenti, che sul territorio si traducono nella frammentazione di un Paese che era sempre stato unito.

Sono proprio questi i confini che i 47 Soul vogliono abbattere, almeno artisticamente, tornando con la memoria a quel 1947 in cui era ancora possibile incontrarsi nella Grande Siria e in cui le distanze tra Gerusalemme, Amman, Damasco e Beirut venivano annullate da una libertà di circolazione oggi sconosciuta.

Il gruppo ha provato sulla propria pelle l’assurdità dello strappo che il ’48 ha provocato nella storia della regione: trovandosi nell’impossibilità di incontrarsi fisicamente in Medio Oriente per via dei loro passaporti, i cinque musicisti hanno deciso di trasferirsi a Londra per dedicarsi a un’intensissima attività live e per registrare il loro primo album, che sarà intitolato proprio “Shamstep”. 

Per coprire le spese di registrazione, la band ha lanciato una campagna di crowdfunding, contando soprattutto sulla sua instancabile attività live per diffondere e far conoscere la propria musica.

Nonostante sia un progetto molto giovane, 47 Soul ha infatti già all’attivo numerosi concerti in prestigiosi festival internazionali: dopo il primo concerto ad Amman, hanno partecipato allo Shubbak Festival nell’estate 2013 e al Nour Festival nell’autunno dello stesso anno. In estate suoneranno al Womad Festival, fondato da Peter Gabriel nel 1980, insieme a musicisti affermati internazionalmente come Souad Massi e Tinariwen.

 

Abbiamo intervistato Tareq Abu Kwaik chiedendogli di spiegarci meglio lo spirito del progetto 47 Soul.

 

Hai scritto e dichiarato più volte che non ti piace definire ‘world music’ quella che suonano i 47 Soul. Puoi spiegarci meglio la questione?

L’idea di world music è un’etichetta usata dall’industria musicale a fini commerciali. Quindi, quando si parla di world music, si parla innanzitutto di qualcosa di culturalmente specifico: se fossi africano, per esempio, per me la world music sarebbe Britney Spears… Quindi non credo che sia corretto definire world music tutta la musica che non è inglese o americana… Poi, come 47 Soul, noi non facciamo world music.

 

Avete fatto molti concerti nel Regno Unito per motivi “pratici”, perché non riuscivate a muovervi liberamente nel Bilad al-Sham. Com’è lì il pubblico generalmente? Ci sono differenze rispetto al pubblico che avete avuto di fronte a Amman, per esempio?

Ai concerti vengono sia arabi che vivono qui, sia non arabi che vogliono ascoltare musica nuova e un po’ diversa dal solito. Anche per il pubblico arabo si tratta di musica nuova, ma visto che ci sono elementi di dabke siamo riconoscibili. Quando ci siamo esibiti ad Amman è stata la stessa cosa: chi viene a sentirci lì conosce un po’ questo genere di musica, e viene a sentire che cosa c’è di nuovo in quello che noi proponiamo. Può piacere o meno, ma la dabke la capiscono. E poi vengono anche stranieri, quindi non ci sono molte differenze tra i due tipi di pubblico.

Forse la differenza sta anche nella qualità tecnica, visto che a Londra si suona molta più musica dal vivo di quanta se ne suoni ad Amman. La cosa sta crescendo, c’è gente che inizia a parlarne, c’è un po’ di buzz a Londra, ma non so che dimensioni abbia la faccenda esattamente: facciamo concerti perché la gente venga ad ascoltarci, e tutto ci fa capire che le cose stanno prendendo la giusta piega.

Nel mondo arabo la gente non viene tanto a sentirci in quanto band, ma perché ci conoscono già come musicisti, per le cose che abbiamo già fatto individualmente. Sarà l’album che stiamo per registrare [la data di inizio delle registrazioni è il 6 aprile, nda] a renderci riconoscibili come un gruppo vero e proprio.

 

Come rapper, tu hai sempre avuto un’attenzione particolare verso il testo e verso la lingua araba: «Qui parliamo arabo, per l’ ‘arabizi*  da quella parte», scandisci nel tuo pezzo di spoken word “al-Muqaddima”. I 47 Soul, però, usano sia l’inglese che l’arabo nei testi: come vivi questa svolta linguistica?

Non si tratta di una vera e propria svolta. Quando ho bisogno di esprimere un’idea più ampia e importante, o un testo lungo, uso il rap. Con 47 Soul El Far3i non smette di esistere: suoniamo anche cose del Far3i riarrangiate. Ma a me piace scrivere anche cose più brevi e semplici, non solo testi pieni di dettagli. Mi piace scrivere canzoni, non soltanto testi: il testo è una cosa, la canzone un’altra. Mi piace esprimere le mie idee nelle lingue che conosco: conosco l’inglese e ci sono un sacco di persone che lo parlano, quindi posso comunicare i miei pensieri in maniera efficace e più sintetica. Riesco così ad arrivare a una nuova fetta di pubblico con i 47 Soul.

 

Perché sentite il bisogno di diffondere la vostra musica a livello internazionale?

Per me il messaggio è molto più importante del luogo geografico in cui mi trovo. Non si può iniziare a costruire qualcosa fuori dal proprio ambiente, ma bisogna iniziare a costruire nel proprio. Non dobbiamo solo importare, dobbiamo anche esportare. Il messaggio non si limita al mondo arabo, è molto più ampio, e anche se raggiungiamo un certo pubblico con la nostra musica, questo non significa che la questione è chiusa così. 

Potremmo anche fare un album tutto in arabo o tutto in inglese. La lingua dipende anche dalle caratteristiche dei vari componenti del gruppo: per esempio usiamo la capacità di Ramzy [Z the People, nda] di scrivere in inglese, perché lui ha vissuto tutta la vita in America e ha una buona tecnica di scrittura. Abbiamo la possibilità di fare tante cose: pop in arabo, pop in inglese, musica underground per quanto riguarda il contenuto… Proviamo a fare qualcosa di simile a un’infiltrazione, ma la regola fondamentale per me è divertirsi ed essere soddisfatti di quello che si fa.

 

Insomma avete l’opportunità  di diffondere la vostra musica nel migliore dei modi, avvalendovi di tutta una serie di strumenti diversi.

Sì, il discorso delle opportunità è un punto chiave: se ho l’opportunità di far capire delle cose alla gente nel posto in cui vivo senza sacrificare il mio messaggio, e conosco un’altra lingua, allora sento che è un mio dovere usarla per veicolare il mio pensiero. Poi non uso solo l’inglese, uso anche l’arabo, quindi questo è un valore aggiunto. Il confine tra la musica, il business e l’attivismo è molto sfocato.

C’è gente che dice che se devi vivere della tua musica, allora devi necessariamente sacrificare una parte del tuo messaggio, ma io non credo che sia così. Se sai organizzarti e se sai lavorare bene, puoi fare entrambe le cose. Posso mettermi a fare canzoni per vivere, ma allo stesso tempo caricare una track su Soundcloud ed esprimere la mia opinione.

Ci sono due strade: una è quella della formula preconfezionata, per cui non hai talento, ma le case discografiche ti forniscono questa formula e tu la applichi come uno schiavo; l’altra è che sei un musicista indipendente di talento e che raggiungi un livello tale che il music business finisce per giovarsi di quello che fai senza che tu debba abbassare gli standard qualitativi. Così, l’underground diventa mainstream ma mantiene lo stesso livello artistico e il messaggio non scende a compromessi.

 

 

*La parola ‘arabizi è una crasi tra le parole ‘arabi e inglizi, e si usa per designare un fenomeno linguistico molto comune nel mondo arabo che consiste nel mescolare le due lingue sia all’interno di uno stesso discorso, sia all’interno di una singola frase.

Sotto, il mini-documentario promozionale della band.

 

April 05, 2015di: Fernanda FischioneGiordania,Iraq,Palestina,Siria,Video: 

Redazione

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