La violenza in Iraq e gli esodi di massa che ha generato stanno riconfigurando la geografia umana del paese, favorendo i raggruppamenti di popolazione su base etnica e confessionale. Con la disintegrazione delle strutture statali, la costruzione di una “cittadinanza irachena” ormai è pura ipotesi. L’analisi di Orient XXI.
Desolante spettacolo quello della città irachena di Ramadi, liberata nel dicembre scorso dopo essere stata occupata da Daesh nel maggio del 2015. Secondo differenti fonti media infatti, i bombardamenti delle forze irachene e l’occupazione di Daesh avrebbero distrutto l’80% delle strutture della città, provocando l’esodo della quasi totalità della popolazione.
Anche i pochi abitanti che erano rimasti al momento della presa di Daesh sono fuggiti dopo la sua liberazione, facendo di Ramadi una città fantasma.
Questi spostamenti rivelano gli shock strutturali che la società irachena sta subendo, e disegnano una “geografia umana” eterogenea (1), che affonda le sue radici in una storia di violenza etnica e confessionale.
Gli spostamenti forzati di popolazione vanno di pari passo con i problemi strutturali dell’Iraq, importanti da spiegare come è fondamentale constatare che l’aumento del numero di sfollati è proporzionale all’amplificarsi delle violenze.
Sembra che la ruota del destino abbia aggiunto un nuovo segmento ad una storia già autodistruttiva, trascinando il paese in una spirale di assurda violenza, che pone la questione dell’integrità territoriale e nazionale dell’Iraq. La geografia può ancora “fare Nazione”, o non è piuttosto uno “spazio eterogeneo”, come sostiene il filosofo Michel Foucault (2)?
A guardare il passato recente e il presente dell’Iraq, la questione sembra essere anomica: lo sgretolamento sociale, di cui lo sfollamento è la traduzione spaziale.
La liberazione dell’Iraq dal giogo di Saddam Hussein non ha comportato una rottura politica con il regime, ma la riproposizione degli stessi rapporti di potere e di governance. Invece che dissolversi a favore delle istituzioni, la zaama (sistema leaderistico tribale tradizionale) è stata rafforzata dalla corruzione e dall’acquisizione di una dimensione confessionale, facendo perdurare il conflitto in una società esausta da decenni di guerre esterne e interne.
E’ questa la radice delle profonde fratture identitarie attuali, difficili da risolvere nel breve periodo.
Ed è in questo contesto di dissoluzione della società in categorie non inclusive le une delle altre che si sviluppano gli spostamenti forzati della popolazione civile, che provocano disgregazione sociale e frammentazione: le popolazioni esiliate finiscono per strutturarsi in funzione della polarizzazione confessionale ed etnica.
La mappatura geografica dell’esodo sunnita dalla regione di al-Anbar all’inizio del 2014 permette di verificarlo.
Divisioni molto più che geografiche
La violenza in Iraq sta comportando una riconfigurazione geografica nella quale è evidente il tentativo di tracciare delimitazioni etniche e confessionali chiare, legate a tre grandi cerchie comunitarie:
– Quella etnica curda nella regione del Kurdistan, nel nord dell’Iraq
– Quella etno-confessionale araba sunnita, nel centro dell’Iraq
– Quella etno-confessionale araba sciita, nel sud dell’Iraq
Ognuna di queste cerchie dispone di un sistema amministrativo, sociale e valoriale che la distingue dalle altre. Ognuna ha la propria visione delle storia e la sua rappresentazione dei tempi.
In questa divisione non solo geografica manca una memoria comune che permetta alla società di attenuare la forza delle sue contraddizioni, sfruttate invece per regolamenti di conti identitari reciproci che rinforzano lo spirito di rappresaglia, sottofondo costante del dibattito politico.
L’ultima ondata di esodo in Iraq risale alla fine del 2013. Tre milioni di persone, secondo le cifre dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), avrebbero abbandonato i governatorati sunniti: il 32% è fuggito da al-Anbar, il 29% da Ninive e il 21% da Salah Eddin. Uno sfollamento di massa iniziato con la conquista di Mosul da parte di Daesh e l’avanzata progressiva delle milizie islamiste nelle aree sunnite, che ha provocato la fuga di intere comunità verso Baghdad o Erbil, nel Kurdistan iracheno.
La spiegazione diretta di questi spostamenti è da rintracciare nella paura di rappresaglie da parte di Daesh verso chiunque avesse prestato servizio in passato nell’esercito regolare iracheno o nel settore del pubblico impiego.
Rappresaglie che potevano condurre a veri e propri massacri – come quello del 12 giugno 2014 a Tikrit, che ha provocato 2mila vittime nell’Accademia militare dell’Aviazione irachena. Inoltre, la gente sapeva perfettamente cosa avrebbe subito se fosse rimasta dopo aver visto cos’era successo a Falluja: raid e bombardamenti delle forze governative, nel tentativo disperato di riconquistare queste aree.
Corruzione e incapacità dell’esercito
Un terzo elemento aiuta a comprendere l’ampiezza dell’esodo.
La presa di Mosul e del governatorato di Salah Eddin in meno di 72 ore; il sequestro di armi da parte delle milizie del “Califfo”; l’evidente fallimento dell’allora premier sciita Nouri al-Maliki a fermare la caduta delle città sunnite, sono tutti elementi che hanno reso possibile la materializzazione di questa minaccia annunciata di confessionalizzazione del paese.
In seguito, il rapporto di Amnesty International sulla corruzione dell’esercito iracheno, e le dichiarazioni statunitensi sulla sua incapacità di fronteggiare Daesh, hanno spinto il neo primo ministro Haidar al-Abadi a costituire un esercito su base confessionale, parallelo a quello ufficiale iracheno.
Questo esercito parallelo – al-hachd al-chaabi (le “Unità di Mobilitazione Popolare”) – è una forza composta da 32 milizie sciite create e coordinate dal ministero dell’Interno in risposta alle richieste dell’ayatollah Ali Al-Sistani, che ha fatto appello al jihad kifa’i difensivo (3) per proteggere i luoghi sacri agli sciiti contro la minaccia di Daesh.
Una dichiarazione di Al-Sistani ha poi denunciato le violenze commesse dalle Unità di Mobilitazione Popolare, cui si sono unite le dichiarazioni di Moqtada Al-Sadr (altra prominente figura politica e religiosa sciita, leader del partito “movimento sadrista”, ndt) sulla “mancanza di scrupoli” di alcuni suoi elementi, e Human Rights Wach, che ha denunciato le milizie popolari di aver commesso crimini di guerra contro i civili nelle regioni sunnite: case incendiate, esecuzioni di massa di gruppi sunniti a Tikrit dopo la riconquista, confisca dei beni, omicidi sommari.
La creazione delle Unità popolari ha dato a Daesh legittimità confessionale, in un gioco di specchi tra due organizzazioni ugualmente percepite come responsabili dell’esodo dalle popolazioni sunnite e cristiane dalle aree del centro Iraq e da Baghdad.
Inoltre, invece che incoraggiare queste popolazioni a tornare alle loro case, la riconquista dell’esercito iracheno delle aree controllate da Daesh ha raddoppiato le fughe, e ne ha complicato le cause.
Doppio sospetto
Un doppio sospetto pesa poi sulle popolazioni sfollate dalle aree sunnite. Agli occhi di Daesh, la loro fuga è un tradimento e un’evidente dichiarazione di lealtà al nemico. Nella regione che li accoglie, di contro, sono sospettati di collaborazionismo (con Daesh, ndt) per non essere fuggiti subito.
A questo si aggiunge l’odio storico che ha provocato la loro lealtà al regime di Saddam Hussein, al nord per via del massacro dei curdi, al sud di quello degli sciiti (entrambi perpetrati dal suo regime, ndt). Di fatto, scegliere quale destinazione raggiungere per la popolazione del centro Iraq in cerca di sicurezza è davvero difficile.
In seguito all’epurazione geografica prodotta dalla guerra confessionale che si è consumata tra il 2006 e il 2008 in differenti aree del paese, fatta eccezione per il Kurdistan, la maggior parte degli sfollati dei governatorati di Al-Anbar, Diala e Salah Eddin ha cercato rifugio nelle città curde più sicure.
Dopo l’inizio del 2014, oltre 1,8 milioni di sfollati si sono divisi nelle principali città curde: Erbil, Dohuk, Suleymainya. Secondo il ministero iracheno delle Migrazioni, il 61% degli sfollati si è rifugiato a Dohuk per via della sua vicinanza con il Sinjar e con Mosul. Circa il 24% ha cercato rifugio invece ad Erbil, e il 15% a Suleymainya, dove si trovano attualmente circa 160mila sfollati, di cui l’8,5% vive nei campi fuori dalla città, mentre gli altri si sono sparsi nei diversi quartieri.
I cristiani sfollati di Mosul sono stati accolti in parte nei campi vicini a quelli che ospitano arabi sunniti, producendo forti tensioni confessionali. Per quanto il governo della regione del Kurdistan abbia posto forze di sicurezza a controllo dei campi, le organizzazioni umanitarie che vi operano lamentano la mancanza di risposta delle autorità in tema di sicurezza.
A questa situazione già critica bisogna aggiungere l’esodo degli shabak, una comunità curdo-sciita fuggita da Mosul e dalle aree circostanti, che ha sempre subito una doppia discriminazione: etnica, perché curda. E religiosa, perché è sciita.
Fattori che la rendono un nemico ideale per Daesh: per questo la comunità shabak ha lasciato i suoi villaggi quando le truppe di al-Baghdadi sono entrate a Mosul, in direzione Kurdistan. sparpagliati all’interno e all’esterno del paese, i membri della piccola comunità stanno sparendo lentamente.
La gioventù curda separata dagli arabi
Al nord, nella regione del Kurdistan, dal momento che la generazione nata dopo l’intifada del 1991 non condivide nulla con la gioventù irachena delle altre regioni del paese, va costituendosi un nuovo mosaico.
Questa generazione non parla arabo, vede nella presenza araba in Kurdistan un prolungamento del regime del partito Ba’ath (guidato da Saddam Hussein, ndt), che ha massacrato i curdi, e non comprende questo esodo verso la loro regione, presa d’assalto.
In assenza di politiche da parte del governo curdo, e alla luce della debolezza – si legga “indifferenza” – dell’amministrazione centrale riguardo questa categoria di iracheni, alle tensioni confessionali ed etniche si aggiungono oggi problemi sociali.
Tra la popolazione sfollata l’80% dei bambini non va a scuola, e sono tante le famiglie che sono state costrette a condividere lo stesso appartamento per via dei prezzi elevati. Le prime vittime sono i bambini: in assenza di classi in lingua araba in Kurdistan, passano le loro giornate per strada.
Neanche il problema delle famiglie che hanno perso in combattimento i padri o che sono in esilio è considerato un tema sociale, quando si tratta invece di situazioni potenzialmente pericolose, che non mancheranno di avere ripercussioni sulle categorie più vulnerabili della società.
I giovani si devono confrontare con la mancanza di lavoro nel contesto di crisi economica in cui è caduto il Kurdistan (4) e di esilio, e diventano una preda facile per trafficanti e malavita. Non a caso nella città di Suleymainya i rapporti della polizia sottolineano un aumento della delinquenza e dei reati minori, immediatamente attribuiti alla popolazione sfollata.
Chi ha trovato un lavoro, pagato con salari bassi, è percepito dagli abitanti come una minaccia per la manodopera locale, soprattutto nel campo dell’artigianato e dell’edilizia (…).
Privi di prospettive per il futuro, i destini di questi giovani vengono sequestrati da capi tribali e religiosi, il cui potere si sostituisce a quello dello istituzioni dello Stato. Una nuova generazione si sta costruendo sulla base dell’inimicizia confessionale e/o etnica della quale è essa stessa vittima, e che assicura il perdurare di un sistema di potere di tipo tradizionale.
Frutto della disintegrazione delle strutture statali e dei conflitti combinati che si stanno incancrenendo, e senza un’assunzione di responsabilità politica, gli spostamenti forzati di popolazione stanno generando le condizioni propizie all’utilizzo della violenza come leva politica in grado di assicurare la dominazione di un gruppo sull’altro, a detrimento delle altre componenti necessarie alla costruzione di una cittadinanza irachena.
Che, ad oggi, resta del tutto ipotetica.
Note
1) Secondo fonti ufficiali, nel 2014 l’Iraq contava 36 milioni di abitanti. Oltre 7,5 milioni (21%) a Baghdad, 5 milioni nei tre governatorati del Kurdistan, gli altri ripartiti nei governatorati del sud e del centro.La maggioranza della popolazione (88%) è araba. I curdi rappresentano l’11%. Ci sono anche minoranze millenarie come i siriaci, i caldei, gli armeni, gli assiri, i turcomanni. Questi gruppi etnici rivendicano diverse appartenenze religiose. Tra gli arabi, il 77% sono sciiti e vivono nella regione sud del paese, il 17% sono sunniti. La maggior parte dei curdi sono sunniti. Si contano anche una minoranza cristiana importante e altri gruppi religiosi minoritari: sabei, zoroastriani, ezidi, shabak, fiayla e kaka’i. Un’importante comunità ebraica viveva in Iraq, ed ha progressivamente migrato in Israele dopo la sua fondazione, nel 1948.
2) Michel Foucault, “Des espacesautres (1967). Hétérotopies”.
3) Il jihad kifa’i è una forma di jihad detto “difensivo”: condotto da un gruppo costituito in seno alla popolazione musulmana, dispensa il resto della comunità dal praticarlo.
4) La crisi finanziaria curda è legata, tra le altre cose, al debole prezzo del petrolio, alle tensioni createsi tra il governo curdo e l’amministrazione centrale irachena sulla vendita di questa risorsa e le percentuali che il governo centrale si impegna a versare alla regione curda.
*Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Orient XXI, tradotto dall’arabo da Hana Jaber, ed è disponibile qui. La traduzione dal francese è a cura di Cecilia Dalla Negra.
March 01, 2016di: Sami Daoud e Karzan Kawcin per OrientXXI* Iraq,Articoli Correlati:
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