Le Primavere Arabe hanno contribuito a rompere il tabù della presenza femminile sulla scena politica, smascherando l’inganno del ‘femminismo di stato’. È l’opinione di Madawi al-Rasheed, antropologa e studiosa saudita.
Pubblichiamo la traduzione dell’intervista a Madawi al-Rasheed* realizzata da Bil3afya, un blog animato da due giovani giornaliste: una originaria del Marocco, l’altra del Kuwait, che cercano di confrontarsi e “costruire un ponte” per accorciare idealmente la distanza geografica tra le due regioni.
traduzione a cura di Rino Finamore
Dopo la Primavera araba, qual è lo stato dell’arte per le lotte femministe nelle regioni del Golfo e del Maghreb?
Le rivolte arabe hanno ravvivato quelle antiche battaglie femminili che, sia nei paesi del Golfo che nella regione del Maghreb, sono state in costante fermento durante tutto il XX Secolo. Nel Maghreb, le donne sono state parte delle lotte nazionali per la liberazione in tutte le battaglie anticoloniali, ma non sono riuscite ad ottenere diritti dopo la decolonizzazione, salvo alcune misure inserite nel più ampio discorso della modernizzazione e del nazionalismo. Sono rimaste deluse dal controllo delle élite nazionali maschili e si sono sentite tradite da quel ‘femminismo di stato’ che ha dominato le politiche di molti governi maghrebini.
Recentemente hanno preso parte alle rivolte che hanno attraversato il Nord Africa – dal Cairo a Rabat – andando oltre gli slogan politici nazionali che le riguardavano in quanto donne, e dimostrando i limiti del ‘femminismo di stato’ sotto le dittature.
Hanno dimostrato di non essere una massa omogenea ma di essere diverse per classe sociale, educazione e condizione economica. Hanno dimostrato diversità nelle soluzioni che cercate per migliorare le condizioni dell’intera nazione piuttosto che di una sola parte della società. Islamiste, liberali o ideologicamente non identificate, che semplicemente lottavano per la libertà, la dignità e la giustizia (…).
Nel Golfo, abbiamo gli esempi di donne del Kuwait e del Bahrein che sono state in prima linea nelle vecchie battaglie nazionali e per l’emancipazione. Purtroppo (anche) i governi in questi paesi sono riusciti ad assorbire la mobilizzazione femminile rimpiazzandola con il ‘femminismo di stato’: una mossa che consiste nel rendere le donne più visibili, ma prive del potere necessario per cambiare la loro condizione e la società.
Secondo molti regimi autoritari un volto femminile dà infatti alla dittatura un look più ‘soft’, apprezzabile a livello internazionale. Le donne quindi in alcuni casi sono state nominate ai vertici ma senza che l’intera nazione avesse raggiunto un buon livello di rappresentanza politica e l’elezione dei propri governi.
Nel contesto Saudita, le donne sono arrivate tardi nella lotta di genere e, attraverso il loro assorbimento nel governo, sono diventate uno strumento di rafforzamento del regime autoritario. Le donne in Arabia Saudita sono deboli a livello organizzativo, dal momento che non hanno il diritto di strutturarsi come componente della società civile attiva, di formare organizzazioni studentesche, sindacati o associazioni. La società inoltre resiste ancora molto alla concessione di più diritti alle donne.
In questa situazione quindi, le donne hanno optato per negoziare direttamente con lo Stato, accettando le regole del gioco e sperando di avere qualche opportunità. Nonostante questo, stanno sviluppando una coscienza critica: alcune hanno partecipato alle manifestazioni che chiedevano libertà e giustizia per i prigionieri politici e, come gli uomini, sono state oggetto di violenze e arresti da parte delle forze di sicurezza.
A livello generale, le rivolte arabe hanno contribuito a rompere un tabù, portando le donne nella sfera pubblica, che hanno manifestato e rivendicato diritti.
Oggi le donne in tutto il mondo arabo stanno condividendo le loro esperienze di rivolta: un fatto che aiuterà a diffondere la coscienza critica oltre i confini nazionali.
Le regioni del Golfo e del Maghreb sono molto diverse una dall’altra. Lei vede un valore aggiunto nella condivisione del dialogo?
Il Maghreb e il Golfo non sono mai stati estranei l’uno all’altro, sia in tempi recenti che in passato. Le famiglie del Maghreb hanno vissuto nella regione dell’Hijaz per generazioni, così come la gente del Golfo ha attraversato il Marocco per anni. Le due regioni hanno molto in comune, e le differenze esistenti sono di tipo sociale, linguistico e culturale, oltre a quelle introdotte (forzosamente) dalle potenze coloniali (quella francese in Maghreb, quella britannica e poi americana nel Golfo).
Se i governi hanno i loro interessi nel dialogo reciproco, soprattutto per quanto riguarda misure economiche e questioni relative alla sicurezza nazionale, anche la società civile ha le sue ragioni e i suoi interessi nello scambio.
I paesi arabi che non hanno avuto vissuto o realizzato una Primavera dovranno disfarsi delle strutture autoritarie prima di poter beneficiare di quell’apertura della sfera pubblica che si è ottenuta nei paesi post-rivoluzionari. Ma numerosi scambi si stanno già verificando nella società civile, attraverso conferenze, forum, incontri tra intellettuali.
Lei ha sempre posto l’accento sul fatto che la lotta femminile in Arabia Saudita non può avere successo se separata dalla lotta politica generale. Non crede che questo approccio sia problematico, in quanto scoraggia le donne dall’azione?
Le donne non otterranno mai un pieno riconoscimento se la loro battaglia rimane una questione di genere isolata. Nessuna società può sopravvivere se tutta la sua popolazione è oppressa: ma se lo è una metà più di un’altra sì.
Il regime saudita ci vuole far credere che ci sia soltanto un problema di genere nel paese, ma la realtà dei fatti è che entrambe le componenti sono oppresse, e sia agli uomini che alle donne è negata una seria partecipazione politica e istituzioni rappresentative.
Non posso accettare l’impostazione per cui in quanto donna dovrei occuparmi solo di questioni femminili, fatto accettato invece da certa parte della componente femminile saudita (…).
Cosa ha osservato nelle sue recenti visite in Tunisia e Marocco?
Ho notato soprattutto un gran numero di giovani, uomini e donne, che passeggiano per strada o siedono nei caffè senza far niente, se non guardare la vita che scorre.
Mi riferisco alla questione problematica della terribile situazione economica. Il principale nemico della gioventù è la disoccupazione, e deve essere affrontato al più presto.
Allo stesso tempo ho visto una gioventù sicura di sé e orgogliosa, convinta della sua capacità di cambiare il mondo attraverso l’azione diretta. Hanno di che essere orgogliosi, al contrario della loro controparte saudita: lì i pensieri dei giovani sono stati dominati dal consumismo e dalle illusioni, portandoli ad elemosinare un lavoro in attesa di favori da parte del regno.
I giovani sauditi hanno molto da imparare da quelli tunisini, che hanno rivendicato i propri diritti con l’azione e non attraverso il lusso di un Ipad su cui utilizzare Twitter.
Sono orgogliosa di altri giovani uomini in Bahrein e Kuwait perché hanno dimostrato di essere attori politici che non possono essere presi in giro dalle promesse reali. Un giorno gli uomini e le donne saudite celebreranno la loro emancipazione e il loro sviluppo.
Cosa pensa del tentativo del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) di creare un’unione di monarchie che includa anche il Marocco e la Giordania?
Le monarchie del Golfo, e in modo particolare l’Arabia Saudita, il Bahrein e il Kuwait, devono ascoltare i loro popoli prima di mettere in scena l’illusione di unioni che servono solamente propositi di sicurezza. Esiste un’unità araba che la Primavera ha valorizzato a livello di società e cultura giovanile, ma i governi come sempre sono ancora molto indietro.
Continueremo ad essere un solo popolo con diverse culture e stili di vita, ma c’è qualcosa che resiste a tutte le differenze: la percezione di un destino comune.
E’ questo destino e questa fratellanza che mi fanno sentire a casa a Rabat, a Tunisi come al Cairo. Le dittature non potranno mai portarci via questa sensazione, neanche cercando di dipingerla come una falsa unione che nella realtà non esiste, se non tra coloro che vogliono costruire solidarietà nella lotta per una vita migliore.
*Madawi al-Rasheed, nata in Arabia Saudita, è docente di Antropologia sociale presso il dipartimento di Teologia e Studi religiosi del King’s college di Londra dal 1994. Autrice di numerosi libri e articoli accademici, partecipa da anni al dibattito su religione e politica nel suo paese. La versione originale dell’articolo è qui.
5 febbraio 2013
Arabia SauditaBahrain,Egitto,Emirati Arabi UnitiGiordania,Kuwait,Marocco,Oman,Qatar,Tunisia,Yemen,Articoli Correlati:
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