L’obiettivo del kamikaze che il 26 giugno ha colpito la grande moschea di Medinat-al-Kuwait non era solo l’uccisione del maggior numero possibile di fedeli aderenti allo sciismo. Ha tentato infatti di intaccare quell’equilibrio e quella tolleranza attualmente corrente in Kuwait tra le diverse ramificazioni dell’Islam. Senza successo.
“Sono i miei figli, lasciatemi passare”. Con queste parole, in lacrime e visibilmente sotto shock, lo scorso 27 giugno l’Emiro del Kuwait Ahmad al-Jaber al-Sabah ha scansato gli agenti della Guardia Nazionale che volevano impedirgli l’ingresso nella Moschea al-Imam al-Sadiq.
Lo sgomento del capo di Stato è un’efficace fotografia dello stato d’animo con cui tutto il paese ha accolto il più sanguinoso attentato terroristico della sua storia contemporanea.
Pochi minuti prima del suo arrivo, il luogo di culto era stato infatti teatro dell’esplosione di un kamikaze che aveva provocato la morte di 25 persone ed il ferimento di altre 230. Per la sua immolazione, il terrorista saudita Fahd Suleiman Abdulmohsen al-Qaba’a aveva scelto l’orario della Salat al-Zuhr, la preghiera di mezzogiorno, in un momento in cui la moschea, frequentata in larga parte da sciiti, ospitava oltre 2mila fedeli.
L’attentato di Medinat al-Kuwait è andato così a chiudere il quadro di un folle venerdì imbrattato dal sangue della violenza jihadista; un attacco che, sebbene rivendicato dal sedicente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, di islamico sembra avere davvero poco, essendo stato messo a segno in una moschea, durante il mese del Ramadan, nel sacro giorno del venerdì, nel corso di una preghiera.
Obiettivo del kamikaze non era solo l’uccisione del maggior numero possibile di fedeli aderenti allo sciismo – corrente islamica ritenuta miscredente dalle ali più radicali del sunnismo; a ben vedere, quello che il jihadismo ha cercato di intaccare è quell’equilibrio e quella tolleranza attualmente corrente in Kuwait tra le diverse ramificazioni dell’Islam.
A differenza della maggior parte dei vicini paesi del Golfo (primi tra tutti Bahrain e Arabia Saudita), il piccolo Emirato è infatti storicamente ospite di una pacifica convivenza tra la maggioranza sunnita e la minoranza sciita (di cui fa parte circa il 30% della popolazione totale).
Al tragico evento non è seguito l’inasprimento dei rapporti tra i fedeli di queste correnti religiose.
La società civile si è anzi stretta attorno alla comunità sciita del Kuwait: solamente tra il 26 e il 27 giugno, quasi 2mila persone di diversa nazionalità e religione hanno donato il proprio sangue alla Kuwait Blood Bank per aiutare i feriti più gravi.
E il venerdì seguente all’attentato nella grande moschea di Kuwait City sciiti, sunniti, kuwaitiani e di altre nazionalità si sono ritrovati per pregare tutti insieme.
Due giorni dopo l’attentato, la polizia ha arrestato un cittadino kuwaitiano complice di al-Qaba’a. Sarebbe stato lui ad aver imbottito al-Qaba’a di esplosivi e ad averlo accompagnato in macchina nella moschea.
Lo scoperto legame tra questa cellula kuwaitiana e Daesh confermano le sensazioni della maggioranza dei locali, e cioè che il jihadismo kuwaitiano, sebbene storicamente poco attivo, sia una realtà radicata nel territorio e pronta ad esplodere in qualsiasi momento.
July 06, 2015di: Luigi Giorgi Kuwait,