Sono di nuovo a Tunisi, per la quarta volta. O meglio, sono a Ezzahra (fiore), la banlieue sul mare che profuma di arance, gelsomini e che i tassisti non sanno trovare.
Un’altra Tunisi, un’altra Tunisia. Non solo perché non mi trovo più al centro della città sul confine tra la Medina e la Ville Nouvelle, dove si può tracciare il solco della violenza coloniale che ha reso la Tunisia digiuna di libertà, democrazia e dignità a partire dal XIX secolo.
Io sono diversa, guardo e comprendo comportamenti con altre chiavi di lettura, sto capendo e ho imparato in questo anno quanto sia pesante il mio fardello di pensieri, pregiudizi, forme, costruzioni culturali con le quali avevo letto inizialmente questi eventi, questi luoghi e che ora ritengo completamente inadatte a descrivere la realtà, la Tunisia addormentata o in fermento in attesa di questo nuovo 14 gennaio.
La Tunisia è cambiata. Tunisi non è la stessa dell’anniversario 2013, caratterizzato dalla prima risacca delle elezioni, vetrina per Ennahda per mostrare la grandezza governativa e cercare con la festa e con le celebrazioni di sedare il malcontento.
Tunisi non è la stessa città che ho vissuto ad aprile e maggio, quando è diventata la mia casa, quando ho ipotecato il mio intestino alla harissa e alle spezie in cambio di conoscenze, pensieri, cambi di prospettiva, ma soprattutto di amicizie, affetti, emozioni. Era una Tunisia ferita per l’omicidio di Chokri Belaid, ma desiderosa di mostrare il proprio carattere, la voglia di fare e di cambiare davvero.
Tunisi non è nemmeno la medesima di agosto, stremata dal Ramadan, dal caldo soffocante, dall’omicidio di Brahmi e dalle proteste del Bardo, indecisa sul proprio destino e ancora inconsapevole di fronte all’allarme terrorismo che ha avvolto le strade, gli sguardi, i comportamenti delle persone.
Pensavo che la chiusura del processo costituente avrebbe segnato un momento meraviglioso per questo paese, e offerto ai cittadini uno strumento potente per potersi a poco a poco difendere dal potere, dai poteri.
Nella mia testa, mentre aspettavo a Malpensa il volo in ritardo per scioperi pensavo a Calamandrei, alle parole sulle origini della costituzione da ricercare sulle montagne partigiane, e immaginavo questa carta che scritta da destra a sinistra risaliva la costa, giù fino a Zarzis, al confine di Ben Guardane, tra le tende ripiegate di Choucha, si insinuava tra la polvere e le rocce nelle strade di Sidi Buzid, di Regueb, di Thala, di Siliana e poi ancora più ad Ovest, nelle montagne di Le Kef che guardano all’Algeria, e poi giù, a Sbeitla, svicolando tra le rovine romane, e a Kasserine, sul Jebel Chambi, fino a quell’avamposto dell’inferno che odora di fosfati e ribolle di rabbia e di disoccupazione che è il Bassin Miners di Gafsa e Redeyef, dove l’ingiustizia è scritta sui denti degli abitanti, corrosi dall’inquinamento dell’acqua e dell’aria.
Invece, quella carta è ancora chiusa tra le pareti di vetro e ferro del palazzo del Bardo, e domani non sarà in piazza. In piazza ci saranno gli aumenti delle imposte, la tassa sui veicoli passata in una sola manovra da 50 dt a 600, il carovita, che ha fatto aumentare il costo del pollo anche da Bahroun, le roi du poulet, il principale sfamatore di tunisini nelle notti lungo rue Ibn Khaldoun.
In piazza ci saranno le madri dei martiri, quegli oltre 300 ragazzi che sono morti negli scontri con la polizia e di cui non si sta occupando nessuno, se non un piccolo manipolo di avvocati ed attivisti che faticano tra il dolore umano, la rabbia e il poco ascolto da parte delle istituzioni.
Ci sarà il nuovo governo tecnico di Jomaa, che prendendo le redini di un paese affaticato, in difficoltà, ha messo le mani avanti, annunciando che non potrà fare miracoli, se non traghettare il paese sino alle elezioni, scongiurando scontri, omicidi politici e nuovi episodi di terrorismo.
Ci saranno i partiti, intenti a cercare di accaparrarsi il consenso in vista delle prossime tornate elettorali. Ci saranno i ragazzi delle banlieues che non sono partiti per Lampedusa, che partiranno presto, che non hanno nulla da perdere se non la violenza accumulata in anni di deprivazione, di assenza di futuro.
Ci sarà la polizia, ancora chiamata hnesh, “serpenti”, perché se il dittatore si trova ormai da 3 anni in Arabia Saudita, le pratiche fasciste di cui parla Adorno sono ancora nei gangli di questo paese, e ne disciplinano i passi, sezionano l’aria, insinuano il dubbio e la paura.
Chiacchieravo con due amici tunisini della raccolta di firme per introdurre in Italia il reato di tortura, e loro stupiti mi chiedevano: “Ma se non esiste il reato, perché la polizia non massacra tutti di botte? Qui lo fa anche se c’è il crimine, è la prassi…” e nella mia testa pensavo che tutti quei discorsi sulla dittatura illuminata di Ben Alì, sulla transizione facile della Tunisia, quelle descrizioni delle violenza di Stato come violenza puramente simbolica erano, sono parole al vento.
Perché non c’è una famiglia in Tunisia che non abbia vissuto un passato striato di violenza, che non sia stata intercettata, torturata, indagata, che non abbia avuto almeno un membro imprigionato, che non si sia dovuta trasferire nelle banlieue o all’estero, per cercare un po’ di pace.
Perché ancora oggi, nessuno risponde ai numeri sconosciuti, nessuno parla di politica o esprime le proprie opinioni se non dopo aver sentito le tue, nessuno si sente completamente sicuro nella propria casa.
E sono passati tre anni. E io non posso capire.
Sento solo il peso di questa fatica di vivere, quell’emozione avversa, che arriva forte, che affatica la progettualità, perché la rabbia soffoca le idee e il desiderio. Allora risuonano le parole di Bourdieu, e la violenza da simbolica diventa politica, e sistemica. Perché dopo il colonialismo, il Bourguibismo e la dittatura di Ben Alì hanno indebolito l’idea di diritti, il poter immaginare un potere politico che non sia nemico, ma che sia il portavoce dei bisogni di una popolazione.
Per questo oggi per i tunisini comunque non sarà una festa. Perché se la liberazione dal dittatore c’è stata, le pratiche di libertà necessarie per trasformare una dittatura in uno Stato di diritto sono ancora difficili, macchinose, le energie sono poche e l’ingiustizia è presente, spesso intrecciata con la costante minaccia di terrorismo, con i posti di blocco, i metal detector, i controlli fatti a tutte le barbe e agli zainetti.
Oggi non so come andrà. Nessuno lo sa. Il cielo è coperto, non si vede il sole.
Forse pioverà, e la pioggia spegnerà i fuochi di spazzatura incendiata per lo sciopero degli operatori ecologici. Forse ci saranno scontri, tra polizia e manifestanti, per il carovita, per la privatizzazione delle risorse tunisine, per l’assenza di progettualità o per la promulgazione di una carta costituzionale che si scosta dal dibattito, dal sentire del paese, dal paese reale.
Forse ci sarà l’allarme terrorismo a farla da padrone, che ha riempito le strade di posti di blocco e gli sguardi di insicurezza e timore. O magari uscirà il sole, e quella di oggi sarà comunque una festa, perché in fondo quella carta quasi scritta potrebbe ancora essere una chance per cambiare le cose. L’oggettività dell’osservatore, dell’etnografo, si è persa in questo anno.
Io tifo per il cambiamento. Io, intanto, mentre mi preparo ancora una volta a tornare in piazza, sono già cambiata.
January 14, 2014di: Valeria VerdoliniTunisia,Articoli Correlati:
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