In Afghanistan è in corso un processo destinato a lasciare il segno nella storia giuridica e culturale del paese. E’ quello che vede sul banco degli imputati gli stupratori di Lal Bibi, diciottenne della provincia nord di Kunduz, rapita da cinque soldati della polizia locale afghana.
di Anna Toro
L’importanza del processo non sta solo nel fatto che la ragazza abbia deciso di parlare, sostenuta addirittura dalla sua famiglia, e di denunciare i propri aguzzini di fronte ai giudici e ai media (evento più unico che raro in un paese come l’Afghanistan).
Se giustizia sarà fatta, sarà anche la dimostrazione che qualcosa sta cambiando nel sistema giudiziario afghano, visto che membri di polizia e istituzioni raramente ricevono punizioni esemplari, specie per reati di questo tipo.
La vicenda
Lal Bibi è la figlia più piccola di una famiglia Kuchi, etnia Pashtun di pastori seminomadi. Lei e la sua famiglia vivono in una tenda su un aspro territorio fuori dalla città di Kunduz.
La ragazza afferma di essere stata violentata perché un suo cugino avrebbe offeso una famiglia legata a un membro della milizia locale, il comandante Nezaami, che per vendetta l’avrebbe fatta rapire dai suoi uomini il 17 maggio.
“Stavo mungendo le pecore insieme a mia madre, e improvvisamente una macchina si è avvicinata alle tende. Hanno bloccato prima mio padre e gli hanno legato le mani, poi hanno preso me e mia madre, non capivo cosa stesse accadendo”, racconta Lal Bibi in un’intervista al New York Times.
Tra i singhiozzi, afferma di essere stata incatenata al muro e ripetutamente picchiata e stuprata, in particolare da un ufficiale di nome Khudai Dad, già agli arresti insieme a un altro dei cinque uomini coinvolti.
Il comandante Nezaami, invece, risulta introvabile.
Numerose donne afghane che sono state vittime di stupro come Lal Bibi sono state poi uccise dai loro parenti per aver arrecato disonore alla famiglia.
In questo tipo di società tribali la colpa degli stupri ricade spesso sulle vittime, e non c’è legame familiare che tenga.
Nel suo caso i parenti hanno creduto al racconto della ragazza e, una volta liberata, l’hanno portata all’ospedale di Kunduz dove è stata riscontrata la violenza.
“I dottori hanno trovato segni di percosse e torture” ha confermato il direttore dell’ospedale Shukur Rahimi.
Così, i familiari hanno deciso di appellarsi alla giustizia ufficiale, rifiutando la possibilità che la sua morte sia l’unico modo per riportare l’onore alla famiglia.
Certo le cose restano complicate e le usanze sono dure a morire: “Se la giustizia non risolve il nostro problema, allora dovrebbero decapitarla; noi non la vogliamo” ha detto la madre.
La stessa Lal Bibi, nonostante il suo coraggio nel denunciare pubblicamente gli stupratori, non si sottrae al giudizio culturale: “Sono già una persona morta – lamenta con voce rotta – e se il governo fallisce nel portare queste persone di fronte alla giustizia mi darò fuoco. Non voglio vivere con questo marchio in fronte”.
Polizia locale afghana: “una massa di banditi e teppisti analfabeti”
Il caso è stato preso in mano dal procuratore militare della provincia di Kunduz, il generale Mohammed Sharif Safi, che stavolta pare deciso ad andare fino in fondo.
“Tutti gli uomini coinvolti fanno parte dei primi 300 miliziani della polizia locale afghana, istituita dal governo e addestrata dalle forze speciali americane. Non è la prima volta che commettono crimini così orribili” afferma.
Il suo giudizio è impietoso: “Sono tutti una massa di banditi e teppisti ignoranti il cui scopo è andare in giro a molestare le persone”.
La polizia locale afghana è stata creata dal governo per difendere i civili e combattere la guerriglia talebana nelle regioni più difficili e remote del paese.
Si tratta di un’entità separata rispetto alla polizia nazionale afghana, e tecnicamente lavora sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno.
Già lo scorso anno molte di queste truppe si sono rese colpevoli di abusi, violenze e saccheggi.
Le organizzazioni dei diritti umani hanno spesso denunciato il fatto che queste milizie, formate per lo più da uomini rozzi e analfabeti, ricevano un addestramento minimo: “Di fatto, creano più problemi di quanti effettivamente ne risolvano”.
La crescita del loro potere in queste aree remote non è sottoposta a nessun controllo e, secondo molti critici, la maggior parte di questi 13mila “soldati” sono ex criminali e addirittura ex talebani che utilizzano la loro posizione e le armi date loro in dotazione per compiere abusi sulla popolazione civile inerme e, spesso, povera e illetterata anch’essa.
Inutile dire che le donne sono le loro prime vittime.
Proprio nella provincia di Kunduz, da cui proviene Lal Bibi, la polizia locale è presente in ogni distretto e in ogni villaggio.
Secondo un recente rapporto dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission (AIHRC), il gruppo sarebbe colpevole di “maltrattamenti, violenze, omicidi, furti, estorsioni, saccheggi, abusi sessuali” nei confronti delle popolazioni che dovrebbero proteggere. Violenze che spesso non vengono a galla.
Il portavoce del ministero dell’Interno afghano Sediq Sediqqi parla però di “esagerazioni”: “E’ una grande forza presente in ben 67 distretti – afferma – sono utili, fanno il loro dovere e permettono alle persone di vivere in sicurezza, andare a scuola o nei luoghi di lavoro”.
Sostiene che l’anno scorso i venti uomini della polizia locale accusati di violenze e sono tutti finiti a Kabul di fronte al giudice.
“Questo è l’Afghanistan – continua –, la polizia locale non si deve occupare del rafforzamento della giustizia, bensì della guerra contro gli insorti e questo è il loro primo compito”.
Anche gli ufficiali militari statunitensi sostengono la stessa tesi. Affermano anche che i membri della polizia locale afghana non sono coinvolti nella violenza a Lal Bibi fino a prova contraria. Sperano comunque che giustizia venga fatta, in quello che si preannuncia un caso difficile.
Un futuro incerto
“Lal Bibi è stata molto coraggiosa a parlare – ha detto Nedara Geya, a capo del Dipartimento degli Affari delle donne a Kunduz – E’ diventata un esempio per le altre vittime di stupro”.
In ogni caso la ragazza dovrà per forza andare a vivere da un’altra parte, anche in caso di condanna degli ufficiali: il giudizio della società tribale appare implacabile.
Anche suo nonno Hajji Rustam, che vive con la famiglia, sembra lacerato tra le tradizioni tribali che richiedono che una ragazza “sporcata” venga punita e i profondi sentimenti che lo legano alla nipote.
“Mettetevi nei nostri panni: e se qualcuno stuprasse vostra figlia? – chiede – Sono certo che se vedeste che nessuno vi aiuta nel fare giustizia, sareste pronti a porre fine alla vostra vita e a quella di lei”.
Poi guarda sua nipote, alla quale è rimasto sempre accanto: “Durante il giorno sta seduta e non parla. Sta in silenzio per ore, poi improvvisamente comincia a urlare. La sua anima è stata distrutta”.
June 18, 2012
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