A Dély Brahim, nei sobborghi della capitale, migranti e richiedenti asilo, in maggioranza sub-sahariani fuggiti da zone di conflitto, vivono in situazione precaria e spesso sono confrontati ad episodi di razzismo. Reportage.
I primi raggi di sole risvegliano dal loro torpore le decine di migranti sub-sahariani che occupano gli scheletri delle ville in costruzione nella zona di Bouchbouk, a Dély Brahim (dintorni di Algeri). Seduta sulle scale, all’ingresso del casamento, Gisèle sta riscaldando il latte per la colazione. Quarantasei anni, ivoriana, è fuggita da un accampamento di rifugiati in Ghana circa un mese fa, per poi arrivare in Algeria attraverso la frontiera sud del paese.
“La guerra ci ha inseguite fin dentro al campo profughi – afferma – per questo siamo scappate”. Ultime arrivate, lei e sua figlia di cinque anni, si sono sistemate alle meglio. All’interno della casa le stanze erano già tutte occupate, così si sono rintanate in un angolo del sottoscala, di fianco ai loro bagagli.
Di fronte a Gisèle, una porta socchiusa si affaccia su una stanza di una ventina di metri quadrati che ospita diverse famiglie. La luce è debole, non ci sono finestre né condotti di aerazione. L’aria è quasi irrespirabile. Due persone, insonnolite, rimangono distese sui materassi, mentre gli altri occupanti se ne stanno seduti.
“Siamo sei famiglie a vivere qui”, spiega una giovane congolese di ventiquattro anni.
Non sa bene perché suo marito abbia deciso di lasciare il paese, per poi ritrovarsi da queste parti. La ragazza esce ogni tanto dalla stanza per dare un’occhiata al figlio, che gioca assieme agli altri bambini. Sono molti quelli che hanno trovato riparo – nel corso degli anni – sotto questo tetto, ormai una sorta di centro di transito. Se non vanno a scuola, passano il loro tempo a giocare tra i mattoni o tra i mucchi di sabbia e di sassi lasciati di fronte ai cantieri delle future residenze.
La casa si sviluppa su tre piani ed ha diversi punti di accesso. Al secondo, un gruppo di uomini seduti attorno a un tavolo sta giocando a carte. Dabhi resta in disparte. Sulla trentina, è sposato e padre di una bimba di nove mesi. Aveva già conosciuto l’Algeria da studente in ingegneria ad Orano, prima di rientrare nel 2010 nel suo paese, la Repubblica Democratica del Congo (RDC).
“Sono diventato un attivista politico – racconta – ed ho partecipato a manifestazioni e incontri prima delle elezioni”. Quanto basta per essere perseguitato. Così Dabhi fa di nuovo i bagagli, passa a Brazzaville e da lì parte in aereo per Bamako.
“Ho proseguito fino a Kidal, poi l’attraversamento della frontiera a Tinzerouatine e infine a Tamanrasset nel 2011”.
Dabhi è un richiedente asilo e si è iscritto ad un master in marketing e comunicazione. “Non ho pagato l’iscrizione però. Se ne sarebbe dovuto occupare l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) ma so che ancora non l’ha fatto”.
Il ragazzo è comunque fortunato, rispetto agli altri profughi. Assieme a sua moglie e la sua bambina occupa una stanza di dieci metri quadrati, divisa in tre parti con delle tende. Ha un buon letto, un televisore e un computer portatile. Pur avendo il libretto universitario, tuttavia, non possiede ancora il permesso di soggiorno. “Per quello serve un certificato di residenza, dunque un regolare contratto d’affitto, ed io non ho abbastanza soldi”, spiega.
Per sopravvivere, Dabhi lavora occasionalmente come giardiniere. La scelta dell’Algeria come terra d’asilo non è stata un caso. Si tratta di un paese alla frontiera dell’Europa, che già conosceva, e mediamente più ricco dei suoi vicini. Per aumentare le entrate, sua moglie lavora una volta alla settimana, il venerdì, come massaggiatrice in un hammam.
Che provengano dal Congo, dal Gabon, dal Ghana o dalla Costa d’Avorio, profughi e migranti sono tutti costretti a superare la traversata del deserto, passando dal Mali, per poi entrare in territorio algerino dalla frontiera sud. Nonostante si trovino in condizioni precarie, a volte indeboliti dalle malattie o dal lungo viaggio, cercano di tirare avanti con qualche espediente, lavorando in nero quando capita.
In generale non rimpiangono la scelta di partire, “qui almeno possiamo avere un po’ di pace”, anche se talvolta subiscono episodi di razzismo o si ritrovano vittime di aggressioni.
“I vicini chiamano spesso la gendarmerie. Gli agenti fanno irruzione, chiedono i documenti e sequestrano le bevande alcoliche che abbiamo da parte. Quando succede di notte i bambini si spaventano a morte”.
I bagni sono in comune e in ogni caso non c’è acqua corrente. Sono rari i vicini che accettano di offrire qualche tanica. Per strada poi, sono spesso apostrofati con appellativi degradanti, “negri”, “sporchi” e altri insulti sullo stesso genere. Dipende, tuttavia, dal luogo degli incontri. “A scuola, per esempio, ho come l’impressione di frequentare un’altra categoria di algerini, simpatici e calorosi”, precisa Dabhi.
Oggi sono circa un centinaio i cittadini sub-sahariani che hanno trovato rifugio in questa zona. Quanti sono in tutta l’Algeria? Secondo il Ministero dell’Interno, alla fine del 2012, erano circa 25mila i rifugiati insediati nel paese “per ragioni umanitarie e a causa dei conflitti patiti nei rispettivi contesti d’origine”.
Pur riuscendo a trovare un tetto, un riparo più o meno fortuito, queste persone vivono praticamente in strada, fa notare Kader Affak del Comitato di solidarietà popolare, che si adopera per raccogliere doni e materiali d’ogni sorta. “La situazione è difficile, sono praticamente alla mercé dei malintenzionati, delle loro insidie fisiche e verbali”, fa notare l’attivista citando l’esempio di due ragazze maliane violentate ad Orano.
Una donna, stando alle testimonianze raccolte, sarebbe stata aggredita perfino nei bagni del palazzo in costruzione a Bouchbouk. “Volevano prendergli i pochi soldi che aveva”, raccontano alcuni dei presenti.
A volte dei ragazzi algerini si fermano davanti al casamento, “solo per guardare le donne”, s’indigna Alex, un ivoriano di trentotto anni arrivato da circa sei mesi. “Nelle nostre condizioni non possiamo presentare nessuna rimostranza”.
Per questo, secondo Kader, è necessario mettere in allarme l’opinione pubblica. “Ci scandalizziamo per come vengono trattati gli algerini nei centri di transito in Europa e poi ci dimentichiamo che qui, a volte, succede di peggio”, conclude l’attivista, ricordando che la violenza subita dalle due ragazze maliane non è affatto un caso isolato.
* Testo e foto di Tout sur l’Algérie, traduzione a cura di Jacopo Granci
Per la versione originale, clicca qui.
July 03, 2013di: di Hadjer Guenanfa per TSA* Algeria,Articoli Correlati:
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