E’ evidente ormai da tempo che Daesh non è affatto l’unico problema in Iraq. Cosa succede nel nord del paese, tra guerra(e), emergenze umanitarie e crisi economiche e politiche.
Massoud Barzani, presidente del governo del Kurdistan iracheno, ha parlato spesso, in passato, della possibilità di un referendum sull’indipendenza della regione nord-irachena. Negli ultimi due anni, ovvero da quando il Kurdistan iracheno è finito sotto i riflettori dell’attenzione internazionale per l’accoglienza riservata a circa 1 milione di sfollati iracheni e per la guerra iniziata contro Daesh, il sedicente “Stato islamico”, ne ha parlato ancora di più.
L’ultima volta lo scorso 2 febbraio, quando Barzani ha inviato un documento ai partiti presenti nel Parlamento regionale, ribadendo con forza un concetto già espresso altre volte: “Se i curdi aspettano che altri concedano loro l’indipendenza, non la otterremo mai”.
Nello stesso documento, il leader del PDK (Partito Democratico del Kurdistan) sottolineava l’importanza di accelerare il processo del referendum, “da tenere prima delle elezioni americane” del novembre 2016.
La forza di queste dichiarazioni, tuttavia, è difficile da riscontrare fuori dalle stanze governative. “Se un governo non è capace di dare da mangiare alla sua gente, come può essere indipendente?”, ripete stizzita Laylan*.
Da 5 mesi almeno, il suo lavoro di insegnante di scuola elementare a Duhok, città dell’omonima provincia del Kurdistan iracheno, non è retribuito. Come lei, sono migliaia i dipendenti pubblici che si trovano nella stessa situazione. Impiegati e funzionari delle istituzioni così come i soldati al fronte, i peshmerga, impegnati nel respingere gli attacchi di Daesh e recuperare territorio sotto il suo controllo nella provincia di Ninive, confinante con il Kurdistan.
La guerra, le dispute e i conflitti con il governo centrale di Baghdad e il basso prezzo internazionale del petrolio sono le cause che ufficialmente il governo presenta per giustificare la crisi.
“Fossero solo questi i problemi”, racconta Laylan, “la gente non sarebbe così arrabbiata. Dovremmo forse considerarci fortunati che ci sia una guerra in corso, altrimenti dovremmo fare i conti con i problemi interni che ci portiamo dietro da sempre”.
Fragile unità e crisi economica
David Romano, professore di Middle East Politics all’Università del Missouri ed editorialista di Rudaw, emittente multimediale curda, commentava così le dichiarazioni di Barzani sull’indipendenza. “Nel Kurdistan iracheno gli ultimi 5 anni le divisioni politiche sembrano essere cresciute (…), in contrasto con le condizioni necessarie di uno Stato indipendente”.
“Se una nazione curda sta sinceramente pensando a un referendum sull’indipendenza, la politica deve immediatamente fare di più per convincere la gente che ci sono ‘leader di tutti’ e che la politica tribale è una cosa del passato”.
Nell’ultimo anno e mezzo, chi vive o ha visitato il Kurdistan iracheno attraversandone le tre diverse province, sa cosa c’è dietro questa “politica tribale”. E’ visibile ai diversi checkpoint che si possono incontrare tra Sulaymania, Erbil e Duhok.
Nella prima, ad est, al confine con l’Iran, roccaforte del PUK (Unione Patriottica del Kurdistan) dell’ex-presidente dell’Iraq Jalal Talabani, i peshmerga e gli asahij (i servizi segreti) che ne presiedono il controllo giurano fedeltà a quel partito.
Il verde non è solo predominante per la fitta vegetazione, che ne fa una meta turistica ambita in tutto l’Iraq, ma è anche il colore del PUK. A Duhok, dalla parte opposta, a due passi da Turchia e Siria, è il giallo il colore più diffuso.
Si tratta del colore del partito di Barzani (PDK), ed è a lui che i militari rispondono e obbediscono. Anche l’iconografia dei leader è un elemento distintivo: se a Sulaymania è Mam Jalal il protagonista delle foto ai checkpoint, vestito all’occidentale sempre in giacca e cravata, a Duhok c’è Barzani, per lo più ritratto con il suo abito tradizionale curdo e il foulard rosso in testa. A volte, Massoud è sostituito dal padre, non solo suo ma considerato di “tutti i curdi”, il Mullah Mustafa.
Ad Erbil invece la situazione può definirsi mista: essendo la capitale, l’apparato militare formalmente è in linea con la presidenza della regione. Tuttavia, è negli hotel e nei centri commerciali che si possono notare le foto di entrambi i leader storici, una di fianco all’altra, mentre in generale le bandiere di partito cedono lo spazio al tricolore del Kurdistan iracheno.
In sostanza, Erbil sembra giocare piuttosto bene il ruolo istituzionale di una capitale, rafforzata anche da tratti occidentali di modernità (grattacieli, hotel e resort a 5 stelle, nonché banche private e istituti finanziari), frutto del boom economico scaturito dalla vendita del petrolio in modo indipendente (leggasi, senza passare per Baghdad) e l’accordo strategico-commerciale con la Turchia che di fatto risale al 2005.
Una simile situazione di disunità è il frutto di un passato di conflitti che ha visto i due partiti menzionati confrontarsi per anni, passando per una guerra civile conclusasi nel 1996 ma in realtà proseguita in una minuziosa spartizione del potere (amministrativo e militare) che dura ancora oggi.
Ciononostante, dal 2009 verdi e gialli governano insieme, con il supporto dell’Unione Islamica del Kurdistan.
Ma se con la crisi umanitaria iniziata nel giugno 2014 sembrava arrivata l’ora di mettere fine alle divisioni in vista di un “facile” ottenimento dell’indipendenza, date diverse convergenze internazionali favorevoli, nel corso del 2015 i conflitti sono riemersi con forza.
Il picco raggiunto con il “colpo di Stato” di Barzani dell’ottobre scorso, al riguardo, esemplifica lo stallo politico della regione e di certo non contribuisce a un miglioramento della situazione economica. Da 5 mesi a questa parte, secondo i dati della Banca Mondiale, il governo di Erbil starebbe accumulando debiti per circa 800 milioni di dollari al mese. A tanto equivale infatti l’ammontare degli stipendi dei dipendenti pubblici, che corrispondono al 70% della forza lavoro della regione.
Buona parte di essi, dal settembre scorso stanno dimostrando pubblicamente il loro dissenso, chiedendo alla classe politica di sbloccare la situazione. Non sono bastate e hanno addirittura aumentato le tensioni le ultime misure presentate dal primo ministro Nechirvan Barzani, nipote di Massoud, secondo cui gli stipendi arretrati rimarrano congelati fino a data da destinarsi e da febbraio gli stipendi sarebbero stati pagati solo al 50%.
Erbil, Sulaymania, Halabja, Chamchal e Koya sono state le città protagoniste di manifestazioni pacifiche, tuttavia in alcuni casi risultate in arresti, in particolare nei confronti di alcuni peshmerga accusati di diserzione. Da notare che i soldati, insieme ai dipendenti del ministero degli Interni, non fanno parte delle nuove misure, e continuano dunque a rimanere senza salario.
Ad ogni modo, neanche gli insegnanti hanno accolto positivamente la decisione del governo. Secondo fonti interne agli asahij, a Duhok, che come ricordato è tradizionalmente più vicina al partito del presidente, diversi insegnanti avrebbero ricevuto pressioni per essere costretti ad andare in banca a ritirare il loro “mezzo” stipendio.
In un incontro a porte chiuse organizzato dal governatore insieme a rappresentanti di insegnanti, ricercatori e direttori scolastici, sarebbero state pronunciate minacce dirette nei confronti di coloro che hanno apertamente criticato l’operato del governo.
“Sappiamo chi siete, dove vivete e dove cercarvi”, sarebbero state le parole del governatore.
Crisi umanitaria e guerre delle bandiere
Dildar* è un peshmerga part-time. Una settimana è al confine con la Siria, al valico di Peshkhabour e un’altra è nella sua città, Duhok, per lavorare come tassista.
Non è l’unico a sdoppiarsi a livello lavorativo, come riporta anche il giornalista Florian Nehuof da Erbil. D’altronde, con uno stipendio da militare di 500mila dinari iracheni mensili (circa 400 euro), indubbiamente insufficienti per lo standard di vita della regione, “è l’istinto di sopravvivenza a costringerti a cercare altro”.
“Soprattutto, con una moglie e 3 figli, è tutto più difficile”, commenta desolato. Il tumore al seno della figlia, inoltre, complica tutto. “Provo a volte a lavorare 20 ore al giorno con il mio taxi, ma non basta. Sto cercando lavoro con una Ong (gli unici datori di lavoro che pagano regolarmente e bene, ndr), ma c’è molta competizione in quel settore”.
Dildar non ha torto. Di Ong in effetti ce ne sono molte, non solo a Duhok, ma in tutto il Kurdistan, dove si concentra la maggior parte degli sfollati interni iracheni (in totale quasi 3 milioni in tutto il paese).
La guerra contro Daesh fa dell’Iraq, secondo le Nazioni Unite, un livello “3” di emergenza, al pari di Sud Sudan, Siria e Yemen, tale dunque da attirare l’attenzione dei governi di tutto il mondo per l’invio di fondi e aiuti umanitari. Inoltre, solo a Duhok, la provincia più piccola di tutto l’Iraq, risiedono circa 600mila sfollati, per cui tuttavia non bastano 16 campi di accoglienza, a cui se ne aggiungono altri 4 per rifugiati siriani (per un totale di 20, forse un unicum al mondo per una sola provincia). Difatti, buona parte delle persone, dopo due anni, vive ancora in strutture informali o edifici abbandonati, e non a caso per il 2016 le attività delle organizzazioni umanitarie (internazionali e locali) si sono focalizzate maggiormente nelle aree urbane.
In una situazione generale di crisi economica, tuttavia, la loro massiccia presenza (secondo fonti interne al coordinamento dell’ONU, almeno un centinaio in tutta la regione), diventa anche fonte di scontro con le autorità.
Da tempo le autorità della provincia di Duhok lamentano lo scarso apporto che le Ong stanno dando agli “sforzi umanitari del governo”. Le richieste vanno dal contribuire al pagamento dell’affitto della terra su cui poggiano i campi per sfollati e rifugiati all’assistere la popolazione locale curdo-irachena sia con aiuto diretto (soprattutto cherosene, acqua e cibo) sia attraverso posti di lavoro.
Gli inviti del governo arrivano anche a richiedere alle agenzie umanitarie di“scegliere” come canale preferenziale la Duhok Contractors Union per i loro bandi di gara (obbligatori secondo gli standard internazionali umanitari per garantire trasparenza dell’uso dei fondi pubblici), attraverso pressioni più o meno forti, che bypassano spesso le agenzie ONU, principali finanziatori delle stesse Ong.
Un simile invito è avvenuto lo scorso martedì, in un meeting a porte chiuse tra Governatorato di Duhok e Ong, che ha lasciato stizziti i rappresentanti delle organizzazioni, secondo cui l’obiettivo “è soltanto quello di favorire imprese vicine al PDK e coinvolgerci nel loro sistema clientelare”.
Dinamiche così descritte possono dare il senso della complessità del contesto politico, umanitario e sociale di questa piccola parte del mondo, nel nord dell’Iraq. E’ evidente, ormai da tempo e da più fronti, che Daesh non è affatto l’unico problema.
A questo proposito, per allargare il quadro è utile e importante considerare la fragile situazione di Sinjar, la presenza militare turca sul territorio iracheno e le condizioni dei rifugiati siriani nel Kurdistan iracheno.
Soggetta a una massiccia quanto leggera – in termini di morti e feriti – operazione militare a novembre, l’area di Sinjar è definita ormai “liberata”. Ciononostante, dopo tre mesi, quasi nessuno vi ha fatto ritorno. Come raccontavamo a dicembre, non è solo colpa delle macerie che compongono la maggior parte della città stessa di Sinjar e dei villaggi circostanti, ma soprattutto delle diverse forze in campo che si stanno dividendo il controllo del territorio.
Oltre ai peshmerga curdo-iracheni, le milizie del PKK (Partito curdo-turco dei Lavoratori), delle YPG (Unità di Liberazione del Popolo, braccio armato del PYD, branca curdo-siriana del PKK) e delle HBS (Unità della Resistenza del Sinjar, che unisce diverse milizie ezide) presiedono ognuna una porzione dell’area, tessendo diverse alleanze con la popolazione locale, che a sua volta riceve aiuto in termini di soldi e beni di prima necessità.
Il risultato è una sorta di guerra delle bandiere, un ‘tutti contro tutti’ per conquistare “cuori e menti” dalla propria parte. A seconda dell’area di controllo, è possibile vedere bandiere e o iconografie diverse, tra cui le più diffuse sono quelle del leader storico del PKK Abdullah Ocalan e del presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani, capofila di modelli di liberazione e di sviluppo diametralmente opposti.
Proprio per queste ragioni, la settimana scorsa il gruppo di coordinamento umanitario nazionale delle Nazioni Unite ha diramato delle linee guida che le Ong intenzionate ad operare sul territorio sono obbligate a rispettare. Semplicemente perché, sottolinea il documento, “l’assistenza umanitaria deve rispettare l’imperativo umanitario”, secondo cui le azioni devono essere prese per prevenire o alleviare le sofferenze delle persone e rispettare i principi di “umanità, imparzialità, indipendenza e neutralità”. Doveri e obblighi scontati, ma che evidentemente si è ritenuto importante ricordare a Sinjar dato che civili e combattenti spesso sono la stessa cosa.
Al riguardo, lo stesso documento sottolinea l’aumento del reclutamento da parte di minori, in particolare dal PKK, e di casi di matrimoni precoci, tra bambine e combattenti delle diverse milizie.
Visitare l’area presenta le stesse condizioni di 3 mesi fa: non parlare arabo ed essere sponsorizzati da un asahij, se si proviene dal Kurdistan iracheno. Similmente, le forze di sicurezza di riferimento sono di un altro colore se il punto di partenza è la Siria. Ibrahim*, giornalista e attivisita per i diritti umaniiracheno, si rifiuta di visitare Sinjar. “A cosa serve, se non a rischiare la vita se non giuri fedeltà a ciascuno dei partiti presenti?”.
“Volessi andarci dovrei avere con me tante tessere di partito da mostrare quante sono le forze sul campo”, ci scherza su. Della stessa opinione sono anche giornalisti internazionali che hanno visitato l’area recentemente.
Una di loro, contattata da Osservatorio Iraq, ha confermato che “i diversi partiti politici stanno esacerbando le divisioni settarie e contribuendo alla costruzione di un futuro che vedrà nuovi conflitti”.
Quanto succede a Sinjar si riflette anche nelle condizioni di vita di sfollati e rifugiati a Duhok. Tra i primi, soprattutto per quanto riguarda la comunità ezida proveniente da Sinjar (dove la quasi totalità della popolazione originaria è ezida), è in costante aumento l’emigrazione verso l’Europa, soprattutto tra coloro che sono accusati direttamente dalle autorità di essere vicini alle YPG e al PKK.
“Meglio morire in mare che continuare ad essere umiliati qui in Iraq, giorno dopo giorno, da tutti!”, commentavano alcuni ragazzi del campo informale di Khanke, nel distretto di Semel (Duhok).
Per i rifugiati siriani, presenti in circa 220mila in tutta la regione, la loro tradizionale e prevalente vicinanza al PYD/PKK sta diventando sempre più scomoda. Secondo fonti interne all’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, le deportazioni verso la Siria “per ragioni di sicurezza nazionale” stanno aumentando: 61 negli ultimi tre mesi quelle confermate ufficialmente, ma i numeri potrebbero aumentare considerando diversi casi non confermati dalle autorità. Al tempo stesso, anche le richieste di asilo stanno diminuendo. Se per gennaio sono state coerenti con il trend ordinario (161), per quanto riguarda febbraio non se n’è registrata neanche una.
“Il problema è che la gente ha paura di parlarne”, ha dichiarato a Osservatorio Iraq un rifugiato siriano residente a Duhok. “Io stesso ho paura. Credimi, qui ho visto cose che neanche in Siria sotto il regime di Asad credevo possibili”.
Negli ultimi mesi, in effetti, le tensioni infra-curde tra Iraq e Siria hanno visto episodi che potrebbero aver influito su una situazione così descritta.
Lo scorso 17 dicembre, in occasione della Giornata nazionale della bandiera, evento patriottico ideato dal presidente Massoud Barzani, in Siria alcuni curdi legati all’EKNS (Consiglio Nazionale Curdo della Siria) sono stati arrestati dal PYD, provocando la dura reazione del presidente del Kurdistan iracheno.
“Questi ‘cosiddetti curdi’ (PKK/PYD, ndr) hanno sempre causato e continueranno a essere fonti di problemi per il popolo curdo”, ha dichiarato Barzani. “Neanche gli occupanti (riferimento a Iraq, Iran, Siria e Iran, sul territorio storico curdo, ndr) hanno mai fatto cose del genere. Io spero che un giorno se ne vergogneranno”.
Il 15 febbraio in simil modo, in occasione dell’anniversario dell’arresto di Abdullah Ocalan da parte delle autorità turche nel 1999 a Nairobi, a Duhok sono state vietate tutte le manifestazioni pubbliche per i simpatizzanti del PKK.
Ad Erbil una manifestazione è stata concessa ed ha avuto luogo, ma si è svolta in modo pacifico contrariamente ad un’altra dimostrazione tenutasi l’8 febbraio, quando simpatizzanti curdo-iracheni del PKK hanno occupato il piazzale antistante gli uffici delle Nazioni Unite. “Stop al genocidio dei curdi in Turchia” ed “Erdogan assassino” erano gli slogan intonati dai manifestanti, i cui scontri con la polizia hanno portato a 3 arresti.
A completare il quadro delle tensioni infra-curde, c’è il rapporto tra il governo regionale curdo in Iraq e la Turchia. Considerata la crisi economica, il Kurdistan iracheno ha recentemente aumentato la fornitura di petrolio ad Ankara attraverso il condotto di Peshkhabour, che dalla Siria affluisce in Turchia.
Ma a causa delle violenze in corso tra esercito turco e PKK, il condotto è fermo da due settimane, così come gli introiti verso Erbil. A indispettire Barzani, il 18 febbraio, sono state anche le dichiarazioni di un ufficiale del KNC (Gruppo delle Comunità del Kurdistan), formazione turca del PKK, che si è opposto a un nuovo accordo tra Kurdistan iracheno e Turchia sull’approvvigionamento di gas da Erbil verso Ankara.
Come non bastasse, è arrivato anche un nuovo bando nei confronti dei giornalisti di Rudaw ad operare a Kobane, rilasciato il 26 febbraio e ufficialmente valido, secondo una nota del cantone, “finché l’emittente non cambierà la sua politica pro-turca”. **
L’alleanza tra Ankara ed Erbil si esprime anche con la rilevante presenza militare turca in territorio iracheno. Sarebbero tra le mille e le 2mila le unità turche che operano tra il Kurdistan iracheno e la provincia di Ninive, in particolare a Bashiqa, a nord di Mosul, ufficialmente per addestrare sia i peshmerga che l’esercito iracheno contro Daesh.
Ciononostante, la Turchia aveva ricevuto formalmente già a dicembre la richiesta dalla Lega Araba e da Baghdad di lasciare l’Iraq, trattandosi, nelle parole del primo ministro al-Abadi, di una “violazione della sovranità nazionale”.
A queste, Ankara ha risposto in modo ambiguo, dichiarando di trovarsi in Iraq sullo stesso invito di Baghdad e ricordando, inoltre, che “l’Iraq non controlla ormai più un terzo del territorio, e che dovrebbe usare la forza per combattere contro Daesh e non nei confronti della Turchia”.
Al di là dei botta e risposta diplomatici tra Erbil e Baghdad, e l’addossarsi le colpe a vicenda sull’agire indisturbato turco in Iraq, i fatti parlano di regolari raid turchi contro postazioni del PKK, in particolare nell’area del monte Qandil, tra Erbil e Sulaymania, dove, in ultimo, lo scorso 24 febbraio sono state provocate 12 vittime.
Non solo curdi, non solo Daesh
Raid* è un infermiere volontario della Mezza Luna Rossa irachena. E’ a Duhok da un mese circa, e come fatto in altre operazioni a Falluja e Ramadi, ha voglia di rendersi utile e provare ad aiutare le tantissime persone vittime della complicatissima guerra del tutti contro tutti in Iraq.
Ma, siccome l’organizzazione è formalmente irachena, e quasi tutti i suoi operatori, come lui, sono arabi sciiti, in alcune zone non possono lavorare.
A Duhok, questo riguarda soprattutto il distretto di Shekhan, dove è stata relegata la maggior parte degli sfollati di etnia araba, turcomanna, shabak e, più in generale, musulmano-sunnita.
“Gli asahij ci hanno negato l’accesso più volte, anche quando siamo stati chiamati d’urgenza dallo stesso ospedale generale di Duhok per soccorrere una donna incinta”, racconta Raid, sconsolato. Lui, personalmente, si sente al sicuro, “forse perché faccio parte di un’organizzazione”, ma è evidente, dice, “che nei confronti della popolazione non curda non valgono gli stessi diritti”.
Nell’ultimo anno e mezzo al confine tra la linea del fronte tra Daesh e peshmerga sono state documentate non solo riallocazioni forzate – come ad esempio avviene nel campo di Garmawa, nel distretto di Shekhan – ma anche distruzioni deliberate di villaggi a maggioranza araba in tutto il nord dell’Iraq.
Un anno fa, nel febbraio 2015, Human Rights Watch ha pubblicato al riguardo un lungo rapporto, e il mese scorso, gennaio, anche Amnesty International è intervenuta in proposito. Sempre nelle stesse aree, sarebbe stato confermato l’ottavo caso di utilizzo di armi chimiche da parte di Daesh contro i peshmerga, come riportato dall’agenzia Reuters.
Più a sud, ad altre latitudini, lontani da un contesto di così difficile comprensione, a Baghdad si continua a protestare massivamente contro la corruzione endemica della classe politica.
Lo scorso 26 febbraio sarebbero stati in circa 1 milione a scendere in piazza Tahrir, incoraggiati dal leader religioso sciita Moqtada al-Sadr, che aveva dato a gennaio un nuovo ultimatum al governo di al-Abadi per applicare le riforme annunciate ad agosto in seguito a primi movimenti di piazza.
Questa però è un’altra storia, altrettanto ricca e complessa, come non potrebbe essere altrimenti trattandosi di Iraq.
*Nomi di fantasia, per mantenere la riservatezza e la sicurezza delle persone citate.
**Il divieto ad operare per Rudaw da parte delle autorità curdo siriane era stato diramato anche lo scorso agosto. Come allora, anche oggi il Committee to Protect Journalist è intervenuto condannando la decisione di PYD e PKK e auspicando la rimozione del bando.
***Nella foto di copertina: Cimitero di peshmerga, Duhok. Credit Joseph Zarlingo.
February 29, 2016di: Joseph Zarlingo dall’Iraq Iraq,Siria,Articoli Correlati:
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