Libano. Impiegate, non schiave

Il fenomeno dei maltrattamenti delle lavoratrici migranti in Libano è divenuto ormai una piaga sociale. Ma il 2015 inizia con una buona notizia: la decisione da parte di 200 donne di organizzare il primo sindacato del mondo arabo che tuteli i loro diritti.

In Libano ci sono almeno 250 mila migranti provenienti dai paesi del sud est asiatico che lavorano come collaboratrici domestiche. Le condizioni di vita e lavorative a cui sono costrette dai datori di lavoro ricordano gli anni bui della schiavitù.

Malmenate, violentate, spinte al suicidio, segregate in casa, malpagate e in molti casi ridotte alla fame, queste donne, dopo anni di soprusi, hanno deciso di reagire. Di porre un freno agli abusi di cui sono state per troppo tempo oggetto.

Per chi conosce il Libano il fenomeno delle migrant workers costituisce uno degli aspetti più deplorevoli della società. Per molte ragioni.

Da diversi anni ormai, avere una collaboratrice domestica è diventato un vero e proprio status symbol.

Indicatore di un’agiatezza economica reale o presunta, è il marchio di un’ascesa sociale. Se non hai una srilankese, una filippina, una nepalese in casa, non sei nessuno.

Per capire quanto questo fenomeno abbia preso piede nella capitale e in misura minore nel resto del paese, basta affacciarsi la mattina presto dalla finestra di casa e dare un’occhiata ai palazzi circostanti.

Ecco comparire quasi ad ogni piano donne minute spesso in divisa, impegnate a pulire i vetri, spazzare i balconi, battere i tappeti. A Gemmayzeh nel pomeriggio portano a fare una passeggiata i cani e il sabato accompagnano le signore libanesi a fare shopping nei centri commerciali. Mentre le signore sono impegnate a scegliere capi di abbigliamento e accessori, le migrant workrers si prendono cura dei bambini e hanno le braccia cariche di pacchetti e buste.

Non considerate esseri umani ma semplici appendici della famiglia che le ha assunte, queste lavoratrici domestiche vivono ogni giorno in condizioni di estrema vulnerabilità. Sottomesse a violenza fisica, verbale e psicologica, giorno dopo giorno.

I trattamenti denigranti investono anche l’uso comune della lingua: sebbene provengano da molti paesi dell’Africa subsahariana oltre che dal sud est asiatico, sono due gli appellativi che ad esse vengono accordati: “serve” o “srilankesi”.

Si tratta di un fenomeno trasversale, uno di quei rari casi che mette d’accordo, per i comportamenti assunti dai datori di lavoro e per la comune adesione alla rappresentazione sociale che ne è stata data, tutte le confessioni presenti nel paese.

Ma come ha preso piede questo costume sociale e come è possibile che coinvolga così tanti segmenti della popolazione?

All’origini di tutto c’è la Kafala, il sistema comunemente chiamato anche “programma di sponsor”, che vede impegnata un’agenzia stipulare un contratto tra due parti: il datore di lavoro e la collaboratrice domestica.

Entrambe pagano. Generalmente 1.000 euro le migranti del sud est asiatico, circa 2mila le famiglie libanesi. Dal momento della firma e per un anno la donna è legata lavorativamente e non solo al datore di lavoro.

Allo scadere del contratto, se esso non viene rinnovato la sua presenza nel paese diventa illegale. Una volta arrivata in Libano infatti alla collaboratrice domestica viene trattenuto il passaporto, l’unico documento di cui è in possesso e che le permetterebbe di chiedere aiuto presso l’Ambasciata o di scappare.

Nella maggior parte dei casi a queste lavoratrici non viene concesso un giorno di riposo e spesso gli viene vietato di uscire se non con la famiglia presso cui prestano servizio. Diverse organizzazioni libanesi, tra le quali “Amel”, denunciano che per le terribili condizioni di vita imposte dai datori di lavoro nello scorso anno 52 donne si sono tolte la vita.

Ma il dato ancora più allarmante riguarda le morti sospette, veri e propri casi di suicidio consumati all’interno delle mura domestiche.

Lo scorso 22 dicembre fece scalpore la notizia di una donna che a seguito di una lite con il capofamiglia era stata spinta dall’uomo a gettarsi dal terzo piano dell’abitazione dove lavorava. La donna è rimasta gravemente ferita. La notizia è stata diffusa sui principali mezzi di informazione.

Da parte dei datori di lavoro comportamenti così lesivi che calpestano ogni etica e in aperta violazione dei diritti umani sono il frutto anche dell’esclusione delle collaboratrici domestiche dalla Legge Nazionale del Lavoro vigente in Libano, che regola diritti e doveri dei lavoratori e dei datori.

Può essere sufficiente a chiarire fino a che punto queste donne sono prive di tutele il fatto che se decidono di scappare dalle violenze domestiche abbandonando il posto di lavoro, diventano automaticamente illegali. La scelta della libertà ha un prezzo altissimo: possono essere arrestate, condotte in prigione e successivamente rimpatriate.

Ma il 2015 si è aperto con uno spiraglio di luce. Le migrant workers hanno infatti deciso di far valere i propri diritti, di uscire dal cono d’ombra di discriminazione, segregazione e pregiudizi. Con una conferenza stampa tenuta il 26 gennaio scorso, 200 donne hanno annunciato di voler istituire un sindacato che tuteli i loro diritti come categoria.

A sostenerle in questa iniziativa – la prima in assoluto nel mondo arabo – c’è il FENASOL, la Federazione Nazionale dell’Unione dei Lavoratori in Libano. L’obiettivo è di rendere illegale il sistema della Kafala e di garantire diritti quali stipendio minimo, un giorno libero a settimana, l’autonomia di scegliere dove abitare.

“Impiegate, non schiave” affermano le organizzatrici dell’iniziativa, con determinazione.

Queste donne con un meno sulla fronte le ho viste tante volte nel mio soggiorno a Beirut: per le strade, nei taxi collettivi, nei service.

Ogni volta mi facevo domande sulla loro vita quotidiana, sui terribili illeciti compiuti tra le mura domestiche dove lavoravano. Quanta forza ci vuole per gestire una casa lavorando più di 12 ore al giorno, soddisfacendo diligentemente i bisogni di ogni membro della famiglia e al contempo essere oggetto di abusi di varia natura?

A darmi una risposta, o forse a rendere il problema dei diritti delle lavoratrici domestiche in Libano ancora più complesso, è stata la scrittrice May Ghossoub, con il suo libro Leaving Beirut.

Di famiglia cristiana di rito maronita, negli anni della guerra civile May lavorava come volontaria in un dispensario nei pressi della linea verde, in zona musulmana. Nel tentativo di salvare un palestinese ferito venne lei stessa colpita da un proiettile e perse un occhio. Scossa dall’evento ma ancor di più dalle efferatezze del conflitto, decise di partire. Prima Parigi e poi Londra, dove si stabilì.

Tra queste due capitali europee è nato il suo libro.

Un microcosmo di esistenze e di ricordi che culmina con gli anni della guerra. Intorno al conflitto è fiorita una vasta letteratura, molti romanzi e autobiografie. Tutti questi lavori raccontano di una guerra senza vincitori ne vinti, tutti sembrano voler suggerire il peso di una mancata riconciliazione.

Ma in Leaving Beirut c’è qualcosa in più, almeno nel capitolo che ha per titolo “L’eroismo di Um ‘Ali”. Racconta la storia di Latifa, una giovanissima libanese proveniente dalle campagne che lavora come domestica presso una famiglia che May conosce bene.

La descrizione di Latifa calza a pennello con quello che si potrebbe dire oggi delle migrant workers. Una persona a cui è non è riconosciuta alcuna umanità, nessun diritto. Un’ombra che vaga per la stanze chiamata in continuazione ad assolvere qualcosa, ad appagare capricci e necessità della famiglia. Compresi i bisogni sessuali dell’adolescente di casa.

L’epilogo è raggelante: le uniche persone che le riconosceranno umanità e si rivolgeranno a lei usando il minimo richiesto da una conversazione tra persone civili saranno i combattenti, gli sniper asseragliati nei palazzi di fronte alla sua abitazione.

E Latifa scapperà di casa per unirsi a loro. Diventerà un soldato e qualcos’altro ancora, qualcosa frutto di tutte le relazioni ostili che ha avuto nella sua vita. Disumanizzata al punto tale da non avere più alcuna paura mentre la guerra incombe in ogni recesso della città.

Se in passato le collaboratrici domestiche in Libano erano giovanissime ragazze provenienti da aree rurali, e il fenomeno non era così diffuso come oggi, c’è poca differenza nel modo in cui venivano considerate quarant’anni fa e come lo sono oggi.

May Ghossoub si sofferma sulla vita delle schiave di allora, quasi bambine in Libano, come in tantissime altre parti del mondo. Cogliendo un fenomeno sociale che in questo momento vede complice buona parte della popolazione libanese.

*Paola Robino Rizet è Responsabile del Programma di sostegni a distanza in Libano di Un ponte per…

February 15, 2015di: Paola Robino Rizet* Libano,Articoli Correlati:

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