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Da Morsi ad al-Sisi: l’Egitto e il traffico di armi nel Sinai

In Sinai si sta combattendo una guerra scomoda tra le forze di sicurezza che gestiscono il paese e militanti jihadisti schierati con i beduini locali, da sempre ostili al potere centrale. La questione diventa estremamente complessa se si considera l’intersezione di rivendicazioni territoriali, militanze di tipo religioso, dispute internazionali e lucrosi traffici illeciti.

 

L’escalation delle conflittualità nazionali degli ultimi anni nella regione nord-africana ha provocato un circolo vizioso di violenza e traffici illegali, manifestatisi soprattutto nell’incremento del flusso di armi.

La penisola del Sinai in questo senso ha funzionato da catalizzatore ricevendo migliaia di strumenti bellici di bassa e media intensità provenienti da molteplici direttrici: pistole e mitragliatori residuali della resistenza sudanese, anticarro e razzi provenienti dalla Libia e persino armi fornite da frange delle forze armate eritree.

La situazione di instabilità politica dei paesi limitrofi (o di alcune zone, come nel caso della Striscia di Gaza), sommata alla incapacità cronica delle forze armate egiziane di pacificare la regione ha dato luogo a uno scenario estremamente complesso e confuso.

E’ pertanto necessario analizzare entrambe le dimensioni, interna (sia a livello locale che nazionale) e internazionale per capire non solo le dinamiche conflittive, ma anche la funzionalità del traffico di armi, esploso particolarmente nella zona occidentale della penisola e che, in alcuni casi, ha cambiato la direzione di questo tipo di contrabbando.

Dal punto di vista interno, è fondamentale notare come il Sinai sia stato sin dagli anni Novanta il centro delle attività illecite in Egitto. E questo principalmente per due ragioni.

Innanzitutto l’esclusione, voluta da parte del governo di Mubarak, della regione dalla partecipazione alla divisione dei ricavati di energia, commercio e turismo, ha trasformato i beduini della regione in cittadini de facto di seconda fascia. Secondo, a causa della natura stessa del Trattato di Pace del 1979 tra Egitto e Israele, il Sinai è stato pensato come regione-cuscinetto e di conseguenza non è stata sviluppata come si sarebbe potuto per mantenerla una zona di divisione tra i due paesi.

Questa mancanza di sostegno ha spinto gli abitanti della regione a reagire al potere centrale e a intraprendere attività illecite, quali i sequestri e il contrabbando, facilitati dall’elevatissimo livello di corruzione delle forze di sicurezza nella regione.

Questo scenario ha assunto una nuova intensità, anche a causa del contesto internazionale.

Già a partire dal 2007, anno dell’instaurazione della guida di Hamas a Gaza, si è notata un’esacerbazione dello scontro di matrice religiosa nella regione, la crescita di gruppi jihadisti nel Sinai e del numero di strumenti bellici presenti nella regione. L’anno più rilevante è però stato il 2011. L’esplosione dei fenomeni di insurrezione nazionale in tutti i paesi dell’Africa nord-occidentale e il conseguente indebolimento dei regimi autoritari hanno infatti permesso una forte crescita dei traffici illeciti di armi.

La leadership egiziana è stata inoltre altalenante nel gestire la questione nel Sinai.

Sotto la guida della Fratellanza Musulmana, il confronto con la sicurezza nella regione è stato caratterizzato da un fervente scontro interno tra la guida politica e quella militare del paese. Seppur nel suo operato Morsi sembri essersi macchiato di doppiogiochismo nel gestire le relazioni con le compagini beduine e jihadiste, un ruolo decisivo sembra averlo giocato il Generale Al-Sisi, non fornendo al Presidente l’appoggio delle forze armate e facendo apparire quest’ultimo come l’unico artefice del fallimento nella gestione della questione-Sinai. 

Questa intricata situazione interna ha però comportato non solo una minaccia per l’ordine del paese, ma dell’intera regione.

A livello internazionale, Israele e Stati Uniti, sono stati chiaramente i più ferventi sostenitori di una soluzione al problema jihadista nel nord della Penisola del Sinai. I primi per ridurre la minaccia concreta di un rafforzamento di Hamas e di attacchi diretti al territorio israeliano provenienti dalla penisola. I secondi, per tentare di mantenere uno dei pilastri della stabilità regionale in Medio Oriente (l’accordo di pace tra Egitto e Israele) pressando le Forze egiziane a mantenere la propria parte dell’accordo, garantendo un livello accettabile di sicurezza in Sinai.

Il Generale Al-Sisi, in questo senso, si è fatto espressione di questa volontà proveniente da più direzioni e si è presentato con un approccio decisamente più duro nella gestione della questione.

Molti dei tunnel usati per contrabbandare con Gaza sono stati chiusi, così come il passaggio di Rafah. Numerose azioni militari sono state portate a termine in maniera più o meno efficace, causando la lotta intensa che si vive in questi mesi. Da una parte i militanti hanno ucciso quasi 500 membri delle forze di sicurezza dallo scorso luglio, dall’altra le azioni militari si sono dimostrate efficaci a ristabilire un certo livello di sicurezza, soprattutto internazionale, come dimostrano le affermazioni di leader israeliani.

In questo scenario anche il traffico di armi ha seguito le evoluzioni politiche.

Le direttrici principali delle armi che affluiscono in Sinai sono a ovest la Libia, a sud il Sudan e l’Eritrea. Da questi paesi ormai da anni, partono numerosi carichi, per il valore di milioni di dollari di armi non registrate che sono poste al servizio di numerose cause: la resistenza di Hamas, la lotta dei ribelli in Siria, il sostentamento dei gruppi jihadisti e dei contrabbandieri beduini del nord del Sinai.

Durante la presidenza Morsi, il numero di armi che (presumibilmente) sono rimaste in Egitto e non hanno solo attraversato il suo territorio per poi arrivare a Gaza, sarebbero esponenzialmente aumentate a causa della crescente acquisizione dei gruppi jihadisti nel Sinai provocando un forte scontro interno (e internazionale).

Di contro, in particolare dopo la svolta di al-Sisi, non solo è risultato molto difficile mantenere il livello precedente di contrabbando in uscita dal Sinai, ma Hamas si è mobilitata per sostenere (per quanto possibile) quei gruppi nell’area che vengono reputati come coincidenti con i propri interessi.

Nonostante l’implicazione dei gruppi di contrabbandieri e di quelli di lotta eversiva sia senza dubbio preminente, è innegabile la responsabilità delle forze di sicurezza nella questione del contrabbando.

Per quanto una manovra dall’alto sia stata iniziata dalla nuova guida militare, questo tipo di traffico illecito a questa scala sarebbe impossibile senza il sostegno di ufficiali corrotti che, a detta di alcuni, sono i principali responsabili e beneficiari del traffico di armi.

Considerate le manovre degli ultimi mesi intraprese dalle Forze armate egiziane, sembrerebbe che si sia compreso che per bloccare l’operato dei gruppi jihadisti si deve altresì passare attraverso il blocco di gran parte del contrabbando di armi.

 

 

April 11, 2014di: Matteo GramagliaEgitto,Articoli Correlati: 

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