Quello della società civile inascoltata dai governi, dei giovani che non hanno mai smesso di lottare per la democrazia, e oggi quello di sfollati e rifugiati: è “l’altro Iraq”, che abbiamo provato a raccontare in un libro. E che adesso proviamo a raccontare attraverso la voce di un corrispondente sul campo.
Jan era un ballerino. A Damasco guidava un team di hip hop che si esercitava tutti i pomeriggi dopo il college.
“Eravamo una squadra unita, ci divertivamo e condividevamo anche altre cose oltre la danza. Riunirsi per ballare era un’occasione anche per discutere, parlare di politica, di donne, della società, di tutto. Sono nato e cresciuto a Damasco, lì ho imparato tutto”.
Probabilmente anche a sopravvivere.
Da un giorno all’altro lui e i suoi amici non hanno più ballato, né insieme, né da soli. Uno di loro è stato ucciso da un proiettile sparatogli dalle forze del governo: un colpo netto che gli ha perforato la tempia.
E’ successo nel 2011. Jan lo ricorda come “l’anno della rivoluzione”. Dopo quell’episodio e un periodo da ricercato nel proprio paese ha deciso di fuggire per trovare rifugio in Iraq, nella regione del Kurdistan. Da circa due anni vive a Domiz, campo che accoglie oltre 60mila persone arrivate dalla Siria, che dal 2011 non è più la stessa che lui ha conosciuto.
“Ora vivo facendo traduzioni, qui al campo ce n’è sempre bisogno se conosci l’inglese oltre l’arabo e il curdo. Però da un po’ mi sono fermato, sento la necessità di finire gli studi. Voglio finire l’ultimo anno di college per poi iscrivermi all’università”.
Questo è stato l’impatto con Domiz, visitato tra l’altro in condizioni del tutto eccezionali: il torneo di calcetto del campo.
Sedici squadre, quattro gironi, tutto lo staff locale delle agenzie umanitarie operanti nel campo si sfiderà nei prossimi giorni. E’ tutto preparato nei minimi dettagli: le squadre arrivano ciascuna con le proprie divise, c’è un arbitro che regola l’ingresso in campo, ordinato in due file, fino al centro, dove spiega ai giocatori le regole e i comportamenti da tenere.
L’erba sintetica sembra molto buona, ma molti si lamentano della sua lunghezza: rischia di far scivolare troppo. Ai margini del campo le panchine e i supporters “di fiducia”, cioè i privilegiati ad entrare in campo. All’esterno, al di là della rete, i tifosi veri, quelli che urlano. In questo caso una ventina di bambini scatenati, quasi da far invidia agli ultrà nostrani.
Jan è il portiere della squadra di Un ponte per…. Ma la sua partita durerà poco, per l’esattezza fino al quarto gol subito, quando viene sostituito dal capitano Sherwan, che prova a scuotere i suoi dando indicazioni e con qualche parata. Servirà purtroppo a poco: il risultato è di 8 a 1 per la squadra di ACTED.
Il giorno dopo a Domiz, al lavoro, si parla ancora della partita. Sherwan, Sepan, Kadar, Jan e gli altri ci tenevano a fare bella figura. Ci scherzano su, si prendono in giro sulle rispettive prestazioni e circonferenze delle pance, ma sembrano davvero fare sul serio. Decidono di allenarsi nel pomeriggio, in modo da essere pronti per la partita di stasera.
Attimi di normalità? Momenti di vita sana? In un primo momento la tentazione di descrivere la storia del calcetto in questo modo c’è stata, ma per fortuna è andata via un attimo dopo.
C’è ben poco da “normalizzare” a Domiz, e certo un torneo di calcetto non ci riuscirebbe.
In base a quanto ascolto e vedo con i miei occhi, la vita qui sembra avere già i suoi ritmi regolari quotidiani dopo più di due anni in cui tante cose sono cambiate. Dalle tende iniziali si è passati in gran parte dei casi a vere mura in cemento.
Dai piccoli negozi e ristoranti sorti in modo spontaneo a intere strade dedicate ad attività commerciali di ogni tipo. Che si ripetono anche prima dell’ingresso: negozi di vestiti usati, gioielli, caffè, shawarma (in Italia meglio conosciuto come kebab), banchi di cambio.
Superati i controlli si staglia una lunga strada, spesso trafficata di moto con rimorchio (trasportano persone, cose, animali), biciclette, camion, auto e tutta la polvere che solleva ciascun mezzo – di cui i pedoni non sembrano affatto fare caso, come del resto i conducenti che, al contrario, si curano poco dei limiti di velocità.
Sulle strade ai lati di questa si trova di tutto: cliniche, centri ricreativi per bambini e adolescenti, negozi di foto, frutta e verdura, scuole, asili. Bambini che corrono – ti salutano o ti prendono in giro o giocano semplicemente –, muri decorati con disegni bellissimi, il campo di calcetto di fronte al complesso di ong e uffici dell’UNHCR – dove però la polvere sembra scomparire miracolosamente.
Non poco lontano, paradossalmente, c’è l’area-ghetto dei “single”, persone non sposate, che vivono in una stessa tenda o casupola. Perché ghetto? Non è del tutto chiaro, o forse sì. Rimane il fatto che l’impatto visivo è notevole, essendo questa area fisicamente separata dal resto delle altre unità abitative.
Ognuno di questi container o tende – che per tutte queste persone è più semplicemente una vera e propria casa – ha luci, colori, volti e persone che, sono convinto, hanno tantissimo da raccontare.
Mi dicono che storie come quella di Jan non sono affatto una rarità. Anzi.
Hussein, operatore sociale di Un ponte per…, studia psicologia. Mi dice che ogni giorno raccoglie testimonianze di famiglie intere il cui stato psico-sociale è altamente precario. Disturbi post-traumatici di diverso tipo, paura di relazionarsi con il mondo esterno, problemi di linguaggio.
“E’ difficile ascoltare ogni giorno queste storie. Soprattutto perché noi dovremmo essere nella posizione di consolare queste persone, e non sempre ci riusciamo”.
I rifugiati siriani nel Kurdistan iracheno sono circa 222mila. Ne stanno arrivando molti in questi giorni, non solo da Kobane. In condizioni molto simili, se non peggiori perché i campi operativi sono ancora pochi per loro, vivono gli iracheni fuggiti da ovunque sia stato possibile fare in Iraq.
Secondo un ufficiale peshmerga (esercito curdo-iracheno), l’indescrivibile violenza che continua a moltiplicarsi tra Iraq e Siria “è un disastro come mai abbiamo vissuto prima”. Eppure, il passato anche recente, di questi luoghi dovrebbe aver insegnato tanto.
Così non pare, così come non pare a Dohuk che la gente voglia vivere di meno.
I negozi sono aperti tutti i giorni fino a mezzanotte, le file per la benzina la mattina presto sono sempre lunghe (ce n’è di meno, i mezzi dell’esercito hanno la priorità), i bambini giocano, a Domiz si mangia il miglior shawarma, il sole continua a splendere sulle montagne e su tutti noi.
Non è normalità. E’ un insieme intricato e complesso di storie da raccontare che potrebbero aiutare a capire di più.
E forse a spiegare meglio di qualsiasi analisi geo-politica l’infinita violenza che le circonda.
*Stefano Nanni, corrispondente dall’Iraq di Osservatorio Iraq, si trova attualmente a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, come operatore umanitario di Un ponte per… La prima puntata del suo “Diario dall’altro Iraq” è qui.
October 29, 2014di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno*Iraq,Siria,Articoli Correlati:
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