“Dio li guarda dall’alto, a lui dovremo rispondere alla fine” mi dice J. con aria convinta. E io mi chiedo se Dio guardava anche sui villaggi mentre la gente fuggiva, l’estate scorsa. Se guarda chi dorme nelle tende o dentro le case di Dohuk, mentre piove”. Un nuovo racconto di Stefano Nanni dall’Iraq.
“Dio li guarda dall’alto, a lui dovremo rispondere alla fine”. Lo dice con aria convinta J., con il quale difficilmente avrei immaginato di interagire in una versione molto limitata di tedesco.
Qui a Dohuk, Kurdistan, Iraq, per l’occasione negli uffici del Governatorato, fuori dall’Emergency Cell, dipartimento del governo regionale di risposta all’emergenza sfollati.
Lui aspetta di vedere il signor H. per una semplice firma, io ho interrotto l’incontro con la stessa persona perché a quest’ultima è sopraggiunto un imprevisto. Sono visibilmente spazientito, faccio fatica a non camminare avanti e indietro.
Essere lì mi sembra un’autentica perdita di tempo mentre da tutt’altra parte uno dei nostri team* è a Shariya, campo dove alle persone che vi sono state trasferite manca più o meno tutto.
Per telefono mi dicono che la situazione è a dir poco tesa: “Appena arrivati circa 200 persone ci hanno circondati. Non vedevano “esterni” dal giorno in cui sono stati trasferiti. Alcuni credevano avessimo portato loro del cibo, coperte, cherosene, stufe. Altri volevano giornali e televisioni, e li volevano lì, per riprendere le condizioni in cui vivono”.
J. anche non sprizza di gioia, ma sorride e inizia a spiegarmi le ragioni della sua presenza.
Curdo, cristiano, vive in Germania da 17 anni, vicino Stoccarda. Mi spiega che da agosto, insieme al comune e alla parrocchia del suo villaggio, sta portando aiuti alla comunità yazida che si sta rifugiando nel Kurdistan iracheno.
Vestiti, in particolare, e soldi quando possibile. Mostra le foto e i video del confezionamento avvenuto in Germania, così come la firma di un assegno di 3mila euro di donazione da parte del sindaco. “E’ stato semplice, sono andato da lui, ho spiegato la situazione in Iraq e ho chiesto se il Comune poteva contribuire con un gesto di solidarietà. Una firma e via”.
Da qui comincia ad imbronciarsi e a spazientirsi anche lui. “Qui è impossibile agire in tempi rapidi a un’emergenza! Ogni volta per una sola firma che mi dia il via libera alla distribuzione devo girare per 10 uffici. E fuori la gente soffre…ma l’hai vista anche tu”.
Non gli do torto. In quel momento vorrei andarmene e raggiungere gli altri colleghi di Un ponte per… e dare loro una mano. Ne hanno un bisogno incredibile e, prima di loro, ne occorre al DMC, unità operativa del governo che agisce in coordinamento con l’Emergency Cell e il Governatorato.
E’ a loro che la nostra squadra sta offrendo aiuto per la registrazione e la raccolta di informazioni delle oltre 3mila persone che da un giorno all’altro si sono ritrovate a vivere lontane dalle città.
Con solo bagni e acqua corrente disponibili che, ricorda un signore, funzionano anche abbastanza bene. Ma non c’è cibo, niente riscaldamenti, una sola cucina per settore (cioè il “quartiere” di un campo), assenza totale di centri medici, pannolini, assorbenti, neanche i tappeti all’interno delle tende, né tantomeno il cemento come base.
Ghiaia, pura e fangosa, al suo posto.
In simili condizioni le persone più vulnerabili pagano per prime. Chi ha disabilità e non è autonomo non può vivere così. Sopravvive, e lo fa con il cancro, senza vederci, con problemi di talassemia e tutti portandosi dietro le ferite del loro incontro con Da’esh (l’acronimo arabo di Stato Islamico, ndr).
Sono per lo più yazidi, e tanti sono i racconti che il nostro team raccoglie. Membri della famiglia uccisi, rapiti e poi liberati – ma come si rientra in società dopo aver subito abusi di ogni tipo? E dov’è la società? – , bruciature, problemi fisici di ogni tipo.
Si sentono accerchiati, temono per i loro bambini e le loro donne. E spesso temono a prescindere, con conseguenti incomprensioni che hanno bisogno di poco tempo per sfociare in scontri non solo verbali. Succede in due occasioni nella giornata di domenica, e questo porta ad annullare il lavoro il giorno successivo: la sicurezza, ci dicono dal DMC, è al limite del sostenibile.
Il sig. H. mi riceve di nuovo. Ultimiamo la revisione della guida per la prevenzione degli incendi che distribuiremo sia nei campi che nelle aree urbane. In breve, ovunque ciò possa essere utile a non ripetersi di incidenti che hanno causato la morte di non poche persone – come se la violenza intenzionale in circolazione non bastasse già da sola.
“In breve” non è comunque una battuta, è più un ottimismo della volontà in una situazione in cui il pessimismo della ragione la fa da padrone.
Lascio gli uffici del governo e mi dirigo verso Domiz. Fuori piove, in certi momenti poco, in altri troppo. Da Shariya le notizie continuano ad arrivare, e si ripeteranno fino al ritorno del team a Dohuk.
Che racconta e racconta e racconta. Mettendo nero su bianco, mentre i meeting tra Ong e agenzie Onu mi sembravano ancor più lunghi del solito.
L’occasione per riportare la situazione ha almeno prodotto qualche movimento. Il giorno seguente una squadra dell’Unfpa è andata al campo di Shariya per provare a distribuire kit igienici, ma purtroppo è stata rimandata indietro per motivi di sicurezza.
Due giorni sono passati ed oggi la situazione era simile. Di nuovo, all’arrivo del nostro team la frustrazione delle persone era ancora più forte. Ed è proseguita, attenuandosi forse soltanto per quel po’ di calore del timido sole di oggi.
Io e altri due colleghi siamo stati invece a Chammishku. Per trovare una situazione molto simile e molto diversa. In termini di servizi si è vicini allo zero anche qui. Ma la prima cosa che ci ha detto un ragazzo, dall’ottimo inglese, è stata: “Dateci un lavoro, del cibo, e qui noi ci arrangiamo da soli”.
E’ vero. Qui le tende sono più grandi, hanno le porte – ma senza maniglie, o meglio, alcune sono state distribuite ma toccava alle famiglie montarle – e addirittura c’è un bagno e una cucina per famiglia.
Standard inattesi, si potrebbe pensare, così come si intuisce facilmente che il campo è una Ferrari, ma senza benzina. E in effetti il cherosene non c’è. Oggi distribuivano i bidoni vuoti, segno che arriverà presto – quando, visto che il freddo non aspetta?
Anche le distribuzioni di cibo sono in arrivo. Mentre visitiamo il campo incontriamo rappresentanti del World Food Programme (WFP) che ci spiegano come manchi solo la lista preparata dal DMC.
C’è chi invece non ha bisogno di aspettare nessuno. E’ il pane, e l’amore che solo una donna può infondere alle cose che fa.
Incontriamo entrambi alla fine del campo, dove ci spingiamo per vedere la zona più fangosa e capire perché sia tale. In un angolo di terra asciutta una signora è china vicino ad una piastra riscaldata da soli carboni roventi e carta da bruciare.
Cucina il pane: con cura prende la pasta tra le mani, la accarezza e modella su un cuscino e la adagia sulla piastra. Ci invita a provarlo, e quel profumo ancora tra le narici mi dice che ho sbagliato a non assaggiarlo.
“Per favore, se è possibile fateci avere altre piastre, alle donne qui piace fare il pane in questo modo”.
Viene da un villaggio vicino Sinjar, è fuggita come tanti lo scorso agosto.
Chissà se Dio guardava anche in quel caso, e se guarda tutti i meeting che si fanno e che sembrano non finire mai, se guarda chi dorme nella tenda e li protegge, e se guarda dentro le case di Dohuk mentre piove, di notte.
Sì, magari guarda anche chi convince le persone a lasciare le scuole dove illegalmente stavano trovando un minimo di integrazione con il resto della comunità. E forse guarda anche quei bambini che non vedono l’ora di tornare a studiare, in quelle scuole.
Ma se guarda, cosa fa e cosa può fare? Lo so, è banale chiudere così questa pagina, ma qui è difficile guardare e non agire, vedere e non sentire. Le domande si ripetono, le risposte non soddisfano, le azioni non finiscono.
E c’è chi trasforma il negativo in positivo, e il fango in pane.
*Stefano Nanni, nostro corrispondente dall’Iraq, si trova attualmente a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, come operatore umanitario di Un ponte per…Le altre puntate del suo diario si trovano qui. Con queste corrispondenze stiamo tentando di dare continuità al lavoro del nostro libro, con cui abbiamo cercato di raccontare “l’altro Iraq”, quello che scompare dalle cronache, e che resiste.
November 19, 2014di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno*Iraq,Articoli Correlati:
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