Diario dall’altro Iraq/ 7. Parole e giorni

“Puoi provare a raccontare l’altro Iraq con le parole, con le foto, con il lavoro. Ma i giorni passano e non riesci a capire se non ti dai il tempo di vivere e abbracciarne la bellezza. Soprattutto oggi, che è così fragile”. Un nuovo racconto di Stefano Nanni dall’Iraq. 

 

 

 

In Iraq il tempo è un concetto alquanto relativo. Lo è ovunque, è chiaro, e siamo lontani anni luce da discorsi sui massimi sistemi. Ma l’intensità, la forza con cui gli eventi si susseguono danno alle parole come “giorni”, “immediato”, “secoli”, “minuti” un signifcato radicalmente diverso a seconda dei luoghi e delle persone che ad essi reagiscono. 

M. è un peshmerga, soldato dell’esercito curdo. Di fede cristiana, fa il guardiano della chiesa di Mart Alaa di Dohuk, ma vorrebbe andare a vivere subito negli Stati Uniti.

Dice che non gli dispiacerebbe neanche l’Australia o il Canada. Ma “se Dio vorrà raggiungerò i miei amici in America, dove vivono da qualche anno”.

Dopo “la Guerra”, racconta, “dal 2004 al 2011 abbiamo combattutto con gli americani contro il terrorismo. Così molti di noi sono andati via, e ora hanno una vita piena di successi. Non come qui, in Iraq”.

La vita per i cristiani qui non è piu possibile, dice. “Se prima, secoli fa, si era tutti uniti” – e lo spiega con la mano tesa e le dita unite tra loro – “ora basta andare a fare la spesa al supermercato e ti senti osservato da qualcuno che vuole capire di che religione sei”.

Lavora tutti giorni dalle 10 alle 18. Oltre alla presenza fissa al cancello, dove oltre alla mitragliatrice accoglie gli sparuti visitatori con un sorriso a 32 denti, M. è autorizzato ad aprire e chiudere le porte della chiesa. Decide lui, in pratica, chi può entrare e chi no. Ma invita tutti, sorridendo, alla messa della domenica, “la prima alle 7.30 e la seconda alle 4 del pomeriggio”.

Per M. il tempo sembra essere scandito meccanicamente da date e numeri, ma sul futuro non si esprime. “Quando andrò via? Presto, un giorno, con tutta la mia famiglia”.

‘Presto’ è anche la parola che ripete spesso B. L’ho incontrato per la prima volta 3 settimane fa, a Chammishku, campo per sfollati che ospita ad oggi quasi 5 mila famiglie.

Allora le condizioni erano molto piu’ critiche di oggi, quando distribuzioni di abiti e materiali per l’inverno sono regolari, l’acqua sembra non mancare e forse anche il cibo pare non essere un grosso problema. Per “grosso” si intende che un pasto al giorno, in media, riescono a farlo tutti, per lo meno bambini e donne. “Presto le cose si sistemeranno”, la stessa frase detta oggi l’ha ripetuta anche allora. 

“Presto ci rivedremo, magari”, mi aveva salutato di fretta perché doveva andare in ospedale per portare il figlio, che mi ha presentato oggi. Cinque anni, passa la maggior parte del tempo in tenda, disteso su un materasso a guardare i cartoni animati.

Cammina poco e male, avendo subito un’intervento chirurgico molto delicato a una gamba. Lo scorso agosto insieme alla famiglia e ad altre decine di migliaia di ezidi è fuggito dalla città di Sinjar invasa da Daaesh verso le montagne rocciose che separano l’Iraq dalla regione semi-autonoma del Kurdistan.

In 7, infiniti giorni trascorsi senza acqua ne’ cibo, è caduto, rovinandosi interamente la gamba destra. Averla tenuta fasciata per diverso tempo senza un’adeguata medicazione ha complicato le cose. Ora, nonostante una protesi in platino, rischia che il calvario non finisca qui. Ma “presto andrà meglio, molto meglio”, dice suo padre. E sembra dirlo anche lui, che guarda curioso e sorridente, come se niente fosse. 

‘Come se niente fosse’ è il modo in cui A. racconta con precisione il momento in cui è arrivato al campo di Bajet Kandala, villaggio al confine con la Siria, dove il 3 agosto sono arrivate le prime migliaia di persone in fuga dai dintorni di Sinjar.

“Quattro mesi e 4 giorni”, dice senza esitazione. “E’ da allora che la mia vita non è stata più la stessa e non so se sarà mai come prima”. Il lavoro di insegnante di inglese nelle scuole primarie, le uscite con gli amici, la voglia di riprendere gli studi, “per migliorarsi, e magari tentare la fortuna all’estero”. Sogno che non ha abbandonato ora, “ma occorrono tempo, soldi e fortuna”. Ingredienti che mancano tutti, ora, anche a Bajet Kandala che rappresenta il campo per sfollati più longevo degli altri.

Ormai vi vivono oltre 13 mila persone, organizzatesi già con attività commerciali di vario tipo, evidenti sin dall’ingresso, dove si alternano mercati della frutta, del pane e salti dei bambini tra le pozzanghere. Un traffico di vita che di certo non fa caso ai gas di scarico dei tir trasfrontalieri che vanno e vengono dalla Turchia. E non a velocità ridotta.

Ci sono altre persone per cui il tempo scorre molto in fretta. Vorrebbero fermarlo, cercano qualcuno che possa aiutarli. Ma fino ad ora non l’hanno trovato. Non tutti. 

Le 35 famiglie ezide che vivono in un complesso di edifici non completati nell’area di Malta rischiavano di essere sfrattate ieri dal proprietario. Vivono lì da 4 mesi, almeno. Centoventi persone che cucinano, dormono, scrivono, pensano in un luogo dove i ferri del cemento armato sono i soprammobili, il cortile del retro il bagno a cielo aperto, le mura che mancano le finestre trasparenti.

‘Rischiavano’ perché grazie alla mediazione di Uday, operatore di Un ponte per…, ezida anche lui rifugiatosi a Dohuk, il proprietario ha accettato di prolungare la permanenza di 25 giorni, anziché i due iniziali di minaccia di “sfratto immediato”. 

‘Immediato’, al contrario, è un intervento che stenta ad arrivare da parte di chi, rispetto a Un ponte per…, è sicuramente in una posizione più autorevole per impedire, legalmente, che altre 12 famiglie siano costrette a vivere in strada a partire da oggi.

Sono disposte ad andare in qualsiasi campo, lì almeno avranno una tenda e un posto al riparo, anche se temono che una volta entrati non ne usciranno più. Potendo, eviterebbero il campo di Shariya, ‘famoso’ per le sue tende senza base in cemento e l’acqua che entra da tutte le parti, se piove – e in Kurdistan la pioggia non manca. Mancano invece, ora, le tende disponibili nei campi, e questo è un problema altrettanto grave. 

Dopo 4 mesi, la gente che ha concesso loro di rifugiarvisi, che ha offerto del cibo e del sostegno di ogni tipo sin dall’inizio, ha evidentemente esaurito la pazienza. E vuole tornare alla normalità, a “una casa pagata con duro lavoro e che ora voglio avere il diritto di costruire”. Nel frattempo i giorni passano, i minuti ancora più in fretta: 25 o 2 giorni sembrano far poca differenza se non c’è luce alla fine del tunnel.

In Iraq, in 25 o 2 giorni può succedere di tutto. Un progetto passa dal cuore delle sue attività alla fine. Intanto se ne scrivono altri, si finalizza l’assunzione dello staff, si raccolgono e comunicano informazioni che possono cambiare la vita.

Si macinano chilometri, si fa tardi la notte. Si viene cacciati di casa, di nuovo, e anche se si fa fatica a definirla tale. Si rompono e bruciano tende. Si prendono scosse elettriche, la corrente va via 4 o 5 volte in un’ora, si discute in ufficio. Si ripetono attentati, i soldati statunitensi ottengono l’immunità per le loro azioni presenti e future, Daaesh giustizia decine di “traditori”, il governo centrale di Baghdad distribuisce soldi agli sfollati, il petrolio brucia. Una donna tiene in braccio sua figlia, pulisce per terra e intanto prepara il pranzo dopo aver fatto il bucato.

A fare la differenza non è il tempo. E’ la determinazione e il sorriso con cui un operatore umanitario porta avanti il suo lavoro pur senza indicazioni chiare e dettagliate. 

Perché lui o lei sanno meglio di chiunque altro che cosa e come deve devono fare per sostenersi, essendo al tempo stesso oggetto e soggetto della risposta umanitaria. E’ la capacità di guardare ai problemi da un’angolazione diversa, quella della pazienza, nonostante Daaesh, Saddam, Iran e Stati Uniti e tutto ciò che hanno comportato.

Se ‘l’altro Iraq’ significa qualcosa, è proprio questo. Puoi provare a raccontarlo in tutti i modi. Con le foto, con le parole, con il lavoro. Ma i giorni passano e non riesci a capire se non ti dai del tempo. Tutta questa bellezza ha bisogno di essere vissuta, abbracciata, tenuta per mano. 

Ancora di piu oggi, che si esprime e resiste in tutta la sua fragilità. 

 

*Stefano Nanni nostro corrispondente dall’Iraq, si trova attualmente a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, come operatore umanitario di Un ponte per… Le altre puntate del suo diario si trovano qui. Con queste corrispondenze stiamo tentando di dare continuità al lavoro del nostro libro, con cui abbiamo cercato di raccontare “l’altro Iraq”, quello che scompare dalle cronache, e che resiste. La foto di copertina è di Salam Saloo. 

 

December 09, 2014di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno*Iraq,Articoli Correlati: 

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