“L’assistenza umanitaria in Kurdistan fa acqua da tutte le parti e si regge fragilmente sulla capacità di poche persone, mentre l’inverno non fa sconti. C’è chi ritiene che sfollati e rifugiati vogliano soltanto ricevere, passivamente, qualcosa. Mentre andrebbero solo ascoltati un po’ di più”. Un nuovo racconto di Stefano Nanni da Dohuk.
“Quando queste persone vedranno un po’ di cibo vedrai come saranno più tranquille”.
Letta semplicemente così questa frase perde l’effetto avuto nel momento esatto in cui è stata pronunciata. Circa 15 giorni fa, dopo una manifestazione di protesta che ha interessato il campo di Shariya, a soli 15 minuti di Dohuk e noto per le sue condizioni poco “attraenti”.
In particolare, tutti conoscono l’assenza di una base in cemento per le tende – che in caso di pioggia si trasformano in gelide e fangose vasche da bagno -, la scarsità di servizi igienici e le recinzioni per ogni settore.
Unito a una generale mancanza di servizi (cibo, kit invernali, riscaldamento), soprattutto nelle prime due settimane, questa situazione ha suscitato rabbia e frustrazione. Lo scorso 30 novembre circa 200 persone, tutte insieme, volevano essere ricevute dal camp manager che tuttavia ha declinato la richiesta, innescando lanci di pietre e vistose proteste.
La calma è stata riportata dagli hasaij, agenti di sicurezza e intelligence in Kurdistan, con colpi di fuoco sparati in aria per allontanare le persone.
Qualche giorno dopo, riportando la situazione in un incontro di coordinamento generale tra agenzie ONU, governative e non, c’è stata l’occasione di scambiare due parole con un responsabile delle distribuzioni di cibo in tutta la regione.
Domande semplici, approccio gentile ed educato, per sapere più che altro quando i primi kit alimentari sarebbero passati dalle tende-magazzino di Shariya alle famiglie.
E così la risposta di cui sopra, accompagnata dal gesto eclatante di una mano che fa finta di chiudere la bocca, con una cerniera.
Questa storia, lontana da Shariya, può iniziare ora. Ma lo farà dalla sua fine.
Dalla fine di un uomo che ha vissuto gli ultimi due mesi forse senza accorgersene.
Da solo, con la sua tenda, i suoi dolori, le sue paure, e due volontari che una volta al giorno provavano a convincerlo che forse valeva ancora la pena. Farsi una doccia, provare a fare due passi, alzarsi semplicemente dal materasso, o almeno cambiare posizione, in modo da far respirare le piaghe che separavano ormai la pelle dal suo corpo, sul lato sinistro.
In quel modo ad Izzo piaceva dormire, e trascorrere le giornata, a volte senza mai alzarsi, con le braccia conserte. Borbottando a chiunque osasse entrare in tenda per disturbarlo, suscitando la curiosità di alcuni bambini e non solo, che questa dinamica la chiamavano “gioco”.
Izzo è morto ieri, di disidratazione. Non lascia nulla a parenti, amici o conoscenti. Perché pare non ne avesse.
Era arrivato solo al campo di Garmawa, poco al di là del confine tra il Kurdistan e il resto del paese, in ottobre. Non si sa come e perché. Pare che nessuno avesse mai conosciuto i suoi familiari, nonostante molti residenti vengano da Zummar, dalla Piana di Ninive, come lui.
“La famiglia lo ha abbandonato. Se ne sono andati perché è strano, non è stabile”. Dicevano così le persone del campo, dove vivono 320 famiglie tra ezidi, shabak, turcomanni e arabi sunniti, poco dopo il loro arrivo.
Fuggiti tutti dai quei primi, soffocanti giorni di agosto in cui Daesh, dopo aver sconvolto l’area di Sinjar, poco più a sud-ovest, ha conquistato anche Zummar.
Circa 2mila persone sono rimaste nella zona contesa di Baadre, tra Kurdistan e Piana di Ninive, a sud di Dohuk. Ma dopo che i peshmerga, da fine agosto in poi, hanno ripreso Zummar, diversi movimenti tra arrivi e partenze hanno plasmato la struttura e la composizione di questo campo.
Garmawa è ancora oggi una via di mezzo tra un campo formale e un’area di transito, una sorta di limbo dove però risiedono ormai in pianta più o meno stabile circa 1.700 persone.
Queste si sono spostate più volte nell’arco di 5-6 chilometri, per ragioni di sicurezza e logistiche. Arriva, sistema le tue cose in una tenda, comincia ad organizzarti con bagni, docce e cucine. Smonta tutto, prendi i bambini, lascia la tenda e spostati più in là, tra fango, pioggia e freddo.
Izzo invece no, non si è mai spostato da quella tenda quasi al centro del campo. Alle offerte di assistenza specifica rispondeva pronunciando poche e incomprensibili parole, anche per chi ha provato a parlarci più volte, tra psicologi e personale esperto.
“Quest’uomo ha deciso di farla finita, ormai tanto tempo fa. Non è il cibo, né una sedia a rotelle, né tantomeno un materasso adatto che gli faranno cambiare idea. E’ ormai questione di giorni”, confidava una psicologa.
Di giorni ne sono passati tanti, a Garmawa sono sorte tende con base in cemento, da un campo di transito si sta passando sempre più a un insediamento formale.
I lavori di costruzione vanno avanti ogni giorno, si svolgono attività regolarmente, i bambini vanno nella scuola di Birzaw, villaggio cristiano alle porte del campo. Percorrono i due chilometri del tragitto a piedi, ma ci vanno, così come le donne si organizzano per il pane e gli uomini cercano di raccimolare un po’ di denaro con qualche lavoretto, fuori dal campo, agevolati anche da un camp manager e dal suo staff che si prende cura della comunità.
La sente “sua”, conosce le persone una ad una, le saluta con un bacio al primo giorno di lavoro, ricorda loro di portarsi la giacca. Per proteggersi, fuori da Garmawa.
Questa parvenza di normalità è stata però intervallata da 14 lunghissimi giorni in cui l’attesa era l’argomento principale. Improvvisamente è venuto a mancare il cibo, distribuito puntualmente il 28 di ogni mese.
Per problemi tutt’ora sconosciuti, la distribuzione del kit mensile di base non è avvenuta. La gente chiedeva, si interrogava, parlava con chiunque potesse fare qualcosa dall’esterno. Ma non disperava, e accoglieva con piacere attività che non parlassero di cibo, ma di come evitare incendi nel campo, ascoltando i vigili del fuoco, leggendo e guardando il materiale informativo che Un ponte per… ha sviluppato nell’ambito del progetto di Mass Communication.
Certo, anche in quel caso si è parlato di cibo. Ed è stata un’occasione in più per provare a fare qualcosa.
Una, due, tre telefonate in più. Un incontro per cercare alternative all’agenzia predisposta alla distribuzione di cibo che stava avendo problemi. Presentare la situazione a chi di competenza e ne era ignaro.
Intanto non una protesta o gesto scomposto da parte della gente.
Chiamatela informazione, coordinamento opppure comunicazione. Ma il giorno dopo il cibo è arrivato, e da Garmawa sono arrivati ringraziamenti allo staff di Un ponte per…, che non credeva in realtà di avere avuto un ruolo così decisivo come in effetti si è rivelato.
“Grazie infinite per i vostri sforzi, avete avuto un grande ruolo nella distribuzione di cibo. Grazie ancora!”.
Izzo tutto questo lo ha ignorato. Venerdì scorso è rimasto nella sua tenda, ai due volontari che gli avranno portato il cibo avrà sibillato gli stessi suoni che ormai le mosche che avevano fatto della sua tenda una casa conoscevano molto bene.
Ha ignorato anche che i peshmerga hanno liberato Zummar un mese fa. Che tante migliaia di persone continuano a fuggire da Daesh. Che a Shariya le condizioni migliorano giorno dopo giorno.
Che l’assistenza umanitaria in Kurdistan fa acqua da tutte le parti e si regge fragilmente sulla capacità di poche persone, mentre l’inverno non fa sconti. E mentre c’è chi in posizioni di rilievo ritiene che le “gli IDPs”, “sfollati” o “rifugiati” vogliano soltanto ricevere, passivamente, qualcosa.
E’ vero che a pancia piena si pensa meglio. E’ però altrettanto vero che una testa vuota può essere più pesante di una pancia vuota. Izzo non mangiava, beveva poco, eppure riusciva a sollevare a fatica il peso del suo corpo. Difficile immaginare cosa pensava o cosa si sarebbe potuto fare.
Ora che è morto sappiamo soltanto che non viveva di solo pane.
E forse andava soltanto ascoltato un po’ di più.
*Stefano Nanni nostro corrispondente dall’Iraq, si trova attualmente a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, come operatore umanitario di Un ponte per… Le altre puntate del suo diario si trovano qui. Con queste corrispondenze stiamo tentando di dare continuità al lavoro del nostro libro, con cui abbiamo cercato di raccontare “l’altro Iraq”, quello che scompare dalle cronache, e che resiste. La foto di copertina è di Lukáš Voborský.
December 19, 2014di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno*Iraq,Articoli Correlati:
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