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Diario dall’altro Iraq/9. “Festa, lasciaci in pace”

La notizia della liberazione del Sinjar da parte dei peshmerga ha fatto esplodere la gioia nella comunità ezida. Che è stata sostituita in breve dallo sconforto per il destino ancora sconosciuto delle tante giovani rapite da Daesh l’estate scorsa. Una nuova pagina del diario di Stefano Nanni da Dohuk. 

 

Sono lieto di poter offrire il successo dei peshmerga agli Ezidi nel giorno della loro festa del digiuno. Questo successo è il premio più appropriato che posso offire loro”. Parole del Presidente – con la P maiuscola – in prima persona, in un messaggio in diretta tv, venerdì scorso.

In Kurdistan la figura di Massoud Barzani è ovunque. Nelle automobili, nei ristoranti, negli uffici, sulle bandiere, nei discorsi in strada, dal panettiere e dal barbiere. 

Non poteva non esserci venerdì 19. Non un giorno qualunque: il venerdì del Lint, che segue i tre giorni di digiuno che gli ezidi osservano ogni anno a dicembre. Giorni di spiritualità, di contatto diretto con la natura e Dio, in cui non si mangia e beve fino alle 5 del pomeriggio, si prega, si fa visita a parenti ed amici.

Ci si riconcilia, soprattutto, qualsiasi sia stata la ragione della discordia. Il ritorno della pace si sugella alla fine di questi giorni, il venerdì, appunto: si visitano i tempi, e chi può va a Lalish, luogo sacro ezida per eccellenza. 

Ma venerdì non era un giorno qualunque, anche per altre ragioni. L’annuncio di Barzani segue l’avanzata dei peshmerga nell’area di Sinjar.

Secondo il Presidente, oltre 3mila chilometri quadrati sono stati liberati dalla presenza di Daesh, che a quanto pare ha defezionato senza colpo ferire, in ritirata. Che sia strategica o meno, e quanto ci sia da festeggiare davvero, è presto per saperlo.

Venerdì scorso, l’avanzata è stata tale da entrare nella città che lo scorso agosto è stata svuotata quasi interamente dei suoi abitanti, la stragrande maggior parte dei quali vive oggi nella regione del Kurdistan, insieme ad altri circa 900mila sfollati iracheni. 

Per questo venerdì sera c’era un clima di festa, a partire dai curdi che rumoreggiavano con clacson e canti per le strade di Erbil e Dohuk, inneggiando ai peshmerga e al Presidente. Anche nei campi, e negli edifici ancora in costruzione, ovunque la comunità ezida stia trovando un rifugio, la gente era contenta.

Si tornerà a casa presto, finalmente!”, “Daesh è stato sconfitto”, “Quest’incubo è finito” sono state alcune frasi raccolte da colleghi e amici.

Un entusiasmo contrastante, tuttavia: all’immediata gioia è sopraggiunta presto la rabbia e il timore di madri e mogli, che i giorni seguenti hanno visto gli uomini partire da volontari sulle montagne, “per dare man forte ai fratelli peshmerga”. 

Rabbia ed entusiasmo. Non potrebbe essere diversamente, in Iraq, dove tutto cambia da un giorno all’altro. Ma il freddo, la povertà, le condizioni da rifugiato inziano a essere durevoli, pesantemente.

E pesano ancora di più a Natale, per il Lint, nei giorni di festa.

Oggi questo diario è una lettera aperta, scritta da Nawzat Abo-Evan, rifugiato ad Erbil, fuggito da Bashiqa 4 mesi fa, rivolta alla festa.

Che rimane sempre bella, e tale deve essere, se lo è per tutti, senza riguardo per identità, nazionalità, cultura o religione.

 

Il digiuno si tiene nella terza settimana di dicembre, e dura tre giorni: martedì, mercoledì, giovedì. Il venerdì si festeggia. Una festa che si tiene ogni anno da centinaia di anni e alla quale gli ezidi partecipano in ogni villaggio e in ogni casa con estrema gioia. La felicità é tale che illumina loro il volto. Quegli stessi volti portatori di pace e generosità.

Fin dal mattino presto si suona musica tradizionale seguita da botti che annunciano l’inizio della celebrazione. E appena prima del tramonto si visitano le tombe dei propri cari; le famiglie che hanno perso un proprio caro più di un anno fa si raccolgono nel tempio per ricevere le condoglianze dagli abitanti del villaggio. Al termine di questo rito iniziano le celebrazioni. I bambini in festa si notano per i loro vestiti colorati e le mani piene di caramelle.

Ma quest’anno non vi è nulla da festeggiare. La tristezza e l’oscurità traspare dai volti degli anziani così come dei giovani, degli uomini così come delle donne. Vi sono migliaia di ezidi rapiti da Daesh. Sono i nemici della luce, sono pipistrelli appartenenti all’oscurità che – il 3 agosto 2014 – hanno invaso i nostri villaggi.

Occupandoli, Daesh ha commesso crimini inimmaginabili, vergognosi.

Si tratta di un vero e proprio genocidio in corso: hanno massacrato e ucciso innocenti a sangue freddo. Migliaia di ragazze ezide sono state stuprate e portate all’estero per essere vendute come schiave.

Centinaia di bambini sono morti per sete e fame sulle montagne del Sinjar, scappando dall’oppressione dei criminali. In migliaia hanno dovuto abbandonare le proprie case in seguito al saccheggio, depredazione e distruzione dovuti all’avanzata di Daesh.

Ora c’è qualcosa che si è rotto nelle relazioni tra le persone; le relazioni non esistono più. Il fratello non può più incontrare un fratello, l’amico non può più incontrare un amico. I figli ezidi son dispersi per il Kurdistan e vivono in scuole, sotto i ponti, e in tende. Come si può festeggiare?

Persino i tempi e i cimiteri non sono liberi dal male; hanno distrutto i nostri santuari. Come si può festeggiare?

Molti nei campi tremano dal freddo, si addormentano affamati e le loro lacrime scorrono sulle guance coperte di polvere. Come si può festeggiare quando ci sono madri che aspettano, dalla mattina alla sera, che le loro figlie rapite ritornino? Come si può festeggiare?

Gli ezidi – per quest’anno – hanno poco da celebrare, e gli auguri si son trasformati in condoglianze e in parole di consolazione. Non si festeggerà fino al ritorno delle donne rapite.

Non si festeggerà finchè ogni nostra città sacra verrà liberata, finchè gli sfollati non torneranno a casa. Non si può festeggiare finchè ci sentiamo minacciati nella nostra madre terra.

Oh festa…non venire a bussare alle nostre porte perchè nessuno risponderà! Lasciaci in pace a meno che non torni con la promessa di liberazione, goia e di una vita sicura. Lasciaci in pace, festa, lasciaci in pace”.

 

*Stefano Nanni nostro corrispondente dall’Iraq, si trova attualmente a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, come operatore umanitario di Un ponte per… Le altre puntate del suo diario si trovano qui. Con queste corrispondenze stiamo tentando di dare continuità al lavoro del nostro libro, con cui abbiamo cercato di raccontare “l’altro Iraq”, quello che scompare dalle cronache, e che resiste. La traduzione della lettera di Nasrat é a cura di Zinah al-Azzawi ed Eleonora Gatto.

 

December 23, 2014di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno*Iraq,Articoli Correlati: 

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