di Cecilia Dalla Negra
Le donne sono stanche. Stanche che la gente domandi loro “quando ti sposi” e non “cosa studi”. Stanche che in famiglia le mettano all’erta – “le persone parleranno di te, giudicheranno le tue azioni” – e che lo stesso non valga per gli uomini.
Stanche di essere considerate normali solo se mogli e madri. Solo se fragili, emozionali, sensibili.
Stanche di doversi coprire dalla testa ai piedi perché il loro corpo rappresenta una “tentazione” per l’uomo; che patriarcato e maschilismo siano ancora le coordinate sulle quali impostare le scelte di una vita.
Stanche, ma non arrese. Per questo, su Facebook, ci mettono la faccia. “E’ tempo che le donne prendano in mano il proprio destino, lottando contro il machismo che fa di un padre, un marito o un fratello un dittatore dentro casa. È tempo che le donne e gli uomini si uniscano contro l’oppressione nel mondo arabo, che dicano ‘no’ alla violenza di genere, ‘no’ alla cittadinanza di seconda categoria”.
Si legge così sulla pagina della campagna “Uprising of Women in the Arab World”, nata nell’ottobre del 2011 e giunta al suo primo anno di vita, grazie all’iniziativa di quattro donne che hanno letteralmente invaso il web di foto e slogan.
Volti, che attraverso uno scatto raccontano il loro ‘perché’ nello schierarsi in questa battaglia per la parità, l’uguaglianza e il rispetto dei diritti delle donne.
Haidar e Younes, dal Libano; Sally, dall’Egitto e Farah, dalla Palestina, sono le quattro ideatrici. Molte di più quelle che le hanno seguite, per un’iniziativa che sta facendo parlare di sé.
Nour, libanese, scrive di essere con la rivolta delle donne nel mondo arabo “perché accanto a ogni grande uomo c’è una grande donna. Non dietro”. Nadia, algerina, perché vuole che le sue figlie “siano fiere delle loro origini”. Sara, yemenita, “perché nel mio paese è legale stuprarmi in nome del matrimonio”.
Shams, giovanissima palestinese, perché il suo è “un paese occupato, ma i ragazzi non sono più bravi di me a lottare per la libertà”.
Raccontano le organizzatrici in un’intervista ad al-Arabiya che “non sono solo i diritti delle donne a non essere una priorità nell’agenda dei rivoluzionari. Ma da questo punto di vista stiamo addirittura regredendo”. Perché, anzi, sono proprio quei paesi in cui le dittature esterne sono state rovesciate a vedere ancora ben salde quelle interne a ogni nucleo familiare.
E in cui le speranze coltivate nelle piazze vengono tradite, giorno dopo giorno.
È proprio lì dove tutto è cominciato – nella casbah tunisina come a piazza Tahrir, al Cairo – che le donne tornano ad essere misura di un cambiamento ancora tutto da definire.
Loro, che sin dall’inizio della primavera erano consapevoli della centralità del passaggio neo-costituzionale: una sola occasione, per mettere nero su bianco una parità da riconoscere. Almeno sulla carta.
A distanza di un anno e mezzo, in Egitto sono dovute scendere ancora in strada. Movimenti femminili e organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno manifestato nelle settimane scorse, al Cairo, contro la bozza di Costituzione post-Mubarak che, se approvata imporrebbe la subordinazione dei diritti delle donne alla conformità con i principi sanciti dalla Shari’a.
E in Tunisia, dove in agosto è stata presentata una bozza di Costituzione che riguardo alla condizione femminile introduce il concetto di “complementarietà” tra i due sessi. È il contestato art. 28, presentato da Ennahda: il partito uscito vincente dalle elezioni post-rivoluzionarie, che aveva assicurato parità e tutela per tutte le donne.
Eppure, era stata proprio la Tunisia ad adottare – tra i primi paesi del Maghreb – la Convenzione Internazionale per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), la cui applicazione è oggi messa a rischio da un altro passaggio della bozza costituzionale: l’art. 17, che permetterebbe di venir meno agli impegni assunti attraverso la sua ratifica.
Quella stessa convenzione per la cui applicazione si batte un’altra decana delle battaglie sui social network – Manal al Sharif, la donna saudita che sfidò il regime wahabita mettendosi alla guida della sua auto – e che l’Europa, in queste settimane, si prepara ad accogliere nella versione elaborata dalla Conferenza di Istanbul.
Solo un’ulteriore dimostrazione di quanto sia trasversale il tema delle questioni di genere: “In molti paesi arabi soffriamo gli stessi problemi – racconta Younes – radicati in una cultura simile, a prescindere dalle diverse forme di regime politico”.
Ecco allora che insieme, anche attraverso un social network, si possono condividere pensieri e azioni, creando un network che faccia parlare, e si faccia ascoltare.
Per cambiare le regole; per imporre il rispetto dei diritti di genere come diritti umani; per combattere la violenza contro le donne, ovunque si manifesti.
O più semplicemente perché, come scrive Fadia, “stare con la rivolta delle donne è un mio diritto”.
La campagna è anche su twitter #WomenUprising @UprisingofWomen
10 ottobre 2012
Arabia SauditaEgitto,Libano,Palestina,Tunisia,Yemen,Articoli Correlati:
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