Turchia. Buon compleanno Piazza Taksim

Ad un mese dall’inizio di Occupy Gezi calano i riflettori internazionali sulla protesta turca, che appare sedata ma non sconfitta. La settimana è trascorsa tra nuove manifestazioni, retate della polizia, scontri e il fiorire di dibattiti pubblici nelle piazze delle principali città.

A riaccendere gli animi, dopo lo smantellamento dell’accampamento a Gezi Park e lo sgombero di Piazza Taksim, è stata la scarcerazione di Ahmet Sahbaz, il poliziotto che ha sparato al manifestante Ethem Sarisuluk, uccidendolo.

La notizia ha attraversato la società turca, rimbalzando da una città all’altra, e il risultato sono stati più di tre milioni di persone in marcia, “in piedi”, secondo l’esempio dell’artista Erdem Gunduz che ha coniato una nuova estetica della protesta.

Da lunedì mattina ad Ankara (teatro di arresti e scontri ripetuti durante tutta la settimana), Izmir e altri centri del paese si sono susseguiti sit-in, azioni dimostrative e temporanee occupazioni, mentre Istanbul è stata teatro di vere e proprie assemblee pubbliche molto partecipate, dove si è discusso di strategie e alternative per continuare l’opposizione a un governo autoritario e a una politica di sviluppo pronta a sacrificare umanità e libertà in nome del cemento e degli indicatori macroeconomici.

Da Taksim a Kizilay, a raccogliersi nei parchi a colpi di tweet o con il passaparola, non sono stati solo i giovani studenti o gli oppositori.

Seduti tra la gente c’erano anche sostenitori del partito di governo AKP, delusi dall’arroganza e dalla violenza di Erdogan. C’erano professori, pensionati, donne, un ventaglio completo della società turca in cerca di emancipazione, stanca di tutori che gridano al “complotto internazionale” e alla minaccia esterna pur di mantenere un controllo serrato sui cittadini e giustificare la repressione.

Un controllo che sembra potersi abbattere in primis su internet e i social network, sfruttati dai manifestanti per coordinarsi e organizzare le mobilitazioni e per questo considerati apertamente una “minaccia” dalle autorità.

“Siamo favorevoli al web, a patto che non venga utilizzato per propagare il caos, la violenza e il crimine”, ha affermato ieri il ministro della Comunicazione Yildirim, rammaricandosi che Twitter si sia rifiutato di cooperare con il governo per l’identificazione degli “istigatori”.

Intanto, un nuovo fronte di protesta si è aperto in territorio curdo, rimasto in ombra fino alle ultime ore anche in virtù dei negoziati in corso tra Ankara e il PKK. Ma, proprio per il pregiudizio apportato dalla costruzione di nuove caserme militari alla credibilità del processo di pace, la situazione nella zona di Diyarbakir (sud-est) si era surriscaldata ormai da alcuni giorni. L’apice è stato raggiunto ieri, quando la polizia ha aperto il fuoco sulla popolazione in strada, uccidendo un manifestante e ferendone altri otto.

La reazione di solidarietà, nel resto del paese, è stata immediata e durante la scorsa notte il movimento Occupy Gezi è sceso di nuovo in piazza (ancora scontri nella capitale) a sostegno dei manifestanti curdi: “Un dato nuovo e per nulla scontato, considerando che quella nazionalista è una delle correnti più forti del movimento”, commenta un attento conoscitore del contesto turco.

Da questo punto di vista, almeno un risultato l’esperienza di Taksim sembra averlo conseguito. Ha saputo unire, o per lo meno avvicinare, le molteplici anime della società civile turca e la popolazione curda sotto la richiesta comune del riconoscimento di diritti e garanzie democratiche.

Foto di Meghan Rutherford via Flickr

June 29, 2013di: Marcello CanepaTurchia,Articoli Correlati:

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