“Ginevra 2”. L’impasse siriana tra negoziati e bombardamenti (parte I)

Si è concluso con un nulla di fatto, ampiamente previsto, il primo round dei colloqui di pace tenutisi in Svizzera tra il 22 ed 31 gennaio. Ad ammettere la modestia dei risultati è lo stesso mediatore. Intanto in Siria il massacro continua..

 

Si è concluso con un nulla di fatto, ampiamente previsto, il primo round dei negoziati di pace sulla Siria tenutisi a Ginevra tra il 22 ed 31 gennaio e fortemente voluti da Russia e Stati Uniti. Ad ammettere la modestia dei risultati è lo stesso mediatore incaricato da ONU e Lega Araba, Lakhdar Brahimi, che ha ereditato questo scomodo ruolo dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan.

Alla fine dei colloqui non è stato raggiunto un cessate il fuoco né sono stati aperti corridori umanitari per le aree assediate, tantomeno si è avviata la fase di transizione verso una nuova Siria democratica.

Peggio, durante i 10 giorni di vertice il regime ha intensificato i bombardamenti con barili esplosivi, facendo circa duecento vittime al giorno e, stando a fonti dell’opposizione, nella notte tra il 3 ed il 4 febbraio avrebbe perfino usato il napalm sulla città assediata di Homs.

Oggi, 4 febbraio, il presidente della Coalizione Nazionale Siriana Ahmad Jerba è atteso a Mosca per colloqui in vista del secondo round, in agenda il 10 febbraio, mentre ieri a Roma 19 paesi si sono riuniti per discutere su come reagire all’emergenza umanitaria.

 

Le delegazioni

La conferenza “Ginevra 2” era già nata sotto cattivi auspici, con il pasticcio dell’invito, poi ritirato, all’Iran ed i dubbi dell’opposizione siriana sull’opportunità o meno di partecipare. La discussione in seno alle forze anti Asad è stata accesa, ed ha portato all’uscita polemica del Consiglio Nazionale Siriano (una sorta di governo in esilio fortemente influenzato dalla fratellanza islamica) dalla Coalizione Nazionale, che è invece la più grande alleanza di forze d’opposizione sopratutto all’estero.

Dopo il lungo travaglio, la Coalizione ha infine inviato la sua delegazione in Svizzera. Dal canto suo, il regime di Asad aveva annunciato da mesi l’intenzione di partecipare, lasciando in dubbio solo il livello della delegazione, che poi è stata di alto profilo, includendo il ministro degli Esteri, quello dell’Informazione e l’ambasciatore presso le Nazioni Unite. Oltre alle due delegazioni siriane, composte ciascuna da 15 elementi più il capo-delegazione, erano presenti oltre 30 paesi e 4 organizzazioni internazionali.

 

Le premesse politiche

Obiettivo dichiarato del vertice era dare seguito ed applicazione al piano in 6 punti elaborato da Kofi Annan nella prima conferenza di Ginevra, tenutasi nel giugno del 2012.

Il piano prevedeva l’immediato cessate il fuoco e l’apertura di corridori umanitari per consentire l’accesso degli aiuti e la fuga dei civili, oltre all’inizio di una fase di transizione guidata da un governo di unità nazionale con pieni poteri e quindi anche il controllo sulle forze armate e di sicurezza.

Proprio il mancato sostegno di Teheran al piano scaturito da Ginevra 1 è stato la giustificazione per il ritiro dell’invito, mentre l’interpretazione del piano Annan è stato oggetto di disputa da parte dei due fronti: secondo le opposizioni la formazione di un governo di transizione non può includere Asad o gli elementi del suo regime che si siano macchiati di crimini di guerra.

Per il regime invece il ruolo del presidente è imprescindibile, mentre si potrebbe pensare ad un governo di larghe intese per superare la crisi. A Ginevra si sarebbe poi dovuto discutere anche di lotta al terrorismo e di come interrompere le ingerenze esterne nel paese.

 

Vincitori e vinti

“Non ci aspettavamo molto di più, per noi è stata una vittoria perché, sedendosi al nostro stesso tavolo, il regime ha di fatto ammesso che la Coalizione Nazionale Siriana (CNS) è l’interlocutore”, ha detto a Osservatorioiraq Rafif Jouejati, la portavoce dei Comitati di Coordinamento Locale in seno alla delegazione dell’opposizione.

“Inoltre, da Ginevra abbiamo potuto mostrare a tutto il mondo chi è che è davvero impegnato alla ricerca di una soluzione politica, e che Asad invece è un criminale di guerra, e abbiamo guadagnato il sostegno dell’opinione pubblica internazionale e di tanti governi”.

Ovviamente diversa è l’interpretazione del regime, che accusa le opposizioni di essere marionette nelle mani di potenze regionali e globali che promuovono il terrorismo nel paese e ne minacciano la sovranità.

Da parte degli osservatori, il giudizio sulle due delegazioni è stato praticamente unanime: mentre le opposizioni si sono presentate con un aria molto pragmatica, organizzata ed ordinata, guadagnando molto sostegno anche in patria grazie al discorso inaugurale ed a quello finale del capo delegazione Ahmad Jerba, gli inviati del regime hanno fatto sfoggio di arroganza, poca dimestichezza con il protocollo e linguaggio diplomatico.

Emblematico in tal senso il battibecco tra il ministro degli Esteri siriano Walid Al Muallem ed il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-Moon riguardo alla durata dell’intervento inaugurale.

Alcuni analisti hanno ipotizzato che il regime non si aspettasse la partecipazione delle opposizioni e che quindi si fosse preparato ad una passerella senza ostacoli sul tappeto rosso di Ginevra, accreditandosi come l’unica parte seriamente interessata a porre fine alla guerra. L’ inadeguatezza della delegazione governativa ha messo in imbarazzo anche l’alleato russo, che si è mostrato più malleabile verso le opposizioni, ribadendo che Mosca non è irremovibile sulla persona di Asad (pur sostenendone il regime) ed invitando Jerba a recarsi al Cremlino il 4 febbraio.

 

Mosse e contromosse

Una delle mosse strategiche dell’opposizione è stata l’esposizione delle immagini che attestano la tortura ed uccisione di oltre 11.000 prigionieri nelle carceri di Asad, pubblicate ad orologeria due giorni prima dell’inizio della conferenza.

Le 55.000 immagini sono state trafugate da un agente del regime (nome in codice “Caesar”) che si occupava di fotografare le salme e registrare i nomi dei morti per consentire alle forze di sicurezza siriane di costruire le storie di copertura (in genere le morti venivano attribuite a malori o suicidi in carcere).

Le foto sono poi state esaminate da medici legali ed esperti tra cui David Crane, già procuratore capo  del Tribunale Speciale per la Sierra Leone che ha processato per crimini contro l’umanità l’ex presidente liberiano Charles Taylor. Da sottolineare che il rapporto è stato commissionato dal Qatar, tra i principali sostenitori esterni dell’opposizione siriana.

Il regime ha invece ripetuto le consuete accuse di ingerenza esterna rivolte ai paesi del Golfo, agli Stati Uniti e più in generale all’occidente, presentandosi come garante dell’unità e della sovranità nazionale, delle minoranze e come baluardo contro l’avanzata del terrorismo islamico, dimenticandosi forse che tra le fila dei suoi sostenitori ci sono milizie settarie iraqene, migliaia di uomini del libanese Hizbullah (“Partito di Dio”, classificato organizzazione terroristica da buona parte del mondo) e dei Guardiani della Rivoluzione Islamica in arrivo dall’Iran (si veda in proposito l’infografica di FrontiereNews o l’articolo di Alberto Savioli su SiriaLibano).

I funzionari dell’intelligence iraniana oggi occupano ruoli importanti nel dirigere il conflitto sul terreno, data l’inaffidabilità dell’esercito lealista tra le cui fila il numero di disertori varia tra un quarto ed un terzo degli effettivi, a seconda delle stime.

 

Il capitolo umanitario

Durante i colloqui, oltre allo scambio di accuse più o meno circostanziate, si è aperto anche il capitolo degli aiuti umanitari, in particolare per la città di Homs, il cui centro storico è assediato da oltre 600 giorni dalle forze lealiste.

Nonostante il formale via libera del regime all’ingresso di cibo e farmaci, i 12 convogli umanitari della Croce Rossa, Mezzaluna Rossa e World Food Program, fermi vicino alla zona assediata, non sono stati lasciati entrare perché c’era bisogno di “coordinarsi” con le autorità di Damasco in modo da impedire che i rifornimenti arrivassero ai “terroristi”.

A tutt’oggi, nessun aiuto ha raggiunto la città vecchia dove la popolazione sta morendo di fame, come testimonia l’appello lanciato pochi giorni fa dal gesuita olandese Padre Francis che vive sotto assedio insieme alla popolazione.

Il regime ha offerto a donne e bambini intrappolati a Homs la possibilità di uscire, offerta rifiutata dalle stesse donne che non vogliono lasciar soli i loro mariti, fratelli e figli per paura di una nuova Srebrenica.

Qualche pacco alimentare dell’UNRWA (l’agenzia ONU dedicata ai profughi palestinesi) è finalmente entrato invece nel più grande campo profughi palestinese del medio oriente, Yarmouk, assediato da oltre 200 giorni, ma si tratterebbe del frutto delle trattative portate avanti dall’OLP, più che dei colloqui di Ginevra. L’appuntamento svizzero ha comunque sottoposto ad una forte pressione mediatica il regime di Asad, facilitando il compito dei mediatori.

Intanto però, 2 milioni di siriani vivono ancora sotto un assedio assai poco mitigato da sporadiche aperture verso gli aiuti umanitari.

Il 3 febbraio scorso, a Roma, c’è stata la riunione dei 19 paesi del “gruppo di contatto ONU” per reagire alla crisi umanitaria che la ministra degli Esteri Emma Bonino ha definito “la peggiore dei nostri tempi”. In sole due ore di incontro sono stati approvati 11 interventi immediati che dovrebbero aiutare a garantire l’arrivo dei soccorsi lì dove servono, oltre ad uno scontato appello per la fine dei bombardamenti sui civili.

La dichiarazione ufficiale è un testo di fine equilibrismo diplomatico volto a mantenere l’equidistanza dalle parti belligeranti. Una dichiarazione che avrà soddisfatto la Piattaforma delle ONG Italiane attive in Medio Oriente e nel Mediterraneo, che nei giorni scorsi avevano scritto una lettera in tal senso. Meno entusiasti invece quegli attivisti siriani che, memori del fatto che la crisi umanitaria ha dei responsabili e non è frutto di una catastrofe naturale, vede in questa preminenza del piano umanitario un quasi inutile tentativo di curare i sintomi anziché le cause del problema.

Nella serata del 3 febbraio il noto attivista siro-palestinese Qusai Zakariya, insieme ad altre figure di spicco tra gli attivisti assediati a Moaddamia (sobborgo ad est di Damasco), si è dovuto consegnare alle forze lealiste per consentire l’ingresso di aiuti. Qusai e gli altri sono stati portati in un albergo nel centro di Damasco con la garanzia che il regime ne avrebbe consentito la fuga all’estero. Finora, tuttavia, non se ne hanno notizie.

 

[continua…]

 

February 04, 2014di: Fouad RoueihaArabia SauditaIran,Iraq,Libano,Palestina,Qatar,Siria,Articoli Correlati: 

Redazione

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