di Nadia Akari*– traduzione a cura di Stefano Nanni
“Attualmente quasi tutti i prigionieri dei campi 5 e 6 sono in sciopero della fame, ad eccezione dei più anziani” dichiara Obaidullah, giovane afghano di 33 anni, detenuto da oltre 11, mentre spiega i dettagli di quello che è diventato lo sciopero della fame più importante che abbia mai investito il carcere di Guantanamo sin dalla sua inaugurazione.
Tra i detenuti in protesta anche cinque cittadini tunisini: Lofti Ben Ali, Abdel Ourgy, Hishem Sliti, Ridha El Yazidi e Adel El Hkimi.
Quest’ultimo ha scelto di rifiutare il cibo dopo gli episodi di ‘follia aggressiva’ che tutti i detenuti denunciano di aver subito il 6 febbraio 2013, nel corso del quale la sua copia del Corano sarebbe stata ‘profanata’.
Posto in regime di isolamento per aver reso difficile la sua sorveglianza oscurando l’obiettivo delle telecamere, il suo stato di salute è stato giudicato molto critico. L’uomo, originario di Ben Arous, aveva raggiunto il campo di addestramento di Al Qaeda a Jalalabad, in Afghanistan, dopo aver risieduto diversi anni in Italia, dove si era sposato; ricercato, El Hkimi era stato condannato in contumacia a 20 anni di detenzione nel gennaio del 2005.
Alcuni dei cinque non sono stati ancora trasferiti, nonostante le dichiarazioni di Hédi Ben Abbès, ex consigliere del precedente ministro degli Affari Esteri tunisino rilasciate nel settembre 2012, in cui sosteneva che i negoziati con le autorità americane stavano procedendo bene, e che i cinque prigionieri sarebbero stati rimpatriati probabilmente prima della fine dello scorso anno.
Dopo aver incontrato i cinque compatrioti, aveva fornito rassicurazioni sul fatto che le loro condizioni di detenzione fossero migliorate.
Cinque dei 25 detenuti in sciopero della fame, alimentati a forza attraverso sonde naso-gastriche, sono stati ricoverati in ospedale; anche se “le loro vite non sono in pericolo”, ha fatto sapere il luogotenente Samuel House, portavoce del carcere.
Un annuncio che, però, viene contestato sia i tanti attivisti per i diritti umani che gli avvocati dei detenuti, in modo particolare il legale di Nabil Hadjarab, un cittadino algerino di 34 anni che viveva in Francia, il cui stato di salute sarebbe “preoccupante”.
Avendo perso oltre 20 kg di peso, non sarebbe in grado di camminare ne’ di parlare al telefono con lo zio, Ahmed Hadjarab, già dalla fine di marzo. Secondo quest’ultimo, residente in Francia, il nipote verrebbe alimentato forzatamente due volte al giorno: “Lo nutrono con un tubo attraverso il naso, mani e piedi legati. È una forma di tortura”.
La reazione dell’amministrazione (carceraria, ndt) non si è fatta attendere: molti altri scioperanti sono stati messi in isolamento, rendendo ancora più complicato reperire informazioni sul loro stato di salute.
Davanti all’immobilismo delle autorità, lo zio di Nabil ha lanciato una petizione sul portale globale Change.org, raccogliendo in poco tempo migliaia di firme.
“Ho perso le speranze” ha fatto sapere Obaidullah, anche lui in sciopero della fame dal 6 febbraio scorso, “perché sono imprigionato a Guantanamo da oltre 11 anni, senza sapere quale sarà il mio destino”.
Umiliato e “disumanizzato”, come spiega nella sua testimonianza, declassificata dal ministero della Giustizia e resa pubblica dai suoi avvocati. “Mi hanno rubato 11 anni di vita (…). Le autorità mi hanno privato della mia dignità e hanno mancato di rispetto alla mia religione”.
I detenuti hanno dichiarato di essere stati vittima di maltrattamenti nel corso di un controllo (quello del 6 febbraio, ndt) “imprevisto, improvviso e irrispettoso”, aggiungendo che le loro copie del Corano sono state trattate in modo irrispettoso e blasfemo.
“Le nostre condizioni sono peggiorate, e non ci sono speranze che un giorno potremo uscire di qui”, dicono. Il loro sciopero della fame non si fermerà fin quando non saranno finalmente “trattati con dignità”.
La petizione, lanciata su Change.org e firmata da oltre 150 mila persone in sole 48 ore – tra cui alcuni veterani dell’esercito americano – è stata inviata al presidente Barack Obama.
Uno dei firmatari e promotori dell’iniziativa, il colonnello Morris Davis, ex-procuratore militare di Guantanamo, ha denunciato “un sistema in cui l’assenza di capi di accusa vi tiene imprigionati a tempo indeterminato e in cui, al contrario, una condanna per crimini di guerra vi fornirebbe un biglietto di ritorno per il vostro paese di origine”.
“Ho seguito alcuni processi per terrorismo a Guantanamo, e ho visto molte cose di cui mi pento di essere stato testimone”, ha dichiarato Davis. “Guantanamo costa troppo, è inefficace e moralmente condannabile”.
In oltre dieci anni di esistenza, più di 779 prigionieri sono passati per il calvario di queste prigioni. Soltanto tre di questi – accusati dal colonnello Davis, anch’egli firmatario della petizione – sono stati riconosciuti colpevoli di crimini di guerra e rimandati nel loro paese di origine. Altri sei detenuti sono stati accusati e sono attualmente sotto il giudizio di un tribunale militare “eccezionale”.
Dei 166 prigionieri (attuali, ndt), 86 sono stati definiti ‘trasferibili’ o ‘scarcerabili’, alcuni nell’arco di cinque anni; oltre 40 persone non sono ‘giustiziabili’ per mancanza di prove.
Clive Stafford Smith, avvocato incaricato di difendere 15 prigionieri, ha sottolineato che in effetti quasi “il 52% dei detenuti (…) era stato considerato suscettibile di scarcerazione”.
Si tratta di un sistema extra-giudiziario iniquo (dato che le confessioni vengono ottenute sotto coercizione in assenza di processo) eretto a simulacro di giustizia: soltanto il 5% del totale dei detenuti passati per Guantanamo possono essere perseguiti penalmente.
Il regime cubano, lungi dal poter essere considerato un ‘campione’ per i diritti umani, si è unito al coro delle critiche internazionali il giorno dopo la conferenza stampa di Obama.
Il ministro degli Esteri, Bruno Rodriguez Parrilla, ha usato parole molto forti e dirette davanti alle Nazioni Unite, il primo maggio scorso a Cuba, in occasione della presentazione del rapporto nazionale nel quadro della Universal Periodic Review (UPR) del Consiglio dei diritti umani.
Definendo la prigione come “un centro di tortura e di morte per prigionieri”, Parrilla ha affermato che il governo cubano è “profondamente preoccupato per la poca trasparenza giuridica che permette alle autorità americane (di commettere) violazioni atroci e permanenti dei diritti umani nella base navale di Guantanamo, territorio cubano che gli Stati Uniti ci hanno usurpato”, chiedendone di conseguenza la chiusura immediata. Ma soprattutto la restituzione territoriale della stessa base.
Sono passati oltre 4 anni dalla promessa di mettere la parola ‘fine’ all’indegna esperienza di Guantanamo del presidente Obama, e del decreto da lui firmato dopo la sua investitura, nel gennaio del 2009.
La primavera successiva il Senato votò a maggioranza contro la chiusura del campo. Nel dicembre del 2009 infine la maggioranza democratica del Congresso si indignò davanti alla soluzione alternativa proposta dal presidente, che consisteva nel far acquistare al governo federale una prigione dell’Illinois per trasferirvi i prigionieri di Guantanamo.
L’iniziativa, ribattezzata “Guantanamo Nord”, si è spenta sul nascere a causa della mancanza di fondi necessari, rifiutati dal Congresso.
Il timore maggiore dell’amministrazione americana consiste nel fatto che il vuoto giuridico che lascerebbe la chiusura di Guantanamo – le procedure di eccezione sono state dichiarate illegali dalla Corte suprema americana nel 2006 – possa condurre alla scarcerazione immediata di alcuni detenuti, tra cui Khalid Cheikh Mohammed, considerato responsabile per gli attentati dell’11 settembre.
Dopo essersi a lungo disinteressato della questione, Obama si è nascosto dietro le responsabilità del Congresso americano.
L’attuale ondata di proteste l’ha finalmente fatto uscire dalle riserve, spingendolo a rinnovare le antiche promesse: “Continuo a credere che dobbiamo chiudere Guantanamo”, ha fatto sapere, aggiungendo che esaminerà “tutte le opzioni di cui dispone la nostra amministrazione. Ma, alla fine, avremo anche bisogno dell’aiuto del Congresso”.
Nel frattempo, la Casa Bianca ha comunque fatto sapere che potrebbe essere nominato a breve un nuovo responsabile del centro detentivo, per sostituire quello attuale, particolarmente criticato per la sua gestione brutale e provocatoria.
Ma le critiche sono arrivate da numerosi attivisti per i diritti umani: il presidente Usa, hanno spiegato, avrebbe potuto fare liberare più della metà dei detenuti, giudicati trasferibili (in altri centri detentivi, ndt) sin dal 2010, senza bisogno dell’approvazione formale del parlamento, ed invocando semplicemente la “sicurezza nazionale”.
*Per la versione originale dell’articolo clicca qui.
(Foto by burge5k via Flickr/ CC)
8 maggio 2013
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