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Il coraggio delle donne ezide

Un anno fa migliaia di ezidi sono stati massacrati, altri rapiti dalla folle brutalità di Isis. Molti però hanno trovato riparo anche se certe ferite è dura rimarginarle. Degli Ezidi si sa poco perché poco è stato raccontato. Oggisi sono dati appuntamento a Lalish (e non sono solo) per ricordare chi non c’è più. 

 

 

L’amara consolazione è che c’è sempre chi sta peggio.

Sulla strada che da Dohuk porta a Khanke Camp è impossibile non notare la presenza di centinaia di sfollati che cercano riparo in tende di fortuna. Tenda in realtà non è neppure il termine esatto, sono teli recuperati qua e là adagiati su dei pali, presumibilmente di legno.

Non si muove un filo d’aria e le centinaia di persone che vi vivono stanno tutte lì sotto riparate alla ricerca di ombra.

Erano anni che non faceva così caldo. La temperatura in questi giorni supera mediamente i 45 gradi, con punte di 50. L’ingresso del campo è presidiato e una volta superato il varco d’accesso la scena che ci si presenta di fronte è di un’enorme distesa di tende.

A Khanke Camp vivono i cosiddetti sfollati interni, gente che ha dovuto abbandonare le proprie case e che hanno trovato rifugio qui. Sono tutti Ezidi. C’è Elias con me, che mi fa da guida. Lui ci ha abitato qui, con la sua famiglia. Ora in questo campo ci lavora, segue una serie di progetti per UPP (Un Ponte Per) e si vede che non è solo professionale il suo approccio alla questione.

Oggi comincia la nuova fase di un lavoro incentrato a evitare lo spreco inutile dell’acqua. Un bene prezioso, soprattutto qui, che non va sprecato. Si lavora sia sugli adulti che sui bambini. Lo seguo nella sua attività attorniato da centinaia di piccoli ezidi. Vestono quasi tutti maglie di squadre di calcio europee, Barcellona e Real Madrid sono quelle che vanno per la maggiore. Uno indossa la maglietta della squadra di Erbil, si nota perché è l’unico ad averla.

Tutti corrono di qua e di là, giocano nonostante il caldo. Ci sono 17000 mila persone qui. La giornata è caldissima ma nonostante questo non smettono di giocare. Quindi chi salta più all’occhio è chi non lo fa. Veste una maglietta del Milan e sta sempre seduto con lo sguardo fisso a osservare il vuoto. Non si può non notarlo.

Quando mi avvicino a lui altri mi seguono e lo circondano ma lui nulla, non cambia mai espressione del viso.

Provo a scherzarci, abbozza un sorriso ma il suo sguardo tradisce sofferenza e paura. Che avranno mai visto quegli occhi è difficile saperlo e forse neppure immaginare. Mi ha raccontato Caterina Mecozzi responsabile dell’ufficio di UPPa Dohuk che i traumi che questi bambini subiscono (lei si riferiva a quelli del campo profughi di Domiz ma credo valga per tutti lo stesso) soffrono già a questa tenera età di depressione, stress e fobie varie.

Per questo ci sono dei percorsi portati avanti da personale specializzato improntati sul cercare di aiutare questi minori a superare queste difficoltà. Alcuni sono proprio i loro genitori a portarli a chi fa questo tipo di lavoro, altri sono gli stessi operatori che girando per le tende notano chi ha più bisogno di aiuto. Un lavoro enorme e prezioso. Ridare una speranza a questi bambini è un’impresa difficilissima e piena di difficoltà.

A Elias chiedo cosa può essere accaduto a quel bambino che a differenza degli altri proprio non trova pace. Elias così mi conduce in una tenda dove vivono una decina di persone. Tredici per l’esattezza.

C’è una donna di quasi sessant’anni che è fuggita da Sinjar. Si è portata via tutti i suoi figli e nipoti più una bambina che ha trovato in strada proprio mentre stava fuggendo. Isis ha ucciso tutti i componenti della sua famiglia e anche lei avrebbe fatto la stessa fine se non fosse stata raccolta in fretta e furia e portata via.

“Isis grida al mondo di essere il baluardo dell’integrità islamica e poi fa questo. Noi Ezidi non ci comporteremmo mai così. Siamo un popolo di pace. Loro tradiscono anche la loro religione oltre che qualsiasi elementare principio di umanità. Che uomini sono coloro che uccidono, stuprano e distruggono?”

Racconta di Sinjar e di quanto accaduto senza mai abbassare gli occhi, con lo sguardo di chi nonostante tutto non ha perso la propria dignità. Poi indica due bambine che si tengono per mano. Una accarezza i capelli all’altra. “Vedi, non sono neppure sorelle eppure si vogliono bene come se lo fossero. Nessuna abbandonerebbe mai l’altra. Per me è mia nipote pure lei, non c’è differenza e di quello che abbiamo, di quel poco che abbiamo, non le faremo mai mancare nulla. Ma dimmi tu che arrivi da lontano, sarebbe possibile nell’Europa ricca e progredita una tragedia di queste proporzioni? E dimmi, non ti sembra normale invece che queste due bambine non lascerebbero mai che potesse accadere qualcosa di brutto l’una all’altra? E’ dura la vita nel campo, lasciare la propria casa e lasciarsi alle spalle i propri cari uccisi barbaramente, ma è negli occhi di quelle due bambine che io vedo la speranza, anzi la certezza che alla fine ce la faremo.

“Chi propaganda odio finirà schiacciato da ciò che sta seminando”.

 

*Articolo originariamente pubblicato su Articolo21.org. Si ringrazia Ivan Grozny Compasso per la gentile concessione. La foto e’di Salam Saloo, scattata a Lalish, tempio sacroper la comunita’ ezida.

August 03, 2015di: Ivan Grozny Compasso*Iraq,Articoli Correlati: 

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