Il Qatar, l’Arabia Saudita e la “guerra nel Golfo”

La decisione di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein di ritirare i loro ambasciatori dal Qatar è arrivata come un fulmine a ciel sereno, mettendo in luce le contraddizioni all’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo. Pertanto, l’offensiva di Riyadh contro il piccolo emirato, la sua televisione al-Jazeera e i Fratelli musulmani rischia di ritorcersi contro gli stessi al-Saud.

 

Arabia Saudita e Qatar, alleati, amici o nemici? La domanda può apparire paradossale. Il vecchio emiro Hamad è stato abile nella gestione delle contraddizioni a favore di Doha, una politica che gli ha permesso di accumulare numerosi successi diplomatici almeno fino all’estate 2013, quando i “protetti” egiziani e tunisini sono stati costretti – in misura e modi diversi – a cedere il potere.

Anticipando alcune difficoltà a venire, shaykh Hamad ben Khalifa Al-Thani si è volontariamente ritirato dalla scena il 25 giugno 2013 lasciando il potere nelle mani del figlio Tamim, contrariamente all’usanza in voga nelle monarchie ereditarie dove i sovrani regnano fino alla morte o fino al sopraggiungere di un colpo di Stato. Inoltre al-Thani padre si è ben guardato da allora dall’apparire in pubblico, una strategia probabilmente mirata a consolidare i primi passi del suo successore e a preservarne l’eredità politica.

In una terra in cui la maggior parte dei sovrani è stata deposta da golpe “familiari”, Hamad – scegliendo di ritirarsi volontariamente – ha forse ridotto il rischio che una tale disavventura sopraggiunga anche a suo figlio Tamim.

Il vecchio emiro ha escluso così quello che poteva apparire come il principale rivale, il cugino Hamad Ben Jassim, ministro degli Esteri e premier, ispiratore, architetto e esecutore delle iniziative più audaci sotto il precedente regno.

Essendo le relazioni tra Jassim e Tamim segnate da una nota diffidenza, il nuovo emiro ha subito allontanato il cugino da tutte le sue funzioni istituzionali costringendolo di fatto a partire all’estero per perseguire i suoi floridi affari personali. Nessun dubbio che le cose sarebbero state ben più difficili per Tamim se la successione fosse avvenuta dopo la morte del padre.

 

La nuova era

E’ in queste condizioni che Tamim, grazie al ritiro del padre, ha provato a ricominciare da zero le relazioni fino a quel momento “difficili” con il potente vicino saudita, a cui ha riservato il suo primo viaggio ufficiale da Capo di Stato. Ben accolto in tutte le monarchie della regione, che accumulavano risentimento nei confronti della politica e delle maniere del suo predecessore, Tamim ha impresso uno stile diverso, molto meno sfavillante rispetto a quello del padre.

Un Qatar più modesto, ricentrato sugli affari interni, è quanto ci vuole per mettere d’accordo tutti, in primis i suscettibili vicini della penisola arabica.

L’inizio è brusco. Appena Tamim si insedia al trono il presidente egiziano Morsi, sostenuto politicamente e finanziariamente dal Qatar, viene deposto da un colpo di Stato militare in origine appoggiato da larghi settori della popolazione. Difendendo la sua buona fede, Doha afferma – contro ogni evidenza – di non aver sostenuto la Fratellanza ma il popolo egiziano nella sua interezza e per dar forza alla sua posizione si impegna a consegnare all’Egitto il gas promesso ai tempi in cui Morsi guidava il paese.

Quasi allo stesso momento, in Tunisia, l’altro protetto di shaykh Hamad – il movimento Ennahda, ascrivibile allo stesso panorama della Fratellanza – è costretto a cedere il posto ad un governo tecnico. Ancora una volta il Qatar digerisce il contraccolpo in silenzio.

Nei fatti, dall’estate 2013, si è parlato molto meno del piccolo emirato e numerosi “qatarologi” si sono chiesti se il paese guidato ormai da shaykh Tamim non fosse rientrato definitivamente nei ranghi. A torto. Nessun dietrofront, la diplomazia di Doha si è solamente fatta più discreta. In Siria, il sostegno ad alcune fazioni islamiste non si è interrotto e su al-Jazeera i sermoni di Qaradawi – predicatore di origine egiziana e legato alla Fratellanza – continuano ad infiammare il mondo arabo a cominciare dall’Egitto del generale al-Sisi, il nuovo “miglior amico” dell’Arabia Saudita. Così, mentre i giornalisti di al-Jazeera sono stati imprigionati al Cairo con l’accusa di terrorismo, il governo del Qatar si è rifiutato di abiurare la politica passata e presente di sostegno ai Fratelli musulmani.

Troppo per Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, impegnati da qualche anno ad una impietosa “caccia ai fratelli” all’interno dei loro territorio, accusati di complottare contro i regimi di Dubai e Abu Dhabi per imporre una repubblica islamica.

Per non essere da meno, il governo del Bahrein – che pertanto aveva fatto ricorso alla Fratellanza nella sua lotta contro l’opposizione sciita – si è aggiunto al tandem iniziale. Tutti e tre gli Stati menzionati hanno richiamato i propri ambasciatori da Doha il 5 marzo scorso per punire il Qatar del mancato rispetto di un accordo – fino a quel momento tenuto segreto – raggiunto lo scorso novembre grazie alla mediazione kweitiana. Con questo accordo Tamim si sarebbe impegnato alla non ingerenza negli affari interni dei paesi vicini e a ritirare l’appoggio ad un “movimento il cui obiettivo è minacciare la sicurezza e la stabilità dei paesi contraenti”.

In altri termini, i suoi vicini si attendevano dal Qatar un bavaglio a Qaradawi, che al-Jazeera smettesse di difendere la causa dei Fratelli musulmani in Egitto e che i membri della confraternita che avevano trovato rifugio all’interno dei suoi confini venissero espulsi o ridotti al silenzio.

Una richiesta esagerata per Doha, il cui sostegno alla Fratellanza risale agli anni ’60 e alla repressione attuata nei loro confronti da Nasser. Quanto ad al-Jazeera, il suo appoggio senza riserve al movimento islamista dopo il 2011 ha sì determinato una perdita di credibilità e un calo di audience, ma la sua linea è ormai talmente inquadrata con la politica dell’emirato che è quasi impossibile attendersi dalle autorità una sorta di ripudio verso la televisione che nel bene e nel male ha costruito la notorietà del piccolo regno.

 

Verso una grave crisi diplomatica?

Dopo il ritiro degli ambasciatori, i ministeri dell’Informazione di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno imposto ai propri cittadini che lavoravano nei media qatarioti – compreso il noto canale sportivo Beinsport – di mettere immediatamente fine alla loro collaborazione. Inoltre, secondo alcune indiscrezioni provenienti dalla monarchia saudita, sarebbero in atto diverse altre forme di boicottaggio – tra cui la chiusura delle frontiere terrestri – umilianti nei confronti dell’emirato.

Ma a voler strafare, spesso, si ottiene il risultato contrario, tanto che perfino un dirigente dal comportamento moderato come shaykh Tamim non potrà tollerare a lungo il castigo inflitto, neanche fosse uno scolaretto indisciplinato. Intanto il Qatar ha fatto quadrato sulle sue posizioni specificando che non modificherà la sua politica.

Sebbene il rapporto di forze sembra essergli sfavorevole, Doha ha tutte le ragioni di credere che la sua posizione non sia così insostenibile. Per prima cosa, il Qatar non è completamente isolato all’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo (CcG). Se tre dei sei membri hanno richiamato le loro rappresentanze diplomatiche, è ugualmente interessante notare che gli altri due non lo hanno fatto: né il sultanato dell’Oman, che rifiuta di adottare azioni spettacolari e coercitive nei confronti di un altro membro del club delle monarchie, né il Kuwait impegnato in una missione di mediazione tra il Qatar e gli altri paesi del CcG.

In effetti, se poi consideriamo che nel dicembre 2013 l’Arabia Saudita e il Bahrein hanno dovuto rinunciare in extremis al loro progetto di Unione del Golfo di fronte all’esplicita resistenza di Oman e Kuwait – e a quella tacita del Qatar – possiamo capire meglio la postura saudita e certi suoi fallimenti rimasti in ombra.

Come si evolverà dunque la spinosa situazione nel Golfo? Quale sarà la strategia degli al-Saud? Dopo il ritiro degli ambasciatori quali altre misure concrete potrà adottare Riyadh?

Il blocco e il boicottaggio annunciati non sono certo una buona notizia per Doha, che tuttavia ha i mezzi per aggirarli. Un blocco marittimo infatti (misura assai più restrittiva) è impensabile, da un lato perché costituisce un chiaro atto di guerra e le tensioni interne al CcG non hanno raggiunto questo stadio, dall’altro perché il Qatar ospita sul suo territorio la più importante base americana fuori dagli Stati Uniti.

D’altronde, la conseguenza inevitabile dell’ostilità saudita sarebbe immancabilmente un avvicinamento del Qatar all’Iran (un nemico che fa ben più paura della Fratellanza). Un primo passo in questo senso è già stato fatto con la riunione a Teheran del 15 marzo, la prima del comitato politico congiunto tra i due paesi.

L’alternativa a questo genere di sanzioni resta la rottura delle relazioni diplomatiche. Altra ipotesi poco verosimile. Quindi a shaykh Tamim non rimane che pazientare e scommettere sul numero di mesi che serviranno agli ambasciatori saudita, emiratino e bahrenita per ritrovare la strada di Doha, avendo lui stesso già preparato il terreno a questa soluzione indolore rifiutandosi di richiamare i preposti qatarioti nelle tre capitali vicine e rinunciando alla guerra mediatica.

Ultima osservazione: shaykh Hamad è rimasto silenzioso e invisibile dal momento del suo ritiro nel giugno 2013, ma non è assurdo pensare che la sua astuzia strategica continui ad essere presente dietro le quinte, prodigando consigli al successore che ha volontariamente e consapevolmente investito con straordinario tempismo.

 

Olivier Da Lage è un giornalista belga, autore di Géopolitique de l’Arabie saoudite, Ed. Complexe, Bruxelles, 2006. Per la versione in lingua originale clicca qui. La traduzione è a cura della redazione.

 

March 26, 2014di: Olivier Da Lage per Orient XXIArabia SauditaBahrain,Emirati Arabi UnitiKuwait,Oman,Qatar,Articoli Correlati: 

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