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Iraq, il paese delle meraviglie

“La storia di Hassan è in qualche modo la mia storia, ma può essere a tutti gli effetti quella di tutti i bambini iracheni. Che sognano la normalità, ma sono costretti a vivere in uno stato di guerra che distrugge le loro vite ogni giorno”. Incontro con Ali Kareem, regista di “Hassan in Wonderland”.

 

 

 

Ali Kareem vive a Giessen, in Germania. Ma la sua città di origine, Karbala, a sud-ovest di Baghdad nell’omonimo governatorato, che i fedeli musulmani sciiti considerano seconda per importanza soltanto a Najaf, è sempre nei suoi pensieri.

Così come tutto il resto dell’Iraq, che continua a raccontare nelle sue opere e attività artistiche, come faceva d’altronde a Baghdad, durante gli studi superiori e l’università. 

Ali è infatti un regista e un attore di teatro. Conosce molto bene l’Europa, e in particolare l’Italia, grazie all’esperienza maturata con il Teatro Di Nascosto.

Fondato nel 1998 da Annet Henneman, direttrice e insegnante di teatro, che ha raccolto attorno a sé attori, attivisti per i diritti umani e giornalisti, il Teatro ha raccontato al pubblico per 16 anni storie di persone e comunità che vivono sotto il peso della guerra e della violenza ogni giorno.

E le cui voci sono raramente ascoltate.

La forza di questo teatro, sottolinea Ali, che ne ha fatto parte e a cui continua ad essere legato, è nella sua sperimentazione, realizzatasi nel “reportage di teatro”, un mix tra giornalismo e arte il cui fine è quello di raccontare, appunto, “le storie di coloro che non hanno voce, per accorciare le distanze tra loro e il resto del mondo. Spesso, il mondo occidentale”.

Grazie ad una borsa di studio oggi sta seguendo un master in Cinematografia e Teatro in Germania, a Giessen. Nel tempo libero organizza, insieme ai suoi colleghi e amici ezidi che vivono in Germania, iniziative e incontri pubblici per raccogliere fondi a favore dei suoi concittadini che ora vivono nei campi per sfollati nel nord dell’Iraq.

Da iracheno, è sempre stato abituato alla diversità culturale, ma è a scuola e poi all’università che stringe relazioni con ragazzi e ragazze che come lui vogliono impegnarsi per fare dell’Iraq un posto diverso dalla guerra e dalla violenza.

Così entra a far parte del “Laonf”, il movimento nonviolento iracheno che nel 2011 e nel 2012 organizza insieme all’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative il Forum Iracheno sulla Nonviolenza, sostenuto tra gli altri dall’associazione di solidarietà internazionale Un ponte per… 

“Nonviolenza” per Ali non è una parola qualunque, essendo al centro di tutte le sue attività artistiche.

Non ne è priva l’ultima opera, il cortometraggio “Hassan in Wonderland”, vincitore della seconda edizione del Maazeni Film Festival, rassegna indipendente di corto e mediometraggi tenutasi presso il teatro Maazzeni Virgillito di Paternò il 3 e 4 gennaio scorsi.

“Il paese delle meraviglie” in questo caso è l’Iraq, nella forma di una Baghdad sconvolta dalla guerra e dagli attentati, dove un gruppo di bambini gioca con armi finte riproducendo la terribile realtà che li circonda.

Tutti apprezzano il gioco tranne Hassan: lui non gioca alla guerra, preferisce le macchinine, i libri e i disegni ai fucili e alle pistole. 

 

Ali, di che cosa parla il tuo cortometraggio?

Parla dell’ambiente violento in cui i bambini crescono, vengono educati e vivono in Iraq. Negli ultimi 40 anni la violenza ha caratterizzato l’atmosfera in ogni casa, scuola, villaggio o città. Ovunque i bambini vedono delle armi e soprattutto imparano ad usarle, dai genitori agli amici più grandi passando per i soldati, sempre presenti.

Spesso questo processo di apprendimento viene anche incentivato, perché si crede che i bambini possano imparare a proteggersi e a proteggere la propria famiglia dai ‘nemici’, incuranti del fatto che un simile esito alquanto problematico dipenderà anche dallo status socio-economico in cui questi bambini cresceranno. Rimanere con le armi in mano quando si cresce è molto rischioso in un paese come l’Iraq.

Il corto parla dunque di violenza, ma prova a sfidarla, sulla scia di quanto ho iniziato a fare con i miei compagni di “Laonf”. Insieme a loro abbiamo sempre sfidato l’idea che la violenza fosse l’unica opzione possibile, usando l’arte in modo nonviolento nei luoghi chiave della società, ovvero nelle chiese, nei tempi, nelle moschee. 

 

Come si traduce nel film la modalità nonviolenta usata per parlare di violenza?

Non mi piace comunicare alle persone cosa è giusto e cosa è sbagliato. Dire esplicitamente “questo va o non va bene” non serve a far riflettere, che è l’obiettivo ultimo di un’opera d’arte, secondo me. Nel film si vede chiaramente, ad esempio, che Hassan non vuole giocare con le armi (di plastica) con i suo amici, che a loro volta lo considerano un codardo. 

Lui piuttosto vuole giocare con le macchinine e vuole studiare. In questo semplice modo si mostra che da una parte ci sono le armi, e dunque la violenza, e dall’altra i giochi, quelli veri, la normalità per un bambino. L’alternativa dunque c’è, è visibile nel film. E qualcuno la sceglie. 

 

Chi è Hassan e cosa rappresenta la sua storia?

La storia di Hassan è in qualche modo la mia storia, ma può essere a tutti gli effetti la storia di tutti i bambini iracheni. Nel cortometraggio si sviluppa attorno a due mondi: quello della realtà, nuda e cruda, e quello della normalità, che lui sogna.

L’inizio del film si svolge nel primo, nella forma del cimitero delle macchine, uno dei non pochi luoghi presenti nei dintorni di Baghdad dove vengono ammassate le carcasse di auto utilizzate per attacchi suicidi. Il cimitero in questione è nell’area di Babilonia, alle porte di Baghdad, uno dei più longevi, dove si accumulano macchine dal 2006. E’ qui che un gruppo di bambini va a giocare alla guerra. Tutti tranne Hassan che rimane attratto dai resti di uno scuolabus, nonostante i suoi compagni lo scherniscano da lontano. Gli urlano: “Dai vigliacco, vieni a giocare!”. 

Ma lui non ascolta e prosegue dritto verso quell’autovettura che prima di essere distrutta aveva accompagnato tanti bambini a scuola e nelle loro case. Hassan trova quaderni, zaini, colori e penne, che nelle sue mani rivivono e riprendono normalità.

Hassan in quello scuolabus si siede e immagina il nuovo mondo: quello di una nuova generazione che anziché scegliere la guerra leggerà e giocherà.

 

In queste prime scene ci sono già i segni della grande complessità del contesto violento iracheno, con gli allarmi bomba e i segnali di presenza dell’uranio sullo sfondo…

Mentre Hassan sogna nello scuolabus, gli altri tre bambini continuano a giocare con le armi, nascondendosi dietro e dentro altre carcasse di macchine. In una di queste un bambino trova una pistola, non di plastica ma vera. La prende in mano e la punta verso gli altri, sta per spararare ma all’improvviso sopraggiunge il suono di un allarme bomba che ferma l’irreparabile e riunisce tutti nelle loro paure comuni.

Terrorizzati, i bambini lasciano a terra le armi giocattolo e quella vera e vanno verso Hassan. Nello scuolabus trovano anche un aquilone, e decidono di giocarci, mentre tutt’intorno la guerra vera distrugge le loro vite ogni giorno. 

Tuttavia, mentre escono dal cimitero la telecamera si ferma su un cartello che indica la presenza di uranio nei cassonetti dell’immondizia. La scena non è banale: mostra un cartello che segnala una sostanza pericolosissima, ma al tempo stesso indica l’assenza di controllo. Il cimitero è accessibile senza che alcuna guardia controlli l’ingresso delle persone, tanto meno se si tratta di bambini, che possono trovare tranquillamente armi vere, senza pensare che in tutta quella ferraglia potrebbero farsi molto male in qualsiasi modo. 

Quel cartello è la metafora dell’atteggiamento dell’autorità che si disinteressa della sicurezza della popolazione. 

 

Qual è, o quali sono i messaggi che “Hassan in Wonderland” manda al pubblico?

Lo scopo del film è di far riflettere, ripeto, sul fatto che la violenza, anche in una realtà come l’Iraq, non è l’unica soluzione possibile. Ne siamo circondati, è innegabile, ma può bastare poco almeno per cambiare modo di pensare. Tutti possono farlo, dai bambini agli adulti.

Al tempo stesso, il film è basato sul presente e sul futuro affatto positivi per il paese. Credo che per i prossimi 15 anni non ci saranno miglioramenti di sostanza. E’ chiaro, ancora una volta, che poteri molto più grandi di noi hanno preparato un’agenda molto chiara, come è sempre stata chiara quella precedente.

L’Iraq fa troppa gola per le sue risorse e non può essere lasciato alla sua popolazione. Hanno rimosso Saddam dopo averlo sostenuto a lungo, ma poi hanno proseguito nella distruzione del paese che prosegue oggi senza freni. 

Se un giorno ne avremmo la possibilità, mentre si ricostruirà fisicamente il paese, ci sarà da costruire gli iracheni come popolo, oggi sempre più diviso e incapace di lottare unito per la propria libertà. 

 

Quali sono i tuoi progetti per la tua carriera? Pensi di tornare a lavorare in Iraq?

Dopo il master avrò la possibilità di rimanere un altro anno in Europa per continuare a fare teatro e per promuovere il film. La cultura rimane il centro della mia attività, e sarebbe bellissimo se lo fosse anche in futuro.

La cultura può avere un ruolo, soprattutto in Iraq, che ne è pieno come di storia e di bellezza. Ma le religioni e la politica questo ruolo lo hanno affossato per poter controllare meglio le persone, che oggi sono più disposte ad ascoltare un uomo di religione anziché un artista. 

L’Iraq però sarà una tappa costante in questo periodo, così come lo è ora. Quando posso torno, anche perché sto portando avanti un progetto per mandare sedie a rotelle e attrezzature speciali per i bambini disabili in Kurdistan, nei campi per sfollati. 

 

Di seguito il trailer di Hassan in Wonderland. 

 

February 01, 2015di: Stefano NanniIraq,Video:  Articoli Correlati: 

Redazione

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